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IL LIMITE IGNOTO. La Ue «esplora» il tetto dei prezzi chiesto da Draghi . E ordina di riempire tutti i serbatoi. Gabriel Haufe, ministero dell’economia: Alla faccia del clima, Berlino vuole riaccendere le centrali a carbone. Ma non quelle atomiche: «Oltre il 2022? Fuori discussione»
Europa alla canna del gas,  in Germania scatta l’allarme Condutture di gas nell’impianto di Wolfersberg - Ap

Esattamente nel giorno in cui a Bruxelles il Consiglio europeo apre al price-cap imprescindibile per non fare esplodere le bollette del gas, a Berlino scatta il secondo livello del piano d’emergenza predisposto dal governo Scholz: ultimo stadio prima dell’extrema ratio che prevede il razionamento e la distribuzione controllata da parte dello Stato.

Si passa così dalla semplice «allerta» al vero e proprio «allarme» provocato dal progressivo, inarrestabile, sempre meno sostenibile, maxi-taglio delle forniture di Gazprom attraverso il Nordstream-1.

«IL GAS IN GERMANIA oggi è diventato una merce rara» è costretto ad ammettere il ministro dell’Economia, Robert Habeck, più che preoccupato per la crisi energetica che ha investito come un treno la Locomotiva d’Europa, molto più rapidamente e pesantemente rispetto perfino alle peggiori previsioni.

Di fatto, nella prima economia del continente è iniziata ufficialmente la corsa contro il tempo, «perché l’estate è ingannevole e presto arriverà l’inverno; e noi dobbiamo riempire i depositi prima che sia troppo tardi» è il ragionamento obbligato del vice-cancelliere dei Verdi.

PERFETTAMENTE in linea con il nuovo regolamento sulle riserve energetiche approvato ieri dall’Europarlamento con 490 voti favorevoli, 47 contrari e 55 astenuti. Imperativo categorico per tutti Stati membri, già concordato dai ministri Ue: raggiungere almeno l’80% della capacità di stoccaggio entro il 1 novembre per poi innalzare il livello al 90% nei prossimi anni, in parallelo all’efficientamento delle reti e alla diversificazione delle fonti.

«Ci aspettano mesi difficili sotto il profilo della sicurezza energetica» riassume da Bruxelles la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, soddisfatta perché il Consiglio ha messo nero su bianco (almeno) la volontà di «esplorare» il price-cap quanto allarmata di fronte all’inquietante «aumento del costo della vita per i cittadini provocato dalla guerra in Ucraina». Da giorni è la prima degli sherpa che mediano sul price-cap tra la posizione della proponente Italia (cui ieri si è aggiunto il placet del premier greco Kyriakos Misotakis), la titubante Germania, la contrarissima Olanda e le variazioni sul tema di Spagna e Portogallo orientate ad applicare il tetto solo al prezzo “retail” riportato nelle bollette con compensazione dei costi-extra ai produttori di energia.

Mentre il pulsante dell’allarme premuto ieri dal ministro Habeck permetterà al governo Scholz soprattutto di varare la legge che autorizza le imprese fornitrici a scaricare i costi aggiuntivi direttamente sui consumatori finali.

NORMA PER ADESSO soltanto teorica, anche se «sarebbe necessaria fin da subito», almeno a sentire i vertici di Uniper (primo importatore di gas nella Repubblica federale) che anche ieri hanno pressato il ministro dei Grünen per girare «prima possibile» gli oneri extra che hanno già mandato il business plan aziendale a carte quarantotto.

L’esatto contrario delle aziende municipalizzate: ieri hanno ringraziato il governo Scholz per non aver attivato la devastante clausola dell’adeguamento dei prezzi. «La mossa avrebbe avuto effetti drammatici sugli utenti» taglia corto Ingbert Liebing, direttore generale dell’Associazione delle imprese comunali. Appeso, come tutti agli scenari apocalittici che nessuno può davvero escludere a priori. A partire proprio da Habeck: «Il contingentamento? Spero che non ci arriveremo mai, ma non lo posso certamente garantire» confessa il responsabile della transizione energetica tedesca, sempre meno coincidente con le promesse elettorali del suo partito.

DA QUI L’ENNESIMO «accorato appello» ai tedeschi, ripetuto ormai come un mantra: «Serve uno sforzo nazionale per evitare che si realizzi la volontà di Putin. La Russia usa il gas come arma, per questo è necessario mettere in campo tutte le misure politiche per evitare di restare senza gas».

