ULTIMATUM GIALLOROSSI. L’uscita del M5S dalla maggioranza resta un’ipotesi improbabile, perché richiederebbe nervi saldi e una forte dose di coraggio politico, doti che scarseggiano nel movimento terremotato dalla scissione di Di Maio
Enrico Letta e Giuseppe Conte - LaPresse
L’uscita del M5S dalla maggioranza resta un’ipotesi improbabile, perché richiederebbe nervi saldi e una forte dose di coraggio politico, doti che scarseggiano nel movimento terremotato dalla scissione di Di Maio. Colpisce invece l’ultimatum del Pd, «Se uscite addio all’alleanza», pronunciato domenica da Dario Franceschini, uno dei più ferventi sostenitori dell’asse giallorosso. Quello che poche settimane fa aveva ribadito: «L’alleanza non è una condanna o un obbligo di questa legge elettorale con i collegi uninominali. Si tratta di una scelta strategica».
Lasciamo da parte l’aspetto tattico delle parole di Franceschini, cioè il pressing per indurre Conte a restarsene buono. Ci sta, è la politica. Ma nel merito, il ragionamento, che è condiviso da Letta, fa acqua da tutte le parti. E’ evidente che un M5S prigioniero del governo Draghi e mutilato dalla scissione, costretto a trangugiare altri invii di armi in Ucraina, tagli al reddito di cittadinanza, parole vuote sul salario minimo, è destinato a liquefarsi. O al massimo a trasformarsi in una corrente esterna del Pd.
Se Conte uscisse da questa assurda maggioranza (nessuno crede davvero che
Leggi tutto: Al Pd serve un M5S all’opposizione - di Andrea Carugati
Commenta (0 Commenti)Era scomparso dai radar da settimane, ma ieri papa Francesco ha rilanciato l’ipotesi di una visita a Mosca e a Kiev, lasciando intendere che il canale diplomatico con la Russia si è riaperto, grazie a nuovi contatti fra il cardinale segretario di Stato Parolin e il ministro degli esteri russo Lavrov.
«Vorrei andare in Ucraina», ha detto il pontefice alla Reuters. «Volevo prima andare a Mosca. Ci siamo scambiati messaggi su questo, pensavo che se il presidente russo mi avesse concesso una piccola finestra per servire la causa della pace…». Finestra che finora è rimasta chiusa. Ma che adesso, ha aggiunto Bergoglio, pare «possibile», tanto da definire quello con Mosca un «dialogo molto aperto e cordiale».
Al rientro dal viaggio in Canada dal 24 al 30 luglio – confermato pochi giorni fa, segno che i problemi al ginocchio che lo hanno costretto ad annullare quello in Congo e Sudan (2-7 luglio) stanno rientrando – «è possibile che io riesca ad andare in Ucraina», ha rivelato il pontefice. Ma «la prima cosa è andare in Russia per cercare di aiutare in qualche modo, vorrei andare in entrambe le capitali». Cioè Mosca e Kiev, magari già fra agosto e settembre.
Che qualcosa si stesse muovendo si evinceva dalle parole pronunciate domenica all’Angelus. «Faccio appello ai capi delle nazioni e delle organizzazioni internazionali, perché reagiscano alla tendenza ad accentuare la conflittualità», aveva detto Francesco. «Il mondo ha bisogno di una pace non basata sull’equilibrio degli armamenti, questo vuol dire far tornare indietro la storia di settant’ anni». La crisi ucraina è «una sfida per statisti saggi, capaci di costruire nel dialogo un mondo migliore per le nuove generazioni. Ma bisogna passare dalle strategie di potere politico, economico e militare a un progetto di pace globale».
Pur avendo più volte condannato l’aggressione della Russia all’Ucraina («conquiste armate, espansioni e imperialismi non hanno nulla a che vedere con il Vangelo», ha detto giovedì scorso a una delegazione ortodossa del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli), la posizione del papa sulla guerra è stata sempre articolata. «Dobbiamo allontanarci dal normale schema per cui Cappuccetto rosso era buona e il lupo cattivo. Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra di loro», aveva detto al direttore della Civiltà Cattolica, padre Spadaro, e ai responsabili delle altre riviste dei gesuiti. Le parole rilanciate dalla Reuters confermano questa linea.
Nella stessa intervista ci sono altre due notizie. La smentita delle voci che lo vorrebbero presto dimissionario. E la sentenza della Corte suprema Usa sull’aborto: il papa non entra nel merito, ma ribadisce la condanna dell’aborto, paragonandolo – come aveva già fatto in passato – all’«assunzione di un sicario».
