Diseguaglianze. La priorità era dei comuni svantaggiati, per ridurre i divari, come da indicazioni Ue. Ma si scopre che tra questi ce ne sono tra i più ricchi del paese. Il governo non può non sapere
In un asilo nido © LaPresse
Sulla stampa napoletana (Marco Esposito, Il Mattino, 2 settembre) leggiamo dell’assegnazione di 700 milioni in materia di materne e asili nido, da inserire nella contabilità del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). In principio, la priorità era dei comuni svantaggiati, per ridurre divari territoriali e diseguaglianze in linea con le indicazioni Ue. Ma si scopre che tra i comuni «svantaggiati» compaiono alcuni tra i più ricchi del paese, che drenano risorse a danno di quelli più poveri secondo i parametri economici pur richiamati nel bando.
Come al solito, il trucco c’è, e si vede. Il bando di gara prevedeva che il cofinanziamento da parte dei comuni desse un punteggio aggiuntivo commisurato all’entità. Ed è allora ovvio che il comune ricco possa cofinanziare di più. Così, il comune di Milano vince su Venafro (provincia di Isernia), che pure lo precedeva in classifica prima del cofinanziamento. Milano batte Venafro uno a zero.
È STORIA ANTICA. Ad esempio, un meccanismo non diverso ha penalizzato le Università del Mezzogiorno nella assegnazione di risorse legate all’eccellenza perché questa è misurata tra l’altro con il tempo necessario per trovare un posto di lavoro dopo la laurea. Una competizione che gli atenei meridionali possono solo perdere, e non per proprio demerito.
Questo paese deve decidere se vuole davvero ridurre divari territoriali e diseguaglianze, oppure no. Chi a Palazzo Chigi ha scritto la clausola del cofinanziamento non poteva essere tanto stupido da non sapere. Dolo, e non colpa. Questo insegna che sull’attuazione del Pnrr è indispensabile mantenere una occhiuta vigilanza. Tanto più che è ormai documentata – in specie da Adriano Giannola presidente Svimez – l’ingannevolezza della tesi della «locomotiva del Nord». Le statistiche dimostrano che il Nord vincente in Italia affonda nelle classifiche territoriali europee, mentre le regioni del Centro progressivamente si meridionalizzano.
LA «LOCOMOTIVA DEL NORD» ha trainato l’Italia nella stagnazione. Bisogna invece avviare il secondo motore del paese nel Sud, e a tal fine non bastano certo il turismo, la cultura e qualche eccellenza agroalimentare. Sono indispensabili un progetto lungimirante e una ferma volontà politica. In questo contesto colpiscono in specie due cose. La prima è l’esternazione di Conte sulla legge speciale per Milano, considerata la vera locomotiva d’Italia. Non vogliamo pensare che ignori il contrasto radicale tra la locomotiva del Nord e il secondo motore da avviare nel Sud. La sua proposta è del resto opinabile anche con riferimento alla sola Lombardia e alle sue aree svantaggiate. Capiamo la sua ansia di cercare legittimazione e consensi come capo politico del Movimento 5S.
Ma la via scelta non è quella giusta, pur nel contesto della competizione amministrativa in atto. In prospettiva, servirà poco a M5S racimolare qualche stentato consenso in più nell’arco del Nord, dove è in una condizione di comparativa debolezza. La seconda è la ripartenza del circo dell’autonomia differenziata. È anzitutto censurabile che la ministra Gelmini riprenda la prassi dell’occultamento targata Stefani. Le rumorose rimostranze di Zaia riportate in specie dalla stampa locale ci dicono dell’esistenza di bozze di accordo. Diversamente, di cosa si lamenta? Ma sono tenute, per quel che sappiamo, coperte, e dovremo aspettare qualche meritoria gola profonda che le renda pubbliche.
VOGLIAMO SAPERE su cosa si sta trattando, in che termini, e con chi. Come si vuole modificare la legge quadro già di Boccia? Quali conclusioni ha raggiunto la commissione istituita dalla ministra? È vero o no che Zaia non vuole assolutamente che il Parlamento metta mano sugli accordi raggiunti tra le singole regioni e Palazzo Chigi? È vero o no che si vuole attivare il federalismo fiscale – che impatta sulla distribuzione territoriale delle risorse – prima del 2026, e quindi senza sapere quale paese uscirà dal Pnrr?
