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Presidio dei lavoratori Whirlpool al Mise

Presidio dei lavoratori Whirlpool al Mise © LaPresse

Dicono che qualora l’Italia si dotasse di un sistema di protezione dai licenziamenti collettivi per cessata attività, le imprese straniere cesserebbero qualsiasi investimento nel nostro paese. Il ragionamento ha la forza della tautologia, in un contesto viziato da trent’anni di dibattito pubblico orientato nella direzione della massima flessibilità, ovvero precarizzazione, del lavoro, approdato nell’abolizione dell’Articolo 18 (governo Renzi).

Il principio cardine è che l’occupazione possa svilupparsi solo in assenza di tutele. Non esiste naturalmente alcuna evidenza empirica che confermi questo assunto, ma per chi si è formato o conformato ai dogmi del neoliberismo si tratta appunto di un articolo di fede.

Io credo invece che sia sbagliato sempre, ma che diventi addirittura drammatico se

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Afghanistan. I «turbanti neri» sono eredi della nostra storia. E hanno preso il potere negli anni Novanta a Kabul grazie al Pakistan legato a fil doppio ad al Qaeda (governava l’«eroina» Benazir Bhutto). Draghi «chiederà consiglio» nel G20 a Paesi arabi amici come l’Arabia saudita: chiediamo a oscurantisti truculenti di farsi paladini dei diritti delle donne e della libertà di opinione?

 

Siamo tutti talebani? Nel senso che da tempo l’Occidente è amico dei peggiori talebani del mondo? Pare di sì. Gli Usa, la Nato, l’Italia, vendono armi e lisciano il pelo a monarchie assolute e oscurantiste come l’Arabia Saudita. Mohammed bin Salman tortura e fa a pezzi un giornalista, Renzi si fa pagare da lui e lo definisce un “principe del rinascimento”. In fondo siamo tutti talebani, basta che paghino.
Sarebbe ora che ci dicessimo in faccia la verità: i talebani li abbiamo voluti noi occidentali con i nostri alleati arabi, quelli ricchi beninteso, dei poveracci non sappiamo che farcene.

L’ossessione del comunismo un tempo era tale che gli Usa e l’Occidente avrebbero fatto carte false pur di far fuori Mosca. La jihad in Afghanistan l’abbiamo fomentata e sostenuta negli anni Ottanta per sconfiggere i sovietici. Gli arabi pagavano i mujaheddin, il Pakistan ospitava i gruppi radicali, gli Stati Uniti dirigevano le danze.

ALL’EPOCA Osama bin Laden era un alleato benemerito perché la sua famiglia finanziava la guerriglia contro l’Urss: la società di costruzioni Bin Laden, di cui gli americani erano soci, forniva, tra l’altro, le scavatrici per costruire i tunnel che proteggevano i combattenti dai raid aerei di Mosca. Gli stessi tunnel che poi Bin Laden ha usato insieme ai talebani del Mullah Omar, per addestrare gli attentatori dell’11 settembre 2001, quasi tutti sauditi, e da cui è fuggito in Pakistan dove è stato ucciso nel maggio 2010.

Per abbattere l’Urss, gli Usa e gli arabi del Golfo hanno pagato un’intera generazione di combattenti che affluivano da tutto il mondo musulmano. Per colpire gli aerei la Cia aveva fornito ai mujaheddin i missili Stinger, un’arma tra le più efficaci in circolazione. Questi combattenti avrebbero poi costituito battaglioni di terroristi che hanno destabilizzato il Medio Oriente e poi colpito anche in Europa. Il problema è cominciato quando l’Unione sovietica si è ritirata dall’Afghanistan nell’89. Gli Usa e gli occidentali abbandonarono – more solito – il Paese al suo destino e i jihadisti si sentirono traditi: avevano abbattuto i comunisti e ora gli americani voltavano le spalle. È così che i nostri alleati afghani, definiti sui media occidentali «combattenti della libertà», si sono trasformati in nemici.

