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Crisi ucraina. Bassissimo gradimento per il presidente Usa, che cerca un’approvazione bipartisan al Congresso per le nuove sanzioni alla Russia

 

Bernie Sanders  © Ap

Nonostante la Russia abbia dichiarato che alcune delle sue truppe torneranno alla base dopo aver completato le esercitazioni, gli Stati uniti non sembrano convinti che i venti di guerra stiano imboccando una curva di de escalation.

IL DIPARTIMENTO di Stato ha comunicato che il personale dell’ambasciata Usa ancora a Kiev è stato trasferito nella città di Lviv, vicino al confine con la Polonia, e il portavoce del Pentagono John Kirby ha detto all’emittente televisiva Msnbc che gli Stati uniti non escludono potenziali attacchi informatici da parte della Russia.
L’ambasciatore Usa alla Nato ha affermato che il Paese «dovrà verificare» le affermazioni relative alla riduzione dell’escalation da parte della Russia, prima di esporsi con altre dichiarazioni.
Né si sa molto della telefonata intercorsa ieri mattina fra il segretario di Stato americano Antony Blinken e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov; secondo un alto funzionario del Dipartimento di Stato i due, dopo la loro precedente telefonata di sabato scorso «avevano accettato di rimanere in contatto», ma non ha fornito nessun dettaglio riguardo l’ultima conversazione.
Questi elementi potrebbero fare pensare a un tentativo statunitense di continuare a cercare una soluzione diplomatica fuori dal palcoscenico mediatico: di certo un conflitto Russia-Ucraina non potrebbe far altro che danneggiare ulteriormente la già vessata economia americana.
Nelle ultime settimane in Usa, mano a mano che aumentava il rischio di un’invasione russa dell’Ucraina, sono saliti i prezzi del petrolio, balzati al di sopra di 90 dollari al barile, e se la crisi dovesse continuare portando il petrolio a sfiorare i 110 dollari al barile, l’inflazione arriverebbe a superare il 10% su base annua, come non accadeva dall’ottobre 1981.

«STIAMO PARLANDO di un vero shock a breve termine», ha affermato alla Cnn Joe Brusuelas, capo economista di Rsm, principale società di revisione contabile, fiscale e di consulenza focalizzata sul mercato intermedio negli Stati uniti.
Questa eventualità per Biden sarebbe un’ulteriore debacle, stretto com’è fra le ondate della pandemia, il Congresso che non approva nessuna delle sue proposte di legge paralizzato dall’ostruzionismo repubblicano e dall’opposizione dei democratici conservatori, e con un indice di gradimento bassissimo, che ha toccato il 40,6%.

QUESTI NUMERI hanno portato lo storico consigliere di Obama, David Axelrod, a dichiarare che nel discorso sullo stato dell’Unione, in calendario per il primo marzo, il presidente Biden «avrebbe bisogno di mostrare umiltà», più che vantare i progressi della sua amministrazione, come si fa da prassi in questa occasione.
Il partito di Biden intanto, dopo aver inviato al Gop una nuova proposta lunedì sera, sta ancora aspettando una risposta dai repubblicani sulla loro ultima offerta di sanzioni alla Russia.
Il senatore socialista Bernie Sanders giovedì aveva tenuto un accorato discorso al Senato, chiedendo una soluzione diplomatica alla crisi che coinvolge gli Stati uniti e la Russia, ed esprimendo tutta la sua preoccupazione per «i tamburi di guerra» sempre più assordanti a Washington.
La posizione di Sanders è condivisa dalla maggioranza del partito ma per i repubblicani la loro prossima mossa in risposta alle proposte dei Dem segnalerà quanto siano realmente intenzionati ad accettare quell’accordo bipartisan, che entrambe le parti hanno chiesto pubblicamente.