Quel che accade non è degno di un paese democratico. Ci aspettiamo che i parlamentari delle commissioni competenti – affari costituzionali, finanze, bilancio, bicamerali per le questioni regionali e il federalismo fiscale – pretendano di vedere le carte e di discutere. O forse preferiscono vivacchiare, magari sperando che alla fine arrivi la mordacchia di una questione di fiducia? Sarebbe allora difficile contrastare l’opinione di non pochi che gli eletti siano solo dei costosi mangiapane a ufo.
Commenta (0 Commenti)Un coraggio del genere. «Vogliamo diritti e libertà». «No, il vostro posto è a casa». A rischio anche l’istruzione. E nel Panjshir s’intensificano i combattimenti
Donne in protesta a Kabul © LaPresse
«Diritti e libertà», gridano le donne a Kabul. «Il vostro posto è a casa», replicano i Talebani. Ieri a Kabul si è tenuta un’altra dimostrazione di donne, dopo quella del giorno prima a Herat. Coraggiosamente, pubblicamente, rivendicavano diritti, lavoro, libertà, educazione, in una città in cui cambia anche il paesaggio urbano: cominciano a sparire i graffiti del gruppo ArtLords, sostituiti dagli ammonimenti di mullah Haibatullah Akhundzada: «Non seguite la propaganda del nemico». Mentre i turbanti neri sostengono di aver conquistato anche l’ultimo territorio, la valle del Panjshir, anche se i protagonisti della resistenza, Amrullah Saleh e Ahmad Massud, negano.
SI È APERTA DUNQUE con una dimostrazione di coraggio la giornata di ieri a Kabul, dove in molti attendevano l’annuncio del nuovo governo, che ancora non c’è: problemi di incarichi, dissidi interni, mormora più di uno. Per le vie della capitale hanno manifestato una ventina di donne. Poche, ma coraggiose. Scandivano slogan chiari: ci siamo, facciamo parte del Paese, vogliamo studiare, lavorare, partecipare, far sentire la nostra voce. La manifestazione è stata interrotta, di fronte al ministero delle Finanze, da un paio di militanti islamisti. Intervenuti con le maniere forti. «Tornatevene a casa, non è il vostro posto, qui».
LA PROTESTA SEGUE quella che due giorni fa si è tenuta a Herat,
Leggi tutto: Le donne protestano e gli uomini fanno la guerra - di Giuliano Battiston
Commenta (0 Commenti)Afghanistan oggi. L’inconfessabile ruolo di Washington e dei suoi alleati, Arabia saudita e Pakistan in primis, nella "talebanizzazione" del Paese.
L’arrivo della delegazione talebana a Doha per i colloqui con l’emissario di Trump © Ap
Durante l’«Operazione Afshar» del febbraio 1993 l’allora comandante tagiko Ahmad Shah Masud rivestì un ruolo di primo piano nell’uccisione di migliaia di Hazara afghani, impegnati, per larga parte degli anni Novanta, in una lotta senza quartiere contro i talebani.
Suo figlio, il 32enne Ahmad Masud, formatosi in Gran Bretagna, è oggi l’idolo di numerosi intellettuali, analisti e politici occidentali. Molti di essi sono alla ricerca di una «figura affidabile» (a good guy, per usare un’espressione adottata da alcuni studiosi e analisti) sulla quale puntare: una dinamica peraltro già osservata in numerosi altri contesti in cui gli Stati uniti e i loro alleati sono intervenuti in anni e decenni recenti.
TALE APPROCCIO, così come i sempre attuali dibattiti sul «valore della promozione della democrazia» e i filmati dei soldati Usa intenti a «salvare civili afghani» all’aeroporto di Kabul (civili che saranno ospitati in paesi come gli Emirati Arabi Uniti e non sul suolo statunitense), servono due obiettivi principali.
Da un lato relegano in secondo piano il ruolo storico che gli Stati uniti e i loro alleati hanno rivestito nella destabilizzazione e “talibanizzazione” dell’Afghanistan. Dall’altro forniscono una semplicistica percezione che contrappone un “Occidente” illuminato a un “Oriente” arretrato, intrinsecamente violento, rappresentato in questo caso dall’Afghanistan.
