CRISI UCRAINA. La Cei condanna anche le agromafie, che causano caporalato, sfruttamento e inquinamento
Un contadino in un campo di grano a Donetsk - Ap/Efrem Lukatsky
Nelle settimane in cui il conflitto in Ucraina si combatte usando il grano come «arma di guerra» – denunciava papa Francesco poco tempo fa – e nei giorni in cui il Parlamento italiano si appresta ad approvare nuovi aiuti militari a Kiev, la Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace della Conferenza episcopale italiana lancia un messaggio per la tutela dell’agricoltura e contro le agromafie che avvelenano il mercato, sfruttano i lavoratori e distruggono l’ambiente, in nome del profitto.
Il legame con l’attualità della guerra è il punto di partenza. «L’agricoltura è un’attività umana che assicura la produzione di beni primari», scrivono i vescovi nel messaggio – diffuso ieri – per la 72esima Giornata nazionale del ringraziamento, del prossimo 6 novembre. Ecco perché, proseguono, «apprezziamo oggi più che mai questa attività produttiva in un tempo segnato dalla guerra, perché la mancata produzione di grano affama i popoli e li tiene in scacco. Le scelte assurde di investire in armi anziché in agricoltura fanno tornare attuale il sogno di Isaia di trasformare le spade in aratri, le lance in falci».
Oltre alla decisione di privilegiare le bombe piuttosto che il grano, c’è un’altra “industria” che colpisce l’agricoltura. Si tratta, si legge nel messaggio della Cei, della «fiorente attività delle agromafie, che fanno scivolare verso l’economia sommersa anche settori e soggetti tradizionalmente sani, coinvolgendoli in reti di relazioni corrotte. Il riciclaggio di denaro sporco o l’inquinamento dei terreni su cui si sversano sostanze nocive, il fenomeno delle “terre dei fuochi” che evidenziano i danni subiti dagli agricoltori e dall’ambiente, vittime di incendi provocati da mani criminali, sono esempi di degrado». E poi «comportamenti che minacciano ad un tempo la qualità del cibo prodotto e i diritti dei lavoratori coinvolti nella produzione».
«Strutture di peccato – le chiamano i vescovi – che si infiltrano nella filiera» produttiva, dando vita a varie «forme di caporalato che portano a sfruttamento e talvolta alla tratta, le cui vittime sono spesso persone vulnerabili, come i lavoratori e le lavoratrici immigrati o minorenni, costretti a condizioni di lavoro e di vita disumane e senza alcuna tutela». Ma agromafie significano anche «pratiche di agricoltura insostenibili dal punto di vista ambientale e di sofisticazione alimentare» e «uso di terreni agricoli per l’immagazzinamento di rifiuti tossici industriali o urbani».
L’appello dei vescovi è rivolto a due soggetti: le «autorità pubbliche», perché mettano in atto «un’azione continuativa di prevenzione delle infiltrazioni criminali e di contrasto ad esse»; e i cittadini, perché siano consumatori critici e responsabili, cioè acquistino «prodotti di aziende agricole che operano rispettando la qualità sociale e ambientale del lavoro».
A proposito di caporalato – soprattutto in agricoltura, ma anche in altri settori – l’associazione “Vittorio Bachelet” e la Fondazione “don Tonino Bello”, insieme all’università del Salento, hanno lanciato le «Dieci tesi per il contrasto ai caporalati»: attività investigativa e repressione per colpire i «generali» più che i «caporali», ma anche «contratti di filiera», riapertura dei flussi migratori, «integrazione e inclusione dei migranti», rafforzamento del sindacato nei luoghi più a rischio, promozione del consumo consapevole e responsabile anche attraverso una corretta informazione.