L’ACCORDO è stato approvato da molti membri del Gop, tra cui il leader della minoranza al Senato Mitch McConnell, ma rappresenta più una mossa politica rispetto a una che abbia un peso reale, visto che il presidente ha l’autorità per emettere sanzioni severe senza passare dal Congresso. Tuttavia delle sanzioni alla Russia presentate unitariamente dal Congresso rappresenterebbero un messaggio, al mondo e a Putin, sull’unità politica degli Stati uniti contro un intervento armato.

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Le schede informative sui quesiti. Arriva oggi davanti alla Corte costituzionale un pacchetto di otto quesiti. Se ammessi, si voteranno in primavera. L’udienza a porte chiuse sarà lunga, decisioni forse domani. Il presidente Amato ha chiesto ai giudici di essere aperti

 

L'aula della Corte costituzionale  © LaPresse

1 LEGGE SEVERINO

Un taglio netto alla decadenza dei condannati 

Il primo dei sei referendum sulla giustizia promossi dal partito radicale e dalla Lega di Salvini (ma poi presentati dai consigli regionali a guida centrodestra, perché i promotori originari non hanno depositato le firme che avevano raccolto) punta a cancellare la legge Severino. Legge che in realtà è un decreto legislativo firmato dall’allora ministra della giustizia Paola Severino, governo Monti, nell’esercizio di una delega voluta dal precedente governo Berlusconi. Proprio Silvio Berlusconi è stato la vittima più illustre della legge, il primo (e a tutt’oggi unico) parlamentare dichiarato decaduto dalla sua camera di appartenenza. Circostanza che è adesso prevista in caso di condanna definitiva per una serie di reati gravissimi e contro la pubblica amministrazione. Oltre alla decadenza (successiva) la legge prevede l’incandidabilità (precedente), ma il punto sul quale è stata più spesso attaccata è quello del regime più rigoroso previsto per gli eletti e gli amministratori locali. Che non sono eleggibili o sono dichiarati decaduti anche in caso di condanna in primo grado. Nel caso di vittoria dei sì, tornerebbe a vivere la legislazione precedente in base alla quale l’interdizione dai pubblici uffici è una pena accessoria decisa eventualmente dal giudice. (Andrea Fabozzi)

FUNZIONI GIUDICI-PM

La separazione che è a rischio ammissibilità

Secondo l’ordinamento italiano, pm e giudici condividono la stessa carriera e si distinguono solo per funzioni. La terza richiesta di referendum punta a rendere definitiva la scelta, all’inizio della carriera, di una o dell’altra funzione. Alla viglia è considerata una delle richieste a rischio. La Corte costituzionale potrebbe decretarne la non ammissibilità perché si tratta di un quesito assai articolato, contiene oltre mille parole e vuole cancellare articoli e commi da cinque diversi provvedimenti di legge. È vero che nel 2000 la Corte costituzionale ha già ammesso un referendum sulla materia, ma in quel caso l’intervento abrogativo era più limitato (c’erano allora meno disposizioni da cancellare). Infatti successivamente, nel 2006, le funzioni sono state effettivamente separate. Dopo la riforma Castelli sono possibili adesso solo quattro cambi di funzione, separati tra loro da intervalli di cinque anni. Gli emendamenti Cartabia di riforma dell’ordinamento giudiziario se approvati limiterebbero a due questi spostamenti. Nel 2000 la Corte corresse, per ammetterlo, il titolo del referendum: da «separazione della carriere» a «separazione delle funzioni». Ma il referendum fallì lo stesso (assieme ad altri) perché non fu raggiunto il quorum minimo di partecipazione. (Andrea Fabozzi)