Dal 2015 a oggi numerosi scontri hanno visto contrapposti i Talebani al cosiddetto “Stato islamico”: la frattura e le violenze che la sottendono sono ancora ben visibili. Il principale punto di collegamento tra il neo sovrano talebano dell’Afghanistan, Abdul Ghani Baradar, e il defunto capo dello Stato islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, è rintracciabile nel fatto che entrambi sono stati scarcerati su pressione degli Stati uniti: Washington è risultata determinante nel processo che ha (ri)portato queste figure al centro delle scene.
BARADAR, IN PARTICOLARE, è stato rilasciato il 20 ottobre 2018, divenendo ben presto l’interlocutore locale di riferimento dell’ex presidente americano Donald Trump. Quest’ultimo ha avviato negoziati formali che hanno escluso il governo afghano, guidato dal controverso presidente Ashraf Ghani. Ha inoltre revocato le sanzioni imposte ai talebani e fatto rilasciare dalle carceri circa 5.000 militanti.
Oltre due decenni prima dell’ascesa politica di Trump, nel settembre del 1994, Baradar co-fondò insieme al mullah Omar il movimento dei Talebani. Due anni più tardi (1996), lo stesso mullah Omar istituì l’Emirato islamico dell’Afghanistan, nominando Baradar come suo vice. Da allora e fino all’ottobre del 2001, all’alba dell’invasione dell’Afghanistan, solo tre paesi riconobbero il neonato stato-terrorista talebano: Emirati Arabi Uniti, Arabia saudita e Pakistan.
I TORBIDI INTRECCI FINANZIARI sull’asse Afghanistan-Emirati Arabi Uniti sono stati documentati da un ampio numero di fonti ufficiali. Per citare un documento reso pubblico da WikiLeaks e connesso al clan Masud, Ahmad Diya Masud (fratello di Ahmad Shah Masud) è entrato negli Emirati Arabi Uniti con «52 milioni di dollari» in contanti, vedendosi accordare dalle autorità locali la facoltà di non dover fornire dettagli «sulla provenienza o la destinazione di tale denaro».
Per quanto concerne il «grande alleato strategico di Washington» nella regione (l’Arabia saudita), sin dai tempi della brutale, per alcuni «genocidaria», invasione sovietica dell’Afghanistan, Riyad ha rappresentato il principale finanziatore regionale dei mujaheddin – molti dei quali venuti per liberare la «nazione musulmana dell’Afghanistan» dai «comunisti e atei» invasori sovietici – e di una serie di gruppi poi confluiti nel movimento talebano.
Stando a un dispaccio redatto il 30 dicembre 2009 dall’allora segretaria di Stato Usa Hillary Clinton, «i donatori presenti in Arabia saudita rappresentano a livello mondiale la più significativa fonte di finanziamento dei gruppi terroristici sunniti. L’Arabia saudita resta una fondamentale risorsa di sostegno finanziario per Al Qaeda , i Talebani, LeT (Lashkar-e-Taiba) e altri gruppi terroristici».
Sia pur in misura più limitata, un discorso simile vale anche per il Pakistan – Paese, almeno sulla carta, alleato degli Usa nonché rifugio sicuro e primaria fonte di finanziamento per i combattenti talebani – dove il leader di Al Qaeda, Osama bin Laden (ucciso ad Abbottabad nel maggio 2011) fuggì insieme ai suoi più fedeli seguaci nel dicembre 2001.
Tale fuga avvenne nei giorni in cui il portavoce dei talebani annunciò una resa incondizionata e appena due mesi dopo la proposta dei talebani di consegnare Bin Laden: entrambe le offerte vennero respinte dall’allora presidente George W. Bush e dal suo segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld.
DA UNA PROSPETTIVA STORICA, Al-Qaeda ha dunque molto più a che vedere con fondi e politiche legate ai tre paesi citati – oltre al fatto che 15 dei 19 terroristi implicati negli attentati dell’11 settembre erano cittadini sauditi – piuttosto che con l’Afghanistan o qualsiasi altro paese della regione.
Cui prodest? Negli ultimi due decenni gli Stati uniti hanno investito oltre 2 trilioni di dollari, larga parte dei quali al fine di addestrare ed equipaggiare una forza militare afghana. Quest’ultimo si è sciolto come neve al sole nell’arco di appena una settimana. La ragione è riconducibile alla natura stessa della guerra in Afghanistan (e in Iraq). Essa non ha infatti mai avuto tra i suoi principali obiettivi l’addestramento militare, né tanto meno la «promozione della democrazia».