Non è la montagna che uccide, è il clima. Domenica il crollo del seracco di ghiaccio sommitale di Punta Rocca Un sorvegliato, ma non speciale come lo sono altri ghiacciai alpini. Le tecniche di controllo più costose vengono riservate alle vette più pericolose. Il bilancio parziale: 7 morti di cui solo 3 identificati, 8 feriti di cui due gravi e 13 dispersi accertati
Mario Draghi a Canazei - LaPresse/Palazzo Chigi
Una tragedia «imprevedibile», in queste dimensioni. Glaciologi, nivologi, volontari del soccorso alpino e habituée della Marmolada sembrano tutti d’accordo nel considerare il crollo del seracco di ghiaccio sommitale di Punta Rocca – che ha interessato la via normale sulla quale alcune cordate erano impegnate per salire fino alla cima di Punta Penia – un evento fuori dalla portata di previsione di cui si dispone attualmente. Malgrado le temperature eccezionali (oltre i 10° sopra i 3000 metri, dove è avvenuto il crollo), malgrado il rapidissimo cambiamento climatico in atto, malgrado la forte antropizzazione e l’iper sfruttamento turistico che in generale mortifica l’habitat montano e mette a rischio sempre più vite, malgrado il monitoraggio continuo di quello e di altri ghiacciai alpini. Eppure, mentre un violento temporale nel pomeriggio di ieri ha ulteriormente rallentato le ricerche dei dispersi che già dalla notte erano state ridotte al solo uso di droni e elicotteri a causa delle condizioni instabili del ghiacciaio, lo stesso premier Mario Draghi giunto sul posto non ha potuto tralasciare una considerazione di carattere generale.
«QUESTO – ha detto da Canazei dopo un sopralluogo e un colloquio con i vertici del Soccorso alpino impegnati dalle 13:45 di domenica, ora dell’implosione del ghiacciaio – è un dramma che certamente ha dell’imprevedibilità, ma certamente dipende dal deterioramento dell’ambiente e dalla situazione climatica. Oggi l’Italia piange queste vittime e tutti gli italiani si stringono a loro con affetto, ma il governo – aggiunge Draghi rivolgendosi alle forze politiche più negazioniste – deve riflettere su quanto è accaduto e prendere provvedimenti per fare in modo che quanto avvenuto abbia pochissima probabilità di accadere di nuovo».
IL BILANCIO, purtroppo parziale, è al momento di 7 morti di cui solo 3 identificati, 8 feriti di cui due gravi e 13 dispersi accertati per i quali è scattato l’allarme dei familiari sul mancato rientro. Delle varie automobili parcheggiate nei pressi della salita in Marmolada, fino a ieri sera ne erano rimaste quattro – con targhe tedesche, della Repubblica Ceca e ungheresi – di cui non è stato possibile rintracciare i proprietari.
Domenica, subito dopo il crollo del seracco di ghiaccio lungo lungo oltre 200 metri e largo 60, sono intervenuti sul posto 50 operatori del Soccorso alpino trentino e veneto, con unità cinofile, oltre ai reparti di soccorso dei vigili del fuoco, polizia e carabinieri. Ma la situazione si è presentata subito troppo pericolosa e le operazioni sono state interrotte lasciando il campo ai soli sorvoli dall’alto con elicotteri dotati dei sistemi di rilevamento Arva e Recco. Immediata l’ordinanza congiunta di divieto d’accesso all’intera area emanata dai comuni interessati sui due versanti, trentino e veneto, Canazei e Rocca Pietore.
Draghi ha ringraziato i coraggiosi soccorritori che hanno operato nelle prime ore in condizioni pericolosissime, e malgrado si assottiglino le speranze di trovare qualche alpinista ancora in vita, il governatore veneto Luca Zaia ha assicurato che le ricerche andranno «avanti fino all’estremo». Mentre il presidente della Società alpinisti tridentini, Anna Facchini, ha lanciato un appello affinché non si continui a rinviare «gli impegni che ci dobbiamo assumere contro il cambiamento climatico: Agenda 2020, Agenda 2030 e adesso siamo già verso l’orizzonte dell’Agenda 2050. La montagna non si può chiudere – ha detto in risposta a chi già chiede il divieto assoluto di salire sui ghiacciai – vanno cambiati i modelli di sviluppo».
«INVEROSIMILE» l’ipotetico divieto di frequentare in estate le zone nevose d’alta montagna, anche per il glaciologo Riccardo Scotti, responsabile del Servizio glaciologico lombardo, che al manifesto spiega come mai nessuno avrebbe mai potuto prevedere una tragedia di questo tipo in Marmolada. «Il ghiacciaio era monitorato in termini di bilancio di massa e variazioni superficiali, non lo era nell’ottica di una dinamica catastrofica proprio perché non c’era alcun segnale premonitore che lasciasse immaginare un evento di questo genere». Spiega Scotti che ad essere monitorati attraverso carotaggi e operazioni molto complesse, con radar da terra e altre tecniche di «studio molto costose, impegnative e assolutamente non ripetibili su larga scala», sono solo «alcune singoli porzioni di ghiacciai alpini». Per esempio in Val d’Aosta, nei pressi di Courmayeur, il Planpicieux della Val Ferret, o il Pra Sec del Grandes Jorasses, dove il rischio crolli è molto alto.