3 CUSTODIA CAUTELARE

Limiti all’abuso della detenzione senza condanna

Il secondo quesito referendario sulla giustizia ha l’obiettivo di limitare i casi in cui è possibile disporre la custodia cautelare, cioè la detenzione di un indagato o imputato prima della sentenza definitiva. Nell’eventualità della vittoria dei sì, verrebbe a cadere quella che nel nostro paese è la fattispecie più usata per anticipare il carcere (o gli arresti domiciliari): il pericolo di reiterazione di un reato grave (con pena massima di almeno quattro anni) uguale a quello per cui si procede. Resterebbero invece in piedi le altre fattispecie per le quali nel nostro ordinamento è lecito arrestare una persona prima che sia riconosciuta colpevole: il rischio di fuga o di inquinamento della prova e il rischio che commetta un reato di particolare gravità «con uso di armi o altri mezzi di violenza personale». Tra i paesi membri del Consiglio d’Europa, l’Italia è tra quelli che hanno una percentuale più alta di detenuti in custodia cautelare (31% del totale dei detenuti contro una media del 22%), percentuale che sale notevolmente nel caso dei detenuti stranieri (quasi uno su due tra i detenuti stranieri è in custodia cautelare). Non ci sono molti dubbi sull’ammissibilità di questo referendum, che era stato tentato dai radicali già nel 2013, ma in quel caso mancando la raccolta delle firme necessarie. (Andrea Fabozzi)

4 FIRME PER IL CSM

Il ritocco minimo che non basta contro le correnti

L’ultimo quesito seguendo l’ordine di trattazione delle cause di oggi riguarda una questione abbastanza marginale. Si chiede infatti di cancellare dalle norme che regolano l’elezione della componente togata nel Consiglio superiore della magistratura esclusivamente l’obbligo di accompagnare le candidature con almeno 25 firme di magistrati. Per questa via i promotori hanno immaginato di limitare il peso delle correnti all’interno del Csm. Malgrado il referendum punti ad abrogare una norma elettorale, questa – proprio perché marginale – non può dirsi «costituzionalmente necessaria», dunque il quesito dovrebbe essere ammesso. L’impatto di un’eventuale vittoria del sì sarebbe però assai limitato: consentire alle toghe di candidarsi anche senza dover cercare un appoggio di (solo) 25 «presentatori» non basterebbe a frenare le correnti. Anche questo quesito va a toccare una materia che è adesso compresa negli emendamenti della ministra Cartabia arrivati alla camera dei deputati: la nuova proposta di riforma prevede candidature individuali (senza necessità di alcuna firma a supporto) e soprattutto cambia la legge elettorale per il Csm. Nella convinzione, tutta da dimostrare, di combattere per questa via le degenerazioni del correntismo. (Andrea Fabozzi)

5 CANNABIS

Il «Sì» depenalizza la coltivazione ma non spaccio e guida alterata

Sono tre i ritagli proposti dal referendum sulla cannabis al T.U. sulle droghe 309/90: nell’articolo 73, comma 1, si elimina la parola «coltiva»; al comma 4 dello stesso articolo si taglia la frase «la reclusione da due a 6 anni e»; all’articolo 75 la soppressione si limita «alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni”». Il referendum è promosso dalle Associazioni Coscioni (che ha finanziato la campagna e la piattaforma on line con la quale per la prima volta sono state raccolte tutte le sottoscrizioni, arrivando a totalizzare oltre 600 mila firme digitali in una settimana), Meglio Legale, Forum Droghe, Società della Ragione, Antigone e dai partiti +Europa, Possibile, Radicali italiani, Potere al Popolo, Prc e Volt. Se vince il Sì, sarà depenalizzata la coltivazione di marijuana per consumo personale, ma sarà ancora illegale lo spaccio, la fabbricazione, l’estrazione e la raffinazione di stupefacenti. Inoltre si elimina la sospensione della patente come sanzione amministrativa per chi detiene una piccola quantità di cannabis per uso personale, ma la guida sotto effetto di Thc sarà ancora sanzionata penalmente. (Eleonora Martini)

6 EUTANASIA

I promotori: «Occasione storica per far vivere lo spirito della Carta»