Il motore trainante di questi ultimi due decenni va invece rintracciato in valutazioni di carattere storico e geostrategico – le prime radicate negli anni Settanta, le seconde connesse all’accesso alle risorse energetiche e a molto altro – nonché negli enormi profitti connessi al comparto Difesa, che, nei soli Stati uniti, è passato da 305 a 754 miliardi di dollari di budget tra il 2001 e il 2021.
Più nello specifico, è stato stimato che circa l’80-90% degli investimenti di Washington in Afghanistan è rientrato negli Stati uniti tramite contratti stipulati con una miriade di compagnie private. In questo senso, Lockeed Martin (che produceostruttrice tra l’altro di elicotteri Black Hawk, F-35 Stealth e lanciarazzi MLRS) e le altre quattro principali società abitualmente citate (Boeing, Raytheon, Northrop Grumman and General Dynamics) andrebbero intese come la punta di un iceberg assai più ampio.
Ciò ha avuto un costo umano enorme per milioni di afghani (metà della popolazione ha meno di 19 anni). Qui basti accennare al fatto che, stando a dati forniti dal dipartimento di Stato degli Stati uniti, tra il 2001 e il 2014 gli attentati terroristici sono aumentati del 3800%, passando da 355 nel 2001 a 13.500 nel 2014: circa la metà di essi sono avvenuti in Afghanistan e in Iraq. A ciò si aggiunga che, stando ai dati forniti dal Bureau of Investigative Journalism, nei 5 anni successivi (2015-2020) Washington ha lanciato oltre 13.000 attacchi con droni: hanno causato la morte di circa 10.000 afghani, compresi numerosi civili.
LE RADICI IDEOLOGICHE del movimento talebano sono storicamente riconducibili all’India coloniale e precisamente al 1867 (dieci anni dopo la “rivolta dei Sepoy”, la rivolta nazionalista indiana in chiave anti-britannica), quando il neonato movimento Deobandi diede forma a un movimento anticoloniale progettato per «rivitalizzare l’Islam».
Quanto all’Afghanistan, che in epoca moderna ospitava alcuni dei centri urbani più avanzati e cosmopoliti del mondo, è stato a lungo considerata dalla Gran Bretagna come una sorta di “stato cuscinetto” funzionale all’obiettivo di limitare l’espansione russa in Asia centrale. Un significativo esempio legato a questo tipo di approcci è ravvisabile nella cosiddetta «Linea Durand», tracciata da Londra in Afghanistan nel 1893: un confine, da sempre controverso, che ancora oggi spiega il motivo per il quale gli afghani chiamano «Pashtunistan» la parte occidentale del Pakistan.
Tra l’epoca di Durand e l’invasione sovietica del 1979/89 – quando gli Stati uniti (insieme a Pakistan, Gran Bretagna e Arabia saudita) finanziarono e armarono i mujaheddin arabi poi confluiti nel movimento dei talebani – l’Afghanistan ha acquisito gran parte delle sue attuali caratteristiche. È stato dimostrato che anche i libri di testo utilizzati in Afghanistan (dai talebani stessi) negli anni Ottanta furono prodotti (in pashto e in dari) e finanziati dalla Cia.
MOLTI OSSERVATORI ESTERNI alla regione, in particolare in Europa e negli Stati uniti, tendono a trascurare questo retroterra, approcciando il drammatico presente dell’Afghanistan come fosse qualcosa che appartiene a popoli largamente avulsi dalla “nostra” storia, passata e presente. È necessario superare questa segregante interpretazione che divide la “nostra storia” dalla “loro storia”, aprendo la strada a un approccio più umile verso i popoli della regione e il loro carico di sofferenza.
Gli “stati occidentali”, fatti salvi pochi casi isolati, non stanno aiutando gli afghani, né lo hanno fatto in passato: le politiche di questi stessi paesi vanno al contrario annoverate tra le ragioni strutturali che hanno condannato milioni di esseri umani ad affrontare decenni di guerre, umiliazioni e violenze.
Eppure, come ci ha insegnato più volte la storia, ciò che inizia in Afghanistan non rimane in Afghanistan.