Tradotto, vuol dire riaccendere le inquinantissime centrali a carbone (come ha appena fatto l’Austria) ma non il nucleare: «Prorogare la vita degli impianti atomici oltre dicembre 2022 è fuori discussione. Per motivi di sicurezza ma anche perché il taglio del gas pone un problema di calore mentre le centrali nucleari producono solo elettricità» ha ribadito Gabriel Haufe, portavoce del ministero dell’Economia

 
 
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STIAMO FRESCHI. La Pianura Padana è al collasso e il centro sud è in allerta rossa sulla crisi idrica. Regioni in pressing. Ma per il governo è avversità atmosferica. Studio Enea, dati allarmanti sul riscaldamento del Mediterraneo: 4 gradi in più 

Siccità, lo stato d’emergenza può attendere Il Po vicino a Piacenza - Pierpaolo Ferreri /Ansa

Pur di non citare l’emergenza climatica, si preferiscono formule neutre, al limite dell’acrobazia lessicale, come «stato di eccezionale avversità atmosferica». Così il governo si prepara al dpcm che dovrà rispondere alle conseguenze della siccità estrema che sta attanagliando il Paese, a partire dalle regioni settentrionali. E non è una gestazione tranquilla, all’esecutivo si rimprovera una scarsa prontezza d’intervento.

Le Regioni sono in pressing da giorni per chiedere «lo stato di emergenza», ma ora vanno in ordine sparso. Il Piemonte, epicentro della grave crisi idrica non certo alleviata dalle precipitazioni delle ultime ore, invita con il presidente Alberto Cirio il governo a far partire lo stato d’emergenza proprio da Torino: «Almeno in modo parziale da chi, come noi, già sette giorni fa ha anticipato i tempi». Tira il freno, invece, il collega Attilio Fontana che, da Milano, dice che quella dello stato d’emergenza è «una richiesta che eventualmente faremo quando ci saranno delle specifiche necessità».

La situazione ai tavoli del governo si è sbloccata dopo una

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CRISI UCRAINA. La Cei condanna anche le agromafie, che causano caporalato, sfruttamento e inquinamento

«Assurde le scelte politiche di investire in armi anziché in agricoltura» Un contadino in un campo di grano a Donetsk - Ap/Efrem Lukatsky

Nelle settimane in cui il conflitto in Ucraina si combatte usando il grano come «arma di guerra» – denunciava papa Francesco poco tempo fa – e nei giorni in cui il Parlamento italiano si appresta ad approvare nuovi aiuti militari a Kiev, la Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace della Conferenza episcopale italiana lancia un messaggio per la tutela dell’agricoltura e contro le agromafie che avvelenano il mercato, sfruttano i lavoratori e distruggono l’ambiente, in nome del profitto.
Il legame con l’attualità della guerra è il punto di partenza. «L’agricoltura è un’attività umana che assicura la produzione di beni primari», scrivono i vescovi nel messaggio – diffuso ieri – per la 72esima Giornata nazionale del ringraziamento, del prossimo 6 novembre. Ecco perché, proseguono, «apprezziamo oggi più che mai questa attività produttiva in un tempo segnato dalla guerra, perché la mancata produzione di grano affama i popoli e li tiene in scacco. Le scelte assurde di investire in armi anziché in agricoltura fanno tornare attuale il sogno di Isaia di trasformare le spade in aratri, le lance in falci».

Oltre alla decisione di privilegiare le bombe piuttosto che il grano, c’è un’altra “industria” che colpisce l’agricoltura. Si tratta, si legge nel messaggio della Cei, della «fiorente attività delle agromafie, che fanno scivolare verso l’economia sommersa anche settori e soggetti tradizionalmente sani, coinvolgendoli in reti di relazioni corrotte. Il riciclaggio di denaro sporco o l’inquinamento dei terreni su cui si sversano sostanze nocive, il fenomeno delle “terre dei fuochi” che evidenziano i danni subiti dagli agricoltori e dall’ambiente, vittime di incendi provocati da mani criminali, sono esempi di degrado». E poi «comportamenti che minacciano ad un tempo la qualità del cibo prodotto e i diritti dei lavoratori coinvolti nella produzione».
«Strutture di peccato – le chiamano i vescovi – che si infiltrano nella filiera» produttiva, dando vita a varie «forme di caporalato che portano a sfruttamento e talvolta alla tratta, le cui vittime sono spesso persone vulnerabili, come i lavoratori e le lavoratrici immigrati o minorenni, costretti a condizioni di lavoro e di vita disumane e senza alcuna tutela». Ma agromafie significano anche «pratiche di agricoltura insostenibili dal punto di vista ambientale e di sofisticazione alimentare» e «uso di terreni agricoli per l’immagazzinamento di rifiuti tossici industriali o urbani».