Sarà il primo dei quesiti referendaria ad essere affrontato dalla Corte costituzionale nell’udienza di questa mattina. Il referendum sull’eutanasia legale chiede l’abrogazione parziale dell’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente) ma salva le tutele poste per le persone più vulnerabili: i minori, gli incapaci anche parzialmente o con una deficienza psichica momentanea e le persone il cui consenso non è libero, ovvero estorto o carpito con l’inganno. Ora, scrivono in una nota Cappato e Perduca, a capo dei comitati promotori dei referendum eutanasia e cannabis, «i giudici costituzionali hanno un’occasione storica per far vivere la lettera e lo spirito della Carta su cui si fonda la Repubblica». La Carta, proseguono, «pone pochi e chiari limiti a quali siano le materie non referendabili». Ammettere i quesiti significa invece consentire «una primavera di democrazia diretta su temi popolari e urgenti». E dopo aver «assistito a uno schieramento di organizzazioni della galassia clericale, che in massa hanno chiesto l’inammissibilità del quesito», come sottolinea Cappato, tesoriere dell’Associazione Coscioni che ha promosso l’«eutanasia legale», i comitati notano, a proposito delle parole di Amato, «che tutte le osservazioni contrarie vogliono infilare molti peli nell’uovo». (Eleonora Martini)

7 VALUTAZIONI DI PROFESSIONALITÀ

Voto agli avvocati sui magistrati Ora lo prevede anche Cartabia

Il quarto quesito (nell’ordine in cui saranno discussi oggi in udienza a porte chiuse) con un doppio intervento abrogativo su una legge del 2006 punta a consentire la piena partecipazione degli avvocati alle decisioni del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e dei Consigli giudiziari regionali. Al contrario di quanto è previsto oggi quando gli avvocati possono partecipare solo nel dibattito sulle valutazioni di professionalità, senza peraltro diritto di voto (nel caso dei Consigli giudiziari partecipano anche delegati di estrazione politica espressi dal Consiglio regionale). I magistrati considerano pericolosa la normativa che risulterebbe dalla vittoria del sì – sull’ammissibilità del quesito non ci sono molti dubbi – perché gli avvocati potrebbero essere portatori di un conflitto di interessi nel valutare la professionalità di pm e i giudici ai quali sono abitualmente contrapposti nel processo. Anche questo referendum va a toccare una materia trattata dalla riforma dell’ordinamento giudiziario proposta da Cartabia, in questo caso per la ministra gli avvocati potranno esprimere il loro voto nei Consigli giudiziari ma non a titolo personale, bensì riportando la valutazione che il consiglio territoriale degli avvocati ha eventualmente già espresso. (Andrea Fabozzi)

RESPONSABILITÀ CIVILE DIRETTA

Via il filtro dello stato alle cause. Dubbi sulla normativa di risulta

È affidata al giudice costituzionale Augusto Barbera la relazione sul referendum alla vigilia è considerato più a rischio ammissibilità. Un quesito che nel caso fosse accolto dagli elettori introdurrebbe la responsabilità civile diretta dei magistrati. Questione lungamente dibattuta e persino già risolta con un referendum nel 1987, quando la responsabilità civile dei magistrati fu cancellata del tutto dal codice civile. Successivamente con la legge Vassalli il parlamento ha disciplinato la materia introducendo la responsabilità indiretta: è lo Stato che si fa carico di risarcire il danno, salvo potersi rivalere sul magistrato (per sottrarre le toghe a sempre possibili ritorsioni). Questa normativa ha resistito a due tentativi di referendum (nel 1997 e nel 2000, in un’altra occasione non furono raccolte firme sufficienti) non ammessi perché considerati manipolativi. Non si limitavano cioè ad abrogare norme ma ne introducevano di nuove. Nel frattempo l’Italia ha cancellato il filtro alle cause di risarcimento contro i magistrati, prima previsto. Il quesito attuale abrogherebbe la responsabilità sostitutiva dello Stato in alcuni casi, non in tutti. Sarebbe dunque richiesto un intervento legislativo, il che rende il referendum di non immediata applicazione. (Andrea Fabozzi)