Tomaso Montanari. Tra strumentalizzazioni di opinioni e falsità conclamate, l'agire di un intellettuale critico come Tomaso Montanari ha scatenato una gazzarra a tratti grottesca ma rappresentativa ed inquietante del presente e del futuro dell'eredità della Resistenza nella Repubblica
Nel giugno del 1953, per la prima volta dalla fine della guerra, si formò il gruppo dei deputati del Msi in Parlamento. Fu allora che Piero Calamandrei dedicò a donne e uomini della Resistenza una sua celebre ode che li invitava a «non rammaricarsi se nell’aula ove fu giurata la Costituzione murata col vostro sangue sono tornati i fantasmi della vergogna». Per il padre costituente era bene che i fascisti fossero «esposti «perché tutto il popolo riconosca i loro volti e si ricordi».
Difficilmente avrebbe immaginato che oggi riconoscere quei fantasmi potesse rovesciare impunemente il senso di quella storia.
Così tra strumentalizzazioni di opinioni e falsità conclamate, l’agire di un intellettuale critico come Tomaso Montanari ha scatenato una gazzarra a tratti grottesca ma rappresentativa ed inquietante del presente e del futuro dell’eredità della Resistenza nella Repubblica.
Montanari ha avuto «l’ardire» di
Leggi tutto: Il dito e la luna, le foibe e la memoria del fascismo - di Davide Conti
Commenta (0 Commenti)Lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha appena annunciato di aver rassegnato le dimissioni dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali, del quale fa parte in qualità di Presidente del Comitato Tecnico-Scientifico per le Belle Arti (era stato nominato membro del Comitato in quota tecnica, dal Comitato Universitario Nazionale).
La ragione delle dimissioni è stata brevemente introdotta da Montanari con un tweet: “Oggi mi sono dimesso dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali”, ha scritto lo studioso, “per denunciare l’arroganza del ministro Dario Franceschini nella nomina del soprintendente dell’Archivio Centrale dello Stato, apologeta di Rauti”. Montanari ha poi annunciato che spiegherà ulteriormente le motivazioni del suo gesto domani su Il Fatto Quotidiano, il giornale su cui abitualmente scrive.
Tutto, insomma, parte dalla nomina di Andrea De Pasquale alla guida dell’Archivio Centrale dello Stato, oggetto di aspre polemiche, nelle quali era intervenuto lo stesso Montanari, adducendo sia ragioni tecniche (De Pasquale veniva descritto come un bibliotecario “con esperienze archivistiche del tutto inconferenti a quel ruolo cruciale”) sia politiche, a causa del precedente legato all’acquisizione del fondo Rauti per la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Sulla nomina di De Pasquale è intervenuto anche il ministro Dario Franceschini, rispondendo questa mattina a Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage della Stazione di Bologna, per motivare le ragioni della nomina (“ho ritenuto il dott. De Pasquale il più idoneo in quanto, oltre a possedere i necessari titoli di archivista, ha, negli ultimi anni, diretto con molta efficacia la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma”, ha scritto il ministro della cultura) e rassicurare circa la trasparenza con cui De Pasquale svolgerà il suo lavoro (“vorrei dirvi che le preoccupazioni non hanno ragione di esistere”, ha scritto Franceschini. “Lo dimostrano anche le parole di pochi giorni fa con cui il neo direttore ha dissipato ogni dubbio sul suo totale impegno sull’assicurare la fruizione dei documenti oggetto di declassificazione in base alle direttive”).
Le parole del ministro non sono state però ritenute sufficienti da parte dell’ambiente. Sono state subito commentate dai presidenti dei comitati per le vittime delle stragi di Bologna, Paolo Bolognesi, di piazza Fontana, Carlo Arnoldi, di Piazza Loggia, Manlio Milani, e del treno Italicus, Franco Sirotti, dalla famiglia Mario Amato nonché dall’associazione Mi Riconosci, che le hanno giudicate insufficienti. “Il Ministro”, hanno scritto Bolognesi, Arnoldi, Milano, Sirotti, Amato e Mi Riconosci in una lettera congiunta, “nella lettera ignora il fatto che De Pasquale, pur avendo una formazione in parte archivistica (la divisione più o meno netta tra i due percorsi formativi è cosa recente), è entrato al Ministero in qualità di bibliotecario e, come si vede nel suo curriculum, ha sempre diretto biblioteche e mai un archivio, che ha regole e bisogni diversi. Che la sua prima esperienza dirigenziale nell’ambito sia l’Archivio Centrale dello Stato fa una certa impressione, anche perché ciò ignorerebbe una legge del 2008 che impone di avere un funzionario archivista come direttore dell’archivio” (ragione quest’ultima che era stata sottolineata anche da Montanari).