I talebani sono gli eredi di questa storia. Con una notazione: per prendere il potere negli anni Novanta a Kabul avevano bisogno dell’aiuto del Pakistan e a organizzare la loro ascesa fu il governo di Benazir Bhutto, acclamata in Occidente come un’eroina e poi uccisa in un attentato nel 2007. Non dobbiamo stupirci: l’Afghanistan da sempre viene considerato da Islamabad essenziale alla «profondità strategica» del Pakistan. I generali pakistani erano legati a Bin Laden, che distribuiva soldi a tutti, e molti della «lista nera» di Washington stavano tranquillamente in Pakistan. Non è un caso che Bin Laden sia stato ucciso nella città pakistana di Abbottabad nel 2011 dove è stato latitante per un decennio.

OGGI LA STORIA si ripete. L’Emiro dei talebani Akhunzadah, il vero capo del movimento, dirige anche una manciata di moschee e di scuole coraniche in Pakistan. Il Mullah Baradar venne arrestato nel 2010 in Pakistan e nel 2018 sono stati proprio gli americani a richiederne ufficialmente la scarcerazione. Era con lui che volevano trattare.

Dopo otto anni di training Baradar ha imparato la lezione: se fai il bravo con Washington, a casa tua puoi comportarti come ti pare. Altro che esportazione della democrazia. Basta vedere i sauditi, una monarchia assoluta totale, che non lascia uscire di casa le donne, le quali non possono viaggiare senza il consenso del marito – sempre ovviamente velate dalla testa ai piedi – ma siccome sono i migliori clienti di armi americane e sostengono il complesso militare-industriale Usa possono fare quello che vogliono.

Noi alle monarchie assolute del Golfo non andiamo mai a chiedere conto dei diritti umani, di quelli delle donne o delle minoranze, lasciamo che mettano in galera giornalisti e oppositori senza fare una piega perché ci pagano profumatamente. Siamo degli ipocriti senza vergogna: capaci persino, come ha fatto quel Renzi, di lodare Mohammed bin Salman, il principe saudita che ha fatto torturare e tagliare a pezzi il giornalista Jamal Khashoggi, colpevole di averlo criticato sui giornali.

I nostri amici arabi sono come i talebani ma noi stiamo zitti e muti perché ci pagano. Anzi siccome sono anche nel G-20, come l’Arabia saudita, Draghi ha detto che chiederà loro consiglio su come fare pressione sui talebani. Sembra una parodia: domandiamo a dei truculenti oscurantisti di diventare i paladini dei diritti delle donne e della libertà di opinione.

QUINDI OGGI non ci deve fare troppo schifo anche il Mullah Baradar. È stato lui a firmare gli accordi Doha e a stringere la mano davanti alle telecamere al segretario di stato Mike Pompeo. Sia l’Emiro Akunzadah che il suo vice Baradar da giovani sono stati combattenti anti-sovietici. Akunzadah tra l’altro è cognato del Mullah Omar e nel suo staff lavora anche Yakoob, il figlio del Mullah fondatore dei talebani, deceduto qualche anno fa – guarda caso – in un ospedale pakistano a Karachi. Insomma questa è anche una foto di famiglia, della loro come della nostra. Se Baradar e il suo capo fanno i bravi ragazzi, impantanando cinesi, russi e iraniani in Afghanistan, riapriremo le ambasciate a Kabul con la scusa che dobbiamo proteggere i diritti umani e delle donne. In fondo «siamo» tutti talebani.

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L'Afghanistan che verrà. I governi degli eserciti che per due decenni hanno presidiato il campo afghano hanno chiuso, con le ambasciate, le porte della diplomazia. Ma il lavoro politico non si fa via zoom

Fiumicino, atterraggio di uno dei voli di evacuazione dall'Afghanistan

 

Fiumicino, atterraggio di uno dei voli di evacuazione dall'Afghanistan  © Ap

Ha ragione Lakhdar Brahimi, veterano delle Nazioni unite, che ieri ha detto ad Al Jazeera che l’Onu dovrebbe intensificare gli sforzi diplomatici in Afghanistan: «È tempo – ha detto – di diplomazia». Mentre il dibattito sembra vertere invece solo sulla fuga da Kabul e sulla cattiveria della guerriglia in turbante, riappare la politica e quella parola magica che ne presuppone altre: negoziato, trattativa, dialogo. Ha ragione Lakhdar Brahimi. Ma è solo. O meglio, se l’Onu ha comunque già deciso di non abbandonare il Paese, i governi degli eserciti che per due decenni han presidiato il campo afghano hanno invece chiuso, con le ambasciate, le porte della diplomazia.