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L'arte della guerra. Il conflitto militare nel cuore dell'Europa andrebbe a vantaggio degli Stati Uniti

 

Mentre la situazione nel Donbass diviene sempre più incandescente, Biden, alla vigilia del colloquio con Putin, ha convocato l’11 febbraio quello che di fatto è il consiglio di guerra della Nato e dell’Unione Europea: il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il primo ministro britannico Boris Johnson, il presidente francese Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il primo ministro italiano Mario Draghi, il presidente polacco Andrzej Duda, il presidente rumeno Klaus Iohannis, il primo ministro canadese Justin Trudeau, affiancati dal presidente del Consiglio Europeo Charles Michel e dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Il consiglio di guerra Nato-UE ha chiarito che «se la Russia effettua una ulteriore invasione dell’Ucraina, gli Stati uniti, insieme con i loro Alleati e partner, risponderanno con decisione e imporranno immediati e pesanti costi alla Russia».

Questo ha detto il giorno dopo Biden a Putin, a nome non solo degli Stati uniti ma della Nato e dell’Unione Europea. Rifiuto totale di ogni trattativa, di fatto una dichiarazione di guerra, sottoscritta dall’Italia per mano di Mario Draghi sotto gli occhi di un Parlamento silente e consenziente. Ogni giorno di più si intensificano i segnali di guerra imminente. Il Dipartimento di Stato sta evacuando l’Ambasciata a Kiev, lasciandovi solo pochi diplomatici e una squadra di Marines, e avverte i cittadini statunitensi di lasciare l’Ucraina perché «non sarebbe in grado di proteggerli dall’attacco russo». Lo stesso ha fatto la Farnesina. Il Pentagono sta ritirando dall’Ucraina 160 istruttori militari, che hanno addestrato le forze di Kiev. Restano però consiglieri e istruttori militari appartenenti alle Forze Speciali Usa e Nato, che hanno di fatto la direzione dell’Esercito e della Guardia nazionale di Kiev. In prima fila il battaglione neonazista Azov, già distintosi per la sua ferocia contro le popolazioni russe del Donbass, promosso per i suoi meriti a reggimento meccanizzato di forze speciali, armato e addestrato dalla Nato.

Ha la stessa insegna della Divisione Panzer SS Das Reich, una delle 200 divisioni hitleriane che nel 1941 invasero l’Unione Sovietica. Furono sconfitte, ma il prezzo pagato dall’Unione Sovietica fu altissimo: circa 27 milioni di morti, per oltre la metà civili, corrispondenti al 15% della popolazione (in rapporto allo 0,3% degli Usa in tutta la Seconda guerra mondiale); circa 5 milioni di deportati in Germania; oltre 1.700 città e grossi abitati, 70 mila piccoli villaggi, 30 mila fabbriche distrutti. Tutto questo viene pericolosamente dimenticato, mentre la Russia continua a ripetere, parlando al vento, che non intende attaccare l’Ucraina e denuncia la crescente concentrazione di truppe di Kiev di fronte all’area del Donbass abitata dalle popolazioni russe.

Qui Kiev ha schierato oltre 150 mila soldati. Sono dotati di veicoli lanciarazzi Grad, ciascuno capace di lanciare fino a 40 km, in una salva di 20 secondi, 40 razzi da 122 mm con testate ad alto esplosivo che, deflagrando, investono una vasta area con migliaia di taglienti frammenti metallici o piccole bombe a scoppio ritardato. Un attacco su vasta scala con armi di questo tipo, contro gli abitanti russi delle regioni di Donetsk e Lugansk, provocherebbe una strage e non potrebbe essere arrestato dalle forze locali costituite da circa 35 mila uomini.