COSÌ NON ERA in Marmolada dove «il monitoraggio si limitava alla variazione della massa, perché non c’era nessuna deformazione evidente». Tra l’altro, dinamiche simili, spiega ancora il glaciologo, «sono molto rare» nelle Alpi. «Questo crollo sarà oggetto di studi nei prossimi anni – prevede Scotti -. Qualcosa di simile era già accaduto nel 1989 sul Monviso, al Coolidge, fortunatamente di notte quando non c’era nessuno. Lo scioglimento dei ghiacci sulle Alpi è in atto da 150 anni a questa parte ma negli ultimi decenni sicuramente ha subito un’accelerazione, raddoppiando o in alcuni casi triplicando la perdita di spessore. Nell’ultimo secolo il ghiacciaio della Marmolada ha perso un centinaio di metri di spessore e l’accumulo di neve superficiale. Proprio per questo dava l’impressione di non essere pericoloso. Inoltre, in alta quota di solito non si formano masse d’acqua così abbondanti come quelle che, stando alle prime informazioni, avrebbero contribuito al distacco del ghiaccio dal permafrost». A questo punto sembra perciò necessario cambiare anche il modo di studiare i ghiacciai.
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MEMORANDUM ATLANTICO. Nella lista dei desiderata turchi per Svezia e Finlandia ci sono curdi, turchi, scrittori, giornalisti di sinistra e islamisti. Un candidato al Nobel e anche un morto. Ma tanto c'è Di Maio che li rassicura: «Nessuna ripercussione». E Guerini distingue tra «curdi buoni» e «curdi cattivi»
La premier svedese Andersson con il presidente turco Erdogan - Ap
Sono giorni gloriosi per la stampa filo-governativa turca. C’è di che sbizzarrirsi con i 73 nomi nella lista dei desiderata di Ankara. Ma i numeri variano, pare che la Turchia abbia richiesto 33 estradizioni alla Svezia e 12 alla Finlandia.
E se di numeri (e tanto meno di nomi) non c’è traccia nel memorandum siglato al summit della Nato a Madrid lo scorso martedì da Stoccolma, Helsinki e Ankara, sotto lo sguardo compiaciuto del segretario generale Stoltenberg, sui media turchi qualche nome circola. E circola anche negli ambienti della dissidenza turca all’estero.
CI SONO CURDI TURCHI, turchi turchi, giornalisti, intellettuali di sinistra, islamisti, un candidato al Nobel per la Pace e anche un morto. Un po’ di tutto nell’ampio arco dei nemici del presidente Erdogan.
Sui media turchi sono tutti bollati in due modi, due maxi etichette che annullano differenze e appartenenze: membri del Pkk, il Partito curdo dei Lavoratori, e membri di Feto, la rete islamista dell’imam Fethullah Gulen, che da ex alleato di ferro dell’Akp ne è diventato uno dei principali spauracchi.
Il nome più noto è Ragip Zarakolu. Nato nel 1948 a metà tra la comunità greca e quella armena di Istanbul, è tra i più noti scrittori ed editori del paese. Nel 1977 ha fondato la Belge Publishing House, da allora la censura è stata un martello pneumatico: pubblicava libri di ex prigionieri politici, sulla questione armena, quella curda.
Nel 1979 ha fondato il quotidiano Demokrat, messo al bando nel 1980 con l’altro golpe. Ha iniziato a entrare e uscire dal carcere molto prima che Abdullah Ocalan fondasse il Pkk: la prima volta nel 1971 per cinque mesi, dopo il golpe.
Da allora condanne, divieti di espatrio e confische dei suoi libri. Dal 2013 è esule in Svezia, di cui è ormai cittadino: l’ultimo processo in Turchia risale al 2011, con l’accusa di appartenenza al Pkk e di partecipazione nel 2009 a un’assemblea del Bdp, sinistra pro-curda progenitrice dell’Hdp. Conti congelati e mandato d’arresto dell’Interpol.
Il 3 giugno scorso sul manifesto spiegava il tentativo di estradare la deputata curda svedese Kakabaveh: «La Turchia, anche al di fuori dei suoi confini, è contro la rivendicazione dei diritti dei curdi»
IN LISTA CI SAREBBE anche il poeta curdo Mehmet Sirac Bilgin. La sua biografia spiega bene perché il governo turco lo brami: i suoi guai sono iniziati all’università, ad Ankara, fu espulso da Medicina per le sue attività politiche (all’epoca legate ai Barzani, clan autoritario e filo-turco che da decenni governa il Kurdistan iracheno ma che negli anni Sessanta era l’anima della ribellione curda in Iraq).