Franceschini, nella sua nota, ha scritto che la nota che celebrava Rauti era stata ritirata e non era da attribuire a De Pasquale. Tuttavia, sottolineano i firmatari della risposta, il ministro “omette di dire che l’inaugurazione, che era prevista nel giorno del compleanno di Pino Rauti e annullata causa Covid, fu sostituita da un video che la figlia girò all’interno della biblioteca nazionale e che il messaggio, preparato dalla famiglia ma diffuso su tutti i canali della biblioteca, descriveva Rauti come ’organizzatore, pensatore, studioso, giornalista. Tanto attivo e creativo, quanto riflessivo e critico’, tacendo naturalmente dei suoi decenni di attivismo contro lo Stato e la Repubblica, mentre il fondo era definito ’una fonte di informazione politica di prim’ordine e anche un valido punto di riferimento di natura culturale’. Ma soprattutto il fondo, allestito seguendo le indicazioni della famiglia, è ancora lì, consultabile solo previa autorizzazione, senza strumenti di contesto adeguati e una nota biografica di Rauti sbrigativa e senza contesto nella sua parte relativa ad Ordine Nuovo, allo stragismo, all’eversione nera e alle inchieste successive, rischiando di fornire agli utenti della Biblioteca uno strumento parziale e fuorviante sulla figura del militante neofascista e sugli anni della ’strategia della tensione’: una presenza che ha da subito assunto un sapore politico, come rivendicato anche dalla donatrice Isabella Rauti negli interventi sopra citati”.
I firmatari puntano il dito anche contro il fatto che De Pasquale, quando era direttore della Biblioteca Nazionale Centrale, fu coinvolto nel 2017 nella vicenda degli “scontrinisti”, 22 “volontari” che quell’anno denunciarono che in realtà lavoravano con turni e compiti specifici, ed erano pagati a rimborso spese attraverso la consegna di scontrini fino a 400 euro al mese. “Il direttore”, spiegano i firmatari, “non solo non si impegnò per tutelare questi lavoratori, ma non si registra neppure una vera e propria presa di distanze nelle cronache del tempo. A maggio, gli scontrinisti ricevettero un SMS che chiedeva loro di non presentarsi più al lavoro, e pochi giorni dopo venne pubblicato un nuovo bando per volontari pagati con rimborso spese”. Franceschini, nella sua risposta a Bolognesi, non ha fatto alcun cenno a questa vicenda. “Insomma”, concludono i firmatari, “il Ministro non solo non ha dipanato i dubbi per quanto riguarda la capacità del nuovo direttore di mantenere un’autonomia scientifica (il fatto che non fosse a conoscenza del comunicato su Pino Rauti, come lascia intendere Dario Franceschini, appare un’aggravante), ma ha completamente ignorato i dubbi riguardanti la strana scelta di nominare un bibliotecario con competenze archivistiche, e non un archivista, a direttore del più importante Archivio dello Stato, e i pregressi riguardo lo sfruttamento del lavoro gratuito”.
Adesso tutti rinnovano l’appello a Franceschini a revocare la nomina. Montanari stesso auspicava che le associazioni delle vittime possano impugnare la nomina: “sarebbe importante”, ha scritto su Il Fatto Quotidiano, “perché ormai da anni è in corso un’agguerrita campagna culturale da parte di una destra più o meno apertamente fascista: una battaglia il cui obiettivo è niente meno che un revisionismo di Stato. E cioè la cancellazione della storia che racconta cosa fu davvero il fascismo, e cosa è stato il neofascismo criminale della seconda metà del Novecento”.
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In fuga da Kabul dopo la vittoria dei talebani © Ap - LaPresse
In questi giorni molti parlano del fallimento in Afghanistan. Ed è sotto gli occhi di tutti. 20 anni in cui sono morti 170mila civili (a cui vanno aggiunti le migliaia di militari e combattenti uccisi) e sono stati spesi 5,4 mila miliardi di euro che, se utilizzati a fin di bene, avrebbero potuto debellare la povertà più estrema nel mondo e garantire l’accesso all’acqua potabile a chi non ha questa «fortuna» (2,5 miliardi di persone).