La guerra potrebbe esplodere con una operazione false flag. Mosca denuncia la presenza in Donbass di mercenari Usa con armi chimiche. La miccia potrebbe essere una provocazione, tipo un attacco a un abitato ucraino, attribuito ai russi del Donbass che verrebbero attaccati dalle soverchianti forze di Kiev. La Federazione russa ha avvertito che, in tale situazione, non resterebbe a guardare, ma interverrebbe a difesa dei russi del Donbass, distruggendo le forze attaccanti.

Esploderebbe così, nel cuore d’Europa, una guerra a tutto vantaggio degli Usa che, attraverso la Nato a cui appartengono 21 dei 27 paesi Ue, e con la collaborazione della stessa Unione Europea, riportano l’Europa a una situazione simile, ma più pericolosa, di quella della guerra fredda, rafforzando l’influenza e la presenza statunitensi nella regione europea.

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Sul filo del rasoio. Il cancelliere tedesco incontra il presidente ucraino Zelensky a Kiev. Gelo sul Nordstream, Berlino: ««Sappiamo bene cosa fare»

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a Kiev  © Ap

«L’allargamento della Nato non è all’ordine del giorno». Il cancelliere Olaf Scholz in vista a Kiev spegne il «sogno» del presidente Volodymir Zelensky che coincide con il peggior incubo per Mosca. In altre parole l’unica parola d’ordine della Germania, anche ieri ripetuta come un mantra, rimane de-esclation, nonostante Berlino abbia assicurato di stare «al fianco dell’Ucraina» e anche di essere pronta a «ritorsioni ampie ed efficaci» contro la Russia.

L’EMBARGO AL NORDSTREAM? «Per noi il gasdotto è una grave minaccia, ma non so davvero quali sanzioni verranno usate in caso di escalation. Scholz su questo punto non mi ha risposto. Potete chiedere a lui» è l’invito di Zelensky ai giornalisti in conferenza stampa al termine del vertice bilaterale.

Ma il cancelliere non replica, o meglio, taglia corto piccatamente

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Il Piano energetico del Mite (Pitesai) gela la protesta nazionale per le fonti rinnovabili

In Italia non si potranno più cercare gas e petrolio in Valle d’Aosta e nemmeno tra le cime del Trentino e dell’Alto Adige. Stop alle trivelle anche in Liguria, se mai qualcuno avesse pensato di perforare un pozzo in quella lingua di terra stretta tra gli Appennini e il mare. È per questo che il Pitesai (il Piano della transizione energetica sostenibile delle aree idonee), il piano regolatore dell’estrazione di idrocarburi pubblicato ieri dal ministero della Trandizione Ecologica, è una «finzione», come racconta al manifesto Alessandro Giannì, direttore scinetifico delle Campagne di Greenpeace Italia. «Sarebbe inutile progettare uno stabilimento balneare sulle Dolomiti, non trovi?, qui funziona allo stesso modo».

PUR A FRONTE DI UNA RIDUZIONE importante delle aree definite idonee, insomma, le uniche cancellate dalla mappa sono quelle in cui non c’è gas. «Se l’obiettivo è davvero decarbonizzare l’economia entro il 2050, per farlo devi partire da un punto A e muoversi verso un punto B, che non prevede l’estrazione e il consumo di gas metano. Oggi, l’Italia parte dal punto A per tornare al punto A. È finzion, non Transizione Ecologica» conclude Giannì. Il Pitesai rappresenta una fine alle moratoria sulle nuove concessioni: una situazione rischiosa.

NEL GIORNO SCELTO DA 44 SIGLE tra associazioni, movimenti e comitati per manifestare contro il gas in 20 città simbolo dal Friuli alla Sicilia, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha detto che «possiamo raddoppiare la produzione nazionale di gas in 12-15 mesi e destinare una quota all’industria, con contratti pluriennali a prezzi ragionevoli». A fare da eco a queste affermazioni, fra i tanti, ancheil govenatore emiliano Stefano Bonaccini. E il sindacodi Ravenna, anche lui Pd, Michele De Pascale, fresco di conferma per il secondo mandato, gongola: «Il Pitesai – ha detto – è un provvedimento che è stato fatto per diminuire la produzione di gas, non per aumentarla.