L’appello dei vescovi è rivolto a due soggetti: le «autorità pubbliche», perché mettano in atto «un’azione continuativa di prevenzione delle infiltrazioni criminali e di contrasto ad esse»; e i cittadini, perché siano consumatori critici e responsabili, cioè acquistino «prodotti di aziende agricole che operano rispettando la qualità sociale e ambientale del lavoro».
A proposito di caporalato – soprattutto in agricoltura, ma anche in altri settori – l’associazione “Vittorio Bachelet” e la Fondazione “don Tonino Bello”, insieme all’università del Salento, hanno lanciato le «Dieci tesi per il contrasto ai caporalati»: attività investigativa e repressione per colpire i «generali» più che i «caporali», ma anche «contratti di filiera», riapertura dei flussi migratori, «integrazione e inclusione dei migranti», rafforzamento del sindacato nei luoghi più a rischio, promozione del consumo consapevole e responsabile anche attraverso una corretta informazione.

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LA TRATTATIVA NELLA MAGGIORANZA. Ha pesato che il leader grillino non abbia voluto fornire nuovi alibi agli scissionisti

Resa quasi incondizionata di Conte. Draghi vince ma adesso rischia di più Vincenzo Amendola - Lapresse

Un aggettivo, una paroletta: «ampio». Questo è disposto a concedere Draghi a Conte e a LeU. Nulla di più. Dopo un’estenuante vertice di maggioranza che prosegue da 11 ore la formula che il governo propone è una risoluzione che, sul punto chiave impegna l’esecutivo a garantire «il necessario e ampio coinvolgimento delle camere». Però «con le modalità previste dal dl 14/2002»: è il testo approvato alla fine del febbraio scorso che permette al governo di decidere l’invio delle armi all’Ucraina senza passare per il Parlamento e che impone di «riferire» sullo stato delle cose ogni tre mesi.

Per Conte è una resa quasi senza condizioni. Poche ore prima la capogruppo Castellone aveva rifiutato lo stesso testo, solo senza quel magico aggettivo, Conte aveva riunito il Consiglio nazionale, l’ipotesi di una mozione votata per parti separate circolava vorticosamente, l’eventualità di una spaccatura dietro l’angolo.

Ma i 5S si trovano di fronte a una sorta di ricatto che li obbliga a una scelta che l’«avvocato del popolo» non osa fare. Senza la firma in calce al testo che lascia mano libera al governo, la maggioranza presenterà la scarna risoluzione proposta da Pier Casini: «Udite le comunicazioni del presidente del Consiglio il Senato approva». Firmare sarebbe una resa del tutto incondizionata. Negare la firma renderebbe inevitabile per 5S e LeU passare all’appoggio esterno o addirittura all’opposizione. Probabilmente Conte non se la sarebbe sentita comunque: Dario Stefàno, autore del testo sul quale si è chiusa la mediazione, era convinto sin dall’inizio che i 5S non avessero alcuna intenzione di rompere e così il sottosegretario Amendola, che ha gestito la trattativa.

Ma anche ove qualche tentazione ci fosse stata la mossa di Di Maio la avrebbe spazzata via. Troppa la paura di fornire un alibi allo scissionista e di

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OPERAZIONE TRASPARENZA. Dai resti di magazzino della Bundeswehr, e in parte della Ddr, allo stock bellico che il governo Zelensky ha ordinato direttamente alle aziende produttrici
Tutte le armi per Kiev sul sito del governo tedesco Olaf Scholz - Ap

Di pubblico dominio, a disposizione di chiunque, sul sito ufficiale del governo Scholz, emerge la lista completa delle armi made in Germany fornite all’esercito ucraino dall’inizio dell’invasione russa. Si va dai 30 tank anti-aerei modello “Gepard” ai 500 missili portatili “Stinger”, dai 10 nuovissimi cannoni anti-drone ai 2.700 razzi terra-aria “Strela”, dalle 100.000 mila bombe a mano e fino alle 10 tonnellate dell’additivo “AdBlue” necessario per il buon funzionamento dei catalizzatori; perché i mezzi militari tedeschi sono letali ma anche ecologici.
Si tratta dei resti di magazzino della Bundeswehr e in parte della Ddr ma soprattutto dello stock bellico che il governo Zelensky ha ordinato direttamente alle aziende produttrici dopo il triplo nulla-osta della ministra della Difesa Christine Lambrecht, della ministra degli Esteri, Annalena Baerbock e, naturalmente, del cancelliere Olaf Scholz.