In Turchia è stato arrestato dopo i golpe del 1971 e del 1980. Ha cercato rifugio in Svezia dove ha continuato a scrivere sul quotidiano filo-curdo Özgür Gündem, considerato da Ankara penna del Pkk tanto da essere chiuso innumerevoli volte, l’ultima nel 2016, decine i giornalisti incarcerati. Insomma la biografia c’è. Peccato che Mehmed Sirac Bilgin sia morto nel 2015 a 71 anni.
Sono vivi e sono giornalisti Bülent Kenes e Levent Kenez. Per loro l’accusa è diversa: niente Pkk, per il governo sono gulenisti. Entrambi continuano a lavorare in Svezia dopo esperienze in quotidiani islamisti più o meno governativi in Turchia.
Il primo, Kenes, era direttore di Today’s Zaman, sito di informazione in lingua inglese considerato dal governo vicino a Gulen e per questo prima commissariato dall’esecutivo e poi chiuso con decreto presidenziale dopo il golpe del 2016 e l’ovvio giro di vite dei giornalisti. Tra loro Kenes.
Sul secondo, Kenez, editorialista su Zaman, pesa l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica armata. In Svezia lavora per Nordic Monitor.
In lista c’è anche Harun Tokak, classe 1955, scrittore e giornalista turco per l’islamista Yeni Safak. Ha lavorato anche per il governo, consulente del ministero dell’educazione e del primo ministro. Ora è ricercato per terrorismo: «gulenista».
DALLA PARTE OPPOSTA della barricata sta Hamza Yalçın, segnalato come membro del partito marxista leninista turco THKP-C. Scrittore e giornalista, per due volte prigioniero politico, è diventato cittadino svedese nel 2007 dopo 20 anni di asilo politico nel paese. Eppure, dieci anni dopo, è stato arrestato a Barcellona su segnalazione turca all’Interpol: due mesi dentro con l’accusa di terrorismo, poi il rilascio.
Tra gli ex amici in black list c’è Murat Cetiner. Esperto di cyber security, ha lavorato con l’Onu, l’Osce, la stessa polizia turca. Poi è finito nel mirino anti-gulenista ed è fuggito. Oggi lavora per Nordic Minitor che tre anni fa ha scovato documenti che mostravano le attività di spionaggio e intimidazione dei servizi turchi in terra svedese a scapito di giornalisti e dissidenti. Tra loro Cetiner.
Asilo svedese anche per Mehmet Demir, ex co-sindaco di Batman per l’Hdp fino alla sua rimozione, uno delle decine di amministratori arrestati nel Kurdistan turco con l’accusa di legami con il Pkk. Demir è stato catturato il 23 marzo 2020 in una retata di massa contro il partito di sinistra.
A RASSICURARE gli estradabili è il ministro degli esteri italiano Di Maio: ieri si diceva certo che il memorandum atlantico non avrà «ripercussioni sul popolo curdo».
Quello della difesa Guerini garantiva due giorni fa che la posizione italiana sui curdi non cambia: un conto è il Pkk, ha detto, he quello sì che è terrorista, un conto chi combatte l’Isis. Grande è la confusione sotto il cielo di Roma.
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LA BATTAGLIA IN PARLAMENTO. Lega e FdI schierati contro, resistenze da Forza Italia. Monsignor Perego: «Ne parliamo da almeno 15 anni, la norma viene letta con parametri ideologici che non guardando alla realtà»
Manifestazioni per la cittadinanza - LaPresse
La discussione alla Camera dello ius scholae (l’ottenimento della cittadinanza al minore straniero che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno e abbia frequentato la scuola per almeno 5 anni) ha subito provocato la reazione veemente della Lega, schierata contro in sintonia con Fratelli d’Italia, ma anche le resistenze di Forza Italia. E il passaggio al Senato si annuncia ancora più complicato. Ieri è arrivata la preso di posizione a favore della legge della Cei con monsignor Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni: «La riforma della cittadinanza va incontro al paese che sta cambiando. Spero che le ragioni e la realtà prevalgano sui dibattiti ideologici, per il bene di chi aspetta ma anche dell’Italia che è uno dei paesi più vecchi».
La Lega ha presentato 1.500 emendamenti ironizzando sul Pd: «Spiace che il partito che una volta rappresentava i lavoratori adesso abbia come priorità gli immigrati». A Salvini, secondo cui daremmo la cittadinanza alle baby gang, Perego replica: «È il contrario. Rendere la persona più partecipe e non creare due città, quella degli esclusi e quella degli inclusi, favorisce la sicurezza sociale. Non capisco perché si voglia mettere in contrapposizione una situazione sociale, di crisi economica che stiamo vivendo, con un diritto».
Da Fi Tajani ieri ha ribadito: «Siamo favorevoli al