Cingolani ha fatto miracoli, ma l’impostazione di base rimane, ed è antistorica». Dal cui porto della città romagnola passa più della metà del metano che si estrae in Italia, e il sindaco chiede di più: di consentire un significativo aumento della produzione nazionale del gas. È surreale: in Italia sono 1.622 i pozzi attivi al 30 giugno 2021, di cui 673 in produzione (514 a gas e 159 ad olio, 437 ubicati in terra e 236 in mare). Complessivamente nel 2021 l’Italia ha prodotto circa 3,2 miliardi di metri cubi di gas in un Paese che ne ha usati poco più di 72. La ripresa delle estrazioni potrebbe portare a un raddoppio della produzione italiana, arrivando così a un 10% circa del fabbisogno nazionale. «Non sarà possibile prescindere da un mercato internazionale, estrarre più gas finirà solo per garantire maggiori ricavi alle imprese fossili» sottolinea Giannì. Che senso parlare, poi, a fronte di una produzione che al massimo sarà pari al 10 per cento del fabbisogno, di indipendenza energetica? L’Italia si vincolerà a una Finzione ecologica senza Transizione reale» conclude.

È D’ACCORDO CON LUI anche Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente: «Il Piano è poco ambizioso, rappresenta un insieme di linea guida. Noi però ci aspettavamo una road map di uscita dal gas metano, con una deadline progressiva e definitiva alle estrazioni» spiega al manifesto. «Il Piano esprime l’idea che ha il ministero della transizione: lasciando invariate le zone dove si già estrae gas, in pratica indirettamente apre al raddoppio della produzione nazionale. Una scelta illogica, una sorta di fumo negli occhi, mercato internazionale. Andando al massimo al 10% del fabbisogno e importando il 90% saremo sempre dipendenti dall’estero».

IL COMPITINO REDATTO dal ministro e passato al vaglio della Conferenza unificata Stato-Regioni, «invece si limita a parlare di aree. Se è vero che prima si poteva far ricerca sul 100% del territorio e che oggi le superfici sono ridotte del 50%, la realtà è che il territorio che è stato escluso è quello dove non c’è mai stato interesse e quindi erano inutile tenerle aperte, “idonee”. A mare va un pochino meglio, perché la riduzione è dell’89%. Ma le “aree” salvate sono quelle dove si concentra la produzione. Sono state eliminate alcune zone come il Nord Ovest della Sardegna, il Golfo di Taranto o il Canale di Sicilia, ma nell’Adriatico potranno partire processi anche per nuove attività estrattive. E poi è rimasta idonea una zona dell’Alto Adriatico che in precedenza era sempre stata chiusa, quella del Golfo di Venezia». Il divieto totale in quell’area l’aveva rimosso lo Sblocca Italia di Matteo Renzi. Dopo otto anni, l’Italia non ha fatto passi in avanti.

 

 

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Il caso. Boom dell'inflazione, aumentano i prezzi dell'energia e non solo, ma i salari ristagnano. Per la Cgil va rivisto l’indice dei prezzi che ignora il caro energia, per Confindustria no. La polemica è anche sul rapporto tra contrattazione nazionale e quella azienda. Bonomi evoca un "riformismo competitivo", mentre Landini ne chiede uno "redistributivo". Il nuovo scenario per il 2022, potrebbe non esserci né l'uno, né l'altro. E' il secondo tempo della crisi innescata dalle politiche per rallentare la diffusione del Covid

Maurizio Landini (Cgil) con Carlo Bonomi (Confindustria)

Maurizio Landini (Cgil) con Carlo Bonomi (Confindustria)  © Ansa

L’aumento del costo dell’energia e dei principali prodotti alimentati causato dal boom dell’inflazione indotto principalmente dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dall’ingorgo nelle catene del valore globale non sta solo aumentando i costi per le imprese, ma sta peggiorando il problema dei bassi salari in Italia. Fermi sostanzialmente dal 1990, e funestati dal precariato di massa, oggi dovranno pagare le conseguenze degli aumenti record. È uno degli effeti del secondo tempo di una crisi sottovalutata dagli ultimi due governi, il «Conte 2» e quello di Draghi.