ANZICHÉ ESSERE DOVE ORA si dovrebbe trattare, negoziare, accompagnare, le ambasciate occidentali si sono trasferite a casa come se anche il lavoro politico si potesse fare via zoom. In Afghanistan la pandemia si chiamava, oltreché Covid, anche “guerra” e per gestirne la sua (apparente) fine sarebbe necessario essere lì, non certo dall’altra parte del pianeta.

Aiutare chi si sente minacciato è un dovere etico oltreché un atto di solidarietà dovuto ed è dunque necessario che, come da più parti si chiede, il ponte aereo vada avanti sino alla finestra del 31 agosto (che pare sia stata garantita da chi comanda a Kabul) imbarcando tutte le persone in serio pericolo le cui liste sono state inviate al ministero degli Esteri e della Difesa. Ma terminata questa missione emergenziale

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Dossier Viminale . La pericolosità per le donne della sfera familiare si riscontra anche negli ammonimenti dei Questori: quelli per violenza domestica sono saliti a 1.160 (tre anni fa erano 667) mentre è rimasto costante il numero di allontanamenti (403). Risultano invariate anche le denunce per stalking (quasi 16mila) di cui, in tre casi su quattro, sono vittime le donne

 

Un Paese mai stato così sicuro, ma non per le donne, i giornalisti e gli amministratori locali. È la realtà che emerge dal “Dossier Viminale” pubblicato come ogni anno a Ferragosto in occasione della riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. A catalizzare l’interesse di politici e opinionisti è stato soprattutto l’incremento del numero di migranti sbarcati sulle nostre coste (49.280 di cui 40.727 per “sbarchi autonomi”). Ma sono altre le informazioni del Dossier a cui andrebbe posta attenzione: sono dati che sconfessano “l’emergenza sicurezza” agitata per anni dalle destre e sollevano interrogativi su problemi poco dibattuti.

Innanzitutto il dossier riporta il calo generale dei crimini (-7,1%) ed in particolare dei furti (-12,8%) e delle rapine (-3,8%) mentre, complice anche l’emergenza Covid, ad aumentare sono stati i reati informatici (+27,3%) e le truffe (+16,2%). Ma soprattutto è da notare la diminuzione degli omicidi volontari (da 295 dell’anno precedente a 276, con un decremento del 6,4%), che toccano così il minimo storico e fanno dell’Italia di oggi uno dei Paesi più sicuri nel mondo.

Sono diminuiti anche gli omicidi nell’ambito familiare-affettivo (-8,3%), ma i 144 omicidi rilevati in questa sfera rappresentano più della metà (il 52,2%) del totale nazionale e confermano una tendenza degli ultimi anni: la crescente pericolosità del contesto familiare-affettivo. Soprattutto per le donne: gli 88 omicidi di donne in quest’ambito mostrano che tre omicidi su cinque (il 61,1%) hanno come vittima proprio una donna. Più in generale, i 105 omicidi di donne registrati nell’ultimo anno rappresentano il 38% di tutti gli omicidi volontari in Italia: sebbene siano in calo (l’anno precedente erano 122) indicano un problema che non può essere sottovalutato.

La pericolosità per le donne della sfera familiare si riscontra anche negli ammonimenti dei Questori: quelli per violenza domestica sono saliti a 1.160 (tre anni fa erano 667) mentre è rimasto costante il numero di allontanamenti (403). Risultano invariate anche le denunce per stalking (quasi 16mila) di cui, in tre casi su quattro, sono vittime le donne.