Come previsto, su esplicita richiesta di Kiev, dall’elenco sono stati depennati sia i tempi che le modalità di consegna per evitare che l’intelligence russa – in particolare l’attivissimo servizio segreto militare “Gru” – individui e distrugga le armi prima che giungano al fronte.

Ma la lista pubblicata ieri dal governo di Berlino parla davvero da sola, archiviando all’istante l’accusa di “temporeggiatore” rivolta a più riprese al leader Spd. Tra le righe affiora l’impressionante, gigantesca, fornitura di munizioni di ogni tipo; a partire dai 16 milioni di pallottole per pistola, 5,8 milioni di cartucce di piccolo calibro, 53 mila colpi per i sistemi di difesa aerea e 10 mila proiettili destinati a cannoni e obici non solo tedeschi.

Spicca, in parallelo, anche la vera e propria marea di 14.900 mila mine anticarro accompagnate da 900 micidiali “Panzerfaust” (dotati di 3.000 munizioni) e ben 5.300 cariche esplosive perfette per far saltare ponti e linee ferroviarie in vista dell’avanzata russa. Si aggiungono a 50 “Bunker-Buster”- le super-bombe ipersoniche a massima penetrazione progettate per polverizzare i rifugi ultra-protetti in grado di sprigionare più energia cinetica di una testata chimica – e i 100 chilometri di miccia da collegare a 350.000 detonatori. Senza contare 23.000 elmetti da combattimento, 600 occhiali da tiro per i cecchini, 353 visori notturni e 100 MG-3: la versione aggiornata della mitragliatrice progettata nel 1942 oggi fabbricata da “Rheinmetall”.

Oltre a tutto l’equipaggiamento indispensabile alla catena logistica dell’esercito di Zelensky, tra cui 178 fra camion, minibus e fuoristrada, 15 pallet di uniformi mimetiche, 100 tende da campo, 12 generatori elettrici e 6 bancali per smaltire gli ordigni esplosivi. Si sommano 125 telescopi e 165 binocoli, 38 telemetri laser e 18 container pieni zeppi di equipaggiamento medico, tra cui 60 lampade per sala operatoria, kit di pronto soccorso, 500 medicazioni per emostasi e migliaia di mascherine chirurgiche.

Nella lista diffusa dal governo Scholz rientra anche l’ospedale da campo allestito insieme all’Estonia, 1.200 brande per i feriti, più 10.000 sacchi a pelo destinati alle truppe impegnate nella prima linea del Donbass.

In più la Germania “paga” all’Ucraina anche benzina e gasolio così come 360.000 “razioni Kappa” per i soldati ucraini che da sole riempiono oltre 2.025 pallet. Dai depositi della Volksarmee (l’esercito della disciolta Germania-Est) provengono invece i pezzi di ricambio per i Mig-29 girati all’aeronautica militare ucraina dai Paesi dell’ex Patto di Varsavia, Polonia e Slovacchia in primis.

Infine salta fuori la conferma che la Germania ha girato a Kiev i sofisticati sistemi di difesa aerea “Iris-T” e lanciarazzi “Mars” (come anticipato dalla stampa) ma ha anche fornito materiale bellico in joint-venture con gli alleati: gli obici insieme ai Paesi Bassi e i blindati per fanteria “M113” con la Danimarca.

 
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ELEZIONI LEGISLATIVE . Risultato agrodolce per la sinistra unita che elegge 142 deputati, più 13 dei «dipartimenti d’oltremare». I giovani, potenziali elettori di Mélenchon, non sono andati a votare: 70% dei 18-24 anni si è astenuta. En plein di consensi nelle aree urbane, soprattutto nei quartieri popolari delle grandi città
La questione del gruppo parlamentare agita la Nupes Jean-Luc Mélénchon - Ap

«Una situazione totalmente inaspettata, assolutamente inaudita», ha detto Jean-Luc Mélénchon, domenica sera, sul palco dell’Élysée Montmartre, una sala spettacoli a due passi dal Sacro Cuore, nel nord di Parigi. Al suo fianco, si tenevano in piedi un rappresentante di ogni partito che compone la Nupes, la «Nuova unione popolare, ecologista e sociale», ovvero l’alleanza delle sinistre francesi: insoumis, ecologisti, socialisti e comunisti. Un’unione anch’essa «inaudita» fino a poco tempo fa, costruita sulla base di un programma comune e dei candidati unici per le legislative.