Per dare un’idea, abbiamo speso per la guerra in Afganistan 33 volte di più di quanto tutti i paesi dell’Ocse (il club delle nazioni più ricche) investono ogni anno per l’aiuto allo sviluppo (161 miliardi). In tutto questo l’Italia è stata attiva complice mandando sul campo migliaia di soldati e – come ha denunciato la campagna Sbilanciamoci – destinando 10 miliardi di euro, più del doppio di quanto spendiamo ogni anno per l’aiuto pubblico allo sviluppo (in tutto il mondo). Ora, le forze politiche italiane si stracciano le vesti, senza ammettere le proprie responsabilità, il fallimento oltre che della missione anche delle loro idee e politiche guerrafondaie.
La popolazione afghana torna sotto il giogo dei talebani, le speranze delle donne e degli uomini di quel paese di vivere senza l’oppressione e la cappa di una dittatura finiscono tragicamente e amaramente. Quanta retorica (umanitaria) è stata fatta su una guerra (camuffata da intervento di pace) che sarebbe servita per permettere alle donne di andare a scuola e all’università e di togliersi il burqa e alla popolazione di sperimentare le virtù della democrazia e dei diritti umani. Tutto finito. La guerra umanitaria, dai tempi del Kosovo, è solo un tragico inganno, un ossimoro insostenibile. La guerra è sempre contro l’umanità.
Nei giorni in cui piangiamo la scomparsa di Gino Strada, val la pena ricordare la sua condanna della guerra «senza se e senza ma». La guerra è un crimine, una violazione del diritto umanitario internazionale, non risolve i problemi ma aggiunge altra sofferenza, nuove vittime. Ci avevano detto che l’intervento in Afghanistan sarebbe servito a debellare il terrorismo, che invece si è propagato nel mondo: l’Isis non è certamente un lontano ricordo; che sarebbe servito a portare la democrazia e i diritti umani, e così non è stato; che sarebbe servito a stabilizzare la regione, e così non è. «L’imperialismo dei diritti umani», come una volta ebbe a definirlo infaustamente Tony Blair si è dimostrato per quello che è: imperialismo, e basta. Ora, Blair dice che l’errore è stato quello di avere affrontato l’Islam paese per paese, mentre va affrontato nella sua globalità: sì, una bella guerra umanitaria mondiale, una nuova crociata dei cristiani contro i musulmani. Una guerra infinita e permanente come – in piena sintonia con Bush jr- torna ad auspicare con la sua bulimia opinionistica Bernard Henry-Levy.
Quello cui assistiamo non è solo il fallimento dell’intervento in Afghanistan ma il fallimento della guerra. È quello che i pacifisti dicono da anni: le guerre sono sempre fatte per interessi economici e strategici, di potere, un affare per i produttori di armi e una tragedia per la popolazione civile.
Bisognerebbe mettere in campo una politica di prevenzione dei conflitti ma nessuno fa. Sarebbero necessarie Nazioni Unite con poteri e strumenti effettivi, veramente riformate e libere dal dominio delle grandi potenze, ma così non è.
Quando nel 1992 il segretario dell’Onu Boutrous Ghali promosse l’Agenda per la pace (che serviva a dare strumenti all’Onu per prevenire le guerre) fu irriso, sbeffeggiato. Quel documento finì nel cestino. Abbiamo visto che Piero Fassino in questi giorni, rivendicando le scelte fatte, ha detto che per la pace serve il «peace enforcement» alludendo alla Nato e ai suoi interventi, Con il piccolo particolare che il «peace enforcement» non è una guerra ed è regolamentato da un capitolo della carta delle Nazioni Unite, capitolo cui le grandi potenze non hanno mai voluto dare attuazione: avrebbe significato cedere sovranità al Palazzo di vetro.
Quasi nessuno dei politici italiani ha il coraggio di ammettere che sull’Afghanistan (e sulle altre guerre) avevano ragione i pacifisti. Servirebbe una politica (non militare) di promozione della pace, della cooperazione, dei diritti umani, ma non succede. Servirebbe il disarmo, ma le spese militari continuano a crescere. Di chi è la responsabilità? Dei governi che continuano ad investire nella guerra, nelle armi, in politiche di potenza economica e strategica. Quello che l’Afghanistan ci insegna è che dobbiamo cambiare strada. La guerra porta solo rovine.
* L’autore è Portavoce di Sbilanciamoci
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