Un altro minimo storico è rappresentato dai 13 omicidi attribuibili alla criminalità organizzata (erano stati 22 l’anno precedente). In proposito è rilevante ed inquietante il raffronto col numero di omicidi commessi da legali detentori di armi: il Viminale non riporta dati, ma quelli reperibili nel datatase dell’Osservatorio OPAL di Brescia indicano che nel periodo agosto 2020-luglio 2021 vi sono stati 30 omicidi con armi regolarmente detenute. Questo significa che i legali detentori di armi sono responsabili di più del doppio degli omicidi commessi dalla criminalità organizzata: in altre parole, oggi in Italia è maggiore il rischio di essere uccisi da un legale detentore di armi che dalla mafia o da un rapinatore.

È un fenomeno persistente negli ultimi anni che dovrebbe indurre ad una specifica attenzione da parte del Viminale e delle forze politiche: i fatti recenti, tra cui lo sterminio a Rivarolo Canavese di quatto persone (la moglie, il figlio disabile e una coppia di anziani vicini di casa) da parte di un anziano che a 83 anni deteneva armi con una licenza di tiro sportivo e la strage di Ardea in cui un anziano e due fratellini sono stati uccisi con un’arma ereditata dovrebbero portare ad una revisione in senso più restrittivo delle norme sulle licenze e a maggiori controlli sui legali detentori di armi.
La questione riguarda anche altri due fenomeni preoccupanti che il Dossier segnala: l’aumento degli atti intimidatori nei confronti degli amministratori locali (nel primo semestre 2021 sono stati 369 gli amministratori minacciati, tra cui 189 sindaci) e verso i giornalisti (110 giornalisti minacciati, in buona parte per attività socio-politica). Norme troppo blande come quelle attuali sulla detenzione di armi possono favorire – come rilevava un rapporto Censis del 2018 – “una formidabile tentazione ad usarle” considerato che “molti assassini sono in possesso di regolare licenza”. Anche per questo è urgente aprire una seria riflessione sulle armi in Italia.

*(Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa – OPAL)

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Afghanistan . Due obiettivi sono ora importanti: trattare con i Talebani per ottenere canali per l’espatrio e dialogare con Teheran per far passare ai profughi di Kabul la lunga frontiera

Fuga da Kabul

Fuga da Kabul © Ap

Vi ricordate uno degli slogan che esprimeva una delle più importanti verità che il movimento ci aveva fatto capire nell’epoca gloriosa del pacifismo, il solo, grande movimento realmente europeo che si sia sviluppato, quello degli anni Ottanta, quello che recitava: ”I patti non si fanno con gli amici ma con i nemici”? Voleva dire no ad Alleanze Atlantiche e invece ricerca di un accordo, o almeno di un compromesso, di un dialogo, con quelli che stiamo combattendo.

Ed era il corollario di un’altra verità: “La guerra è un retaggio medioevale, la politica estera non può più affidarsi alla rozza semplificazione militare”.
So bene che poi nel concreto spesso non è facile applicare queste indicazioni; e infatti in questo stesso scorcio di tempo sono state calpestate. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, non solo in Afganistan, ma anche in Irak e altrove.

Ripenso a questi slogan in questo momento terribile in cui le conseguenze dell’averli ignorati scorrono drammaticamente sugli schermi televisivi: se si è arrivati a questo è perché si è scelto di dar peso alla Nato a – i nostri “amici” – (e alla loro guerra) e di non tentare neppure di dialogare con chi in Afganistan stava dalla parte dei Talebani. Quello che invece hanno fatto le Ong che si sono impegnate ad aiutare con scuole e ospedali la società civile del paese anziché ad armare le bande di altre fazioni (quella ufficialmente al governo a Kabul, del presidente fuggitivo Ghani, non era molto di più di una fazione, ma una fazione alleata della Nato; e infatti si è dissolta in pochi giorni).

Non vorrei che oggi ci dimenticassimo di quanto abbiamo predicato, e invocassimo il “Mai riconoscere i Talebani” in nome di una radicalità che non è tale, perché è solo una assenza di riflessione. Dire “accordi” coi nemici, non vuol dire riconoscere il governo dei talebani (non l’hanno del resto fatto nemmeno Russia e Cina). Vuol dire cercare di trattare e strappare qualche possibilità di salvare chi ora rischia la vita. In molti casi significa accordarsi per ottenere vie d’uscita dal paese. Se non otteniamo questo non vedo cosa potrebbe servirci, di per sé, l’impegno dei nostri paesi ad accogliere i fuggitivi. Prima, ora, subito, bisogna ottenere canali per l’espatrio. Qualche spazio di trattativa, ancorché limitato, sembra esserci, bisogna profittarne e allargarlo, non chiudersi nella demagogica invocazione ”con i talebani non si tratta”. Se non si tratta, vuol dire che si continua la guerra. E cioè che chiediamo alla Nato di non partire dal paese e di riprendere i combattimenti.

A Doha, nel negoziato promosso da Trump e poi proseguito da tutta la Nato, non c’è stata una trattativa sull’Afganistan, ma solo sulle garanzie a favore dei militari Nato che se ne volevano andare, i soli per i quali è stata espressa preoccupazione dal presidente Biden: ”Riportare a casa i nostri ragazzi!”. E tanto peggio per quelli che vivono in un paese che i nostri ragazzi hanno massacrato in questi 20 anni, in nome della guerra come risolutrice dei conflitti.

C’è un altro obiettivo urgente, che sembra dimenticato e invece è importantissimo: il grosso di chi ha bisogno di scappare dal paese premerà inevitabilmente sulla lunga frontiera con l’Iran. E’ dunque urgente dialogare con il governo di questo paese, che non è nostro amico, per facilitare il passaggio di quella frontiera, non per farci accordi analoghi a quelli con la Turchia, ovviamente. Ma per dialogare bisognerà anche riconoscere le ragioni di Teheran, che patisce un durissimo embargo quando Washington ha deciso che andava punito perché avrebbe violato l’accordo sul nucleare (che non chiede solo ai paesi che non hanno le bombe di non cominciare a farle, ma anche a quelli che le hanno di non continuare a produrle. Come poi è risultato clamorosamente si tratta della stessa pretestuosa bugia che dette il via all’aggressione all’Iraq). Mobilitarsi per “liberare l’Iran”, è la cosa più utile che si possa fare per aiutare ora i profughi afgani. Ogni tempo ha le sue priorità, in questo è prioritario bloccare la ripresa della guerra.

Sono consapevole di rischiare un attacco di tanti che sono da sempre miei compagni di lotta perché può sembrare che quanto dico sia simile a quanto, tatticamente, dice il generale Stolzemberg. Ma sono certa che la vecchia guardia pacifista sarà d’accordo sull’importanza di ricordare sempre che si fanno patti con il nemico e non con gli amici. Con questi, se sono veri amici, non è necessario, perché ci si intende lo stesso. Con la Nato ho i miei dubbi.

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Afghanistan. La trasformazione dei talebani dai tempi del mullah Omar: non sono più contadini dei campi profughi del Pakistan e a dirlo è la capillare intelligence creata alle spalle degli Usa. Con un doppio obiettivo: consenso interno nelle aree urbane, radicalmente cambiate, e l’ingresso nel consesso globale

I miliziani talebani nel palazzo presidenziale di Kabul, abbandonato dal presidente Ghani © Ap

Nel V anno dalla proclamazione dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, un fokker delle Nazioni unite ci portò a Jalalabad, uno dei pochi ingressi nel Paese che mullah Omar governava da Kandahar, la città più tradizionalista del Paese dove Omar era nato e aveva fondato il movimento degli studenti coranici.

Era il 2000, ventun anni fa. Le formalità doganali venivano espletate da due ragazzi col kalashnikov che non sapevano né leggere né scrivere, sulla pista di un malconcio aeroporto assolato dove stazionava un Dc-10 dell’Ariana, la vecchia compagnia di bandiera. Aveva i finestrini oscurati ma, sbirciando tra gli scatoloni che ne venivano scaricati, notammo i brand occidentali di radio o televisori che venivano dal Golfo.

Allora, quando attraversammo un Paese in sfacelo, senza più strade e dove si erano rubati tutti i fili di rame dell’elettricità, solo Pakistan, Emirati e Arabia saudita avevano riconosciuto l’emirato scalcinato che a Kandahar contava su un solo telefono pubblico e in cui le strade erano pattugliate dai pickup, la chiave della rapida avanzata talebana dal Pakistan verso Jalalabad e poi sempre più all’interno del Paese.

Oggi le cose sono cambiate. E non solo perché i pickup hanno cilindrate più potenti o perché ogni combattente ha un telefonino. Quell’emirato di rozzi contadini allevati nei campi profughi del Pakistan, cui la riscossa religiosa pareva anche la riconquista di una dignità, non è più così anche se non sappiamo esattamente cosa sarà.

Né il vertice politico dei talebani odierni è lo stesso di allora, disposto ad accontentarsi del riconoscimento internazionale di soli tre Paesi o dei soldi di un bin Laden, motivo per il quale i nazionalisti pashtun di Omar avevano accettato di buon grado il facoltoso ideologo saudita.

Che non siano più gli stessi lo si capisce, per partire dalla guerra, dalla capillare rete di intelligence costruita mentre si negoziava a Doha con gli americani o, osserva qualcuno, da anni. Un rete sotterranea così segreta da sfuggire alle occhiute agenzie americane che non ne avevano probabilmente contezza.

Una rete che preparava non solo la guerra guerreggiata ma quella, meno sanguinaria e impegnativa, dell’accordo sottobanco. Con governatori, capi villaggio, colonnelli e capitani.

Gioco facile con un esercito governativo, sappiamo oggi con certezza, tenuto per mesi senza stipendio nonostante i miliardi iniettati dai consiglieri militari occidentali che, evidentemente, si sono per anni accontentati di resoconti di carta che non rispondevano alla realtà del terreno: quella di salari non pagati, di benzina rubata, di soldati fantasma a libro paga di un governo corrotto che ha già visto scappare all’estero ministri e funzionari (solo ieri l’agenzia Pajhwok ha reso noto il furto di 40 milioni di afganis dal ministero dello Sviluppo urbano e di 273 milioni pagati illegalmente a due società per un progetto solo sulla carta).

La costruzione di questa rete sofisticata, una delle ragioni della rapida vittoria talebana, dice dunque di una leadership sofisticata, non solo tecnologicamente. Negli anni questa leadership ha tentato di smarcarsi dal marchio pashtun sul movimento e ha persino tentato di dimostrarsi attenta ai bisogni delle donne, concedendo persino di aver fatto in passato degli errori.

Una strada che sembra aprire in due direzioni: quella della ricerca del consenso interno in un mondo, soprattutto urbano, radicalmente cambiato. E quella del rendersi accettabili a un consesso da cui non si può esser più tagliati fuori.

I Talebani di oggi, che sottolineano più del Corano una guerra fatta per l’indipendenza, non possono accettare che sia solo il Pakistan l’unico padrino da cui dipendere. Ecco dunque che le aperture di cinesi o russi (che non sono una novità) sono ben accette così come la possibilità che il loro regime sia si un regime, ma non del terrore.

Ma ammesso e non concesso che la leadership sia davvero cambiata, il che resta da dimostrare, qual è la distanza tra il vertice e i soldati della cui brutalità abbiamo già notizia? E quale può essere il prezzo che il vertice dovrà pagare ai capi bastone che hanno consentito la rapida conquista?

I prossimi giorni diranno subito se si scatenerà, come tutti temiamo e come i locali ci raccontano, lo stillicidio della vendetta e della caccia al collaborazionista o se, almeno di facciata, l’Emirato non voglia mostrarsi al mondo come un governo conservatore ma non solo di efferati aguzzini.

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