Davanti al logo della Nupes (il «nu» greco), Mélenchon ha celebrato il risultato della coalizione: 142 deputati e deputate, più 13 dei «dipartimenti d’oltremare» etichettati a sinistra. La coalizione intorno a Macron, Ensemble, si è fermata a 246, molto lontano dalla soglia dei 289 necessari per la maggioranza assoluta: «La disfatta del partito presidenziale è totale», ha proseguito il leader della France Insoumise.

L’entusiasmo del pubblico stipato in sala e fuori non è durato a lungo, dissolvendosi mano a mano nel flusso di turisti e con il precisarsi dei risultati. Certo, le forze della sinistra hanno più che raddoppiato i propri deputati, rispetto alla sessantina di parlamentari eletti nel 2017. Certo, Macron non ha la maggioranza assoluta, e sarà costretto a venire a patti con un parlamento totalmente ignorato in questi cinque anni. Tuttavia, quello della Nupes non è stato uno sfondamento, ma piuttosto una decisa progressione; la soglia simbolica dei 200 eletti non è stata raggiunta, nonostante le speranze dei leader della coalizione; irraggiungibile si è mostrata l’agognata maggioranza e il sogno di imporre un governo di sinistra a un presidente di centro tendente a destra.

I DATI ELETTORALI sono anch’essi agrodolci. In linea col voto di aprile per le presidenziali, la sinistra conferma l’en plein di consensi nelle aree urbane, soprattutto – e non è poco – nei quartieri popolari delle grandi città, arrivando anche a spodestare monopoli che sembravano inamovibili, come nella 5a circoscrizione della Seine-St-Denis, una delle banlieues parigine, dove l’insoumise Raquel Garrido ha battuto Jean-Christophe Lagarde, centrista alleato di Macron ed eletto ininterrottamente dal 2002.

LA NUPES HA MESSO in crisi alcune figure di punta del governo, come l’ex-ministro degli Interni Christophe Castaner, il presidente della Camera Richard Ferrand, o la ministra Amélie de Montchalin, tutti battuti da candidati della sinistra al ballottaggio.

A questi successi fanno da contraltare un’astensione massiccia (53.7%) e lo sfondamento – quello si – dell’estrema destra di Marine Le Pen con il Rassemblement national (Rn). I giovani, che alle presidenziali avevano votato in massa per Mélenchon, non sono andati a votare: 70% dei 18-24 anni si è astenuta. Dal canto suo, il successo del Rn si aggiunge alle percentuali senza precedenti del secondo turno delle presidenziali, dove Marine Le Pen aveva superato il 40% dei consensi. Domenica sera, nel giro di una notte, il Rn è passato da 8 deputati a 89, diventando il primo partito di opposizione del paese (la Nupes è – in teoria – una coalizione di partiti diversi e la France Insoumise ha ottenuto ‘solo’ 72 seggi).

IL SUCCESSO DEL RN è inaspettato, «inaudito» anch’esso, poiché fino a oggi, il «fronte repubblicano» aveva tenuto i frontisti ai margini del parlamento. I partiti, infatti, tendevano a invitare a votare chiunque pur di non far vincere un candidato lepenista. L’imperfetto è d’obbligo, giacché il barrage, la diga antifascista, non esiste più, demolita soprattutto da Macron: su 61 duelli tra un candidato Nupes e uno di estrema destra, «la maggioranza» dei candidati centristi battuti al primo turno ha preferito «rifiutare di dare indicazioni», secondo un’inchiesta di Le Monde. Al contrario, nelle 108 circoscrizioni dove si sono affrontati Ensemble e l’estrema destra, i candidati battuti della Nupes hanno invitato a votare per i macronisti, o almeno a non votare Rn.

Il risultato dell’estrema destra rischia di rubare non solo la scena alla Nupes, ma anche la presidenza della commissione alle finanze della Camera. Anche per questo motivo, Mélénchon ha proposto che la Nupes si strutturi in un unico gruppo parlamentare, ribaltando così l’accordo siglato prima delle elezioni, cioè che ogni partito avrebbe avuto il suo gruppo, e la coalizione un apposito inter-gruppo. Una proposta per ora accolta con freddezza dagli alleati.

 
 
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