IN QUESTA CORNICE ieri è esploso un nuovo conflitto verbale a distanza tra il segretario della cgil Maurizio Landini che ha chiuso la conferenza di organizzazione del sindacato a Rimini e il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Secondo quest’ultimo non è vero che l’indice dei prezzi armonizzato (Ipca) escluda dal calcolo degli aumenti contrattuali i prezzi dei beni energetici importati. «Non è così – ha detto – Il prezzo dei beni energetici c’è, ma viene spalmato nel tempo per evitare che scarti bruschi come quello attuale rendano l’indice ballerino. Se si vogliono innalzare i salari subito, la strada sono contratti di produttività in ogni impresa, addizionali al contratto nazionale».

A QUESTE parole è seguita la reazione di Landini secondo il quale servirebbe una revisione dell’Ipca che ignora il «caro energia». In questa prospettiva non si può separare la contrattazione nazionale da quella aziendale, né chiedere un aumento della produttività di settore ignorando il problema macroeconomico che incide sull’intera economia nazionale. «Di fronte al problema dei contratti nazionali e della crescita del salario e dell’inflazione che cresce, Bonomi risponde dicendo no, non va cambiato nulla, perché l’unico luogo in cui devono crescere i salari con la produttività è laddove si fa la contrattazione aziendale. Questa è una cosa non accettabile – ha detto Landini – In un paese con tante piccole e medie imprese, dove per la maggioranza dei lavoratori non c’è contrattazione aziendale, se non sono i contratti nazionali che tornano ad avere un’autorità salariale e a porsi il problema di aumentare il valore reale dei salari, questo vuol dire accettare la programmazione e la riduzione dei salari».

NEL RAGIONAMENTO di Landini c’è un’idea di politica dei salari assente perlomeno dall’abolizione della scala mobile confermata da un referendum. Eravamo in tutt’altro ciclo economico, quando la crisi petrolifera del 1973 aveva innescato una lunga spirale in cui gli aumenti salariali erano mangiati dall’inflazione. Da quella situazione si uscì sconfiggendo la resistenza sindacale, creando un nuovo consenso sulla stabilità dell’inflazione e contro l’aumento dei salari . Oggi l’aumento dell’inflazione non sembra intrecciato all’aumento dei salari. Da qui le ripetute richieste di aumentarli.

BONOMI ha parlato di un «riformismo competitivo», intendendolo come «non interventi a margine, ma riforme efficaci, che rendano moderno e competitivo il paese, giustizia e concorrenza in primis». Landini ha risposto: «Le riforme non devono essere competitive ma redistributive. Competitive per chi? Non è che manca la competitività, ce ne è anche troppa nel modo del lavoro». Se Bonomi, a suo modo, interpreta l’approccio neoliberale «abilitante» del piano di ripresa e resilienza, il mantra del governo Draghi, Landini sembra indicare un modello diverso ma sconosciuto alle forze politiche esistenti in parlamento. La questione è già emersa nello sciopero generale di Cgil e Uil del 16 dicembre.

DALL’ASSEMBLEA organizzativa la Cgil ha rilanciato una battaglia sui diritti e sulla partecipazione ispirata al principio della «codeterminazione», a cominciare dalle imprese. Per il sindacato il 2022 sarà un «anno antifascista» costellato da una serie di iniziative che arriveranno al prossimo 9 ottobre, anniversario dell’assalto neofascista alla sede di Corso Italia a Roma. Il governo non ha dato seguito alla richiesta di mettere fuorilegge l’organizzazione responsabile dei gravi fatti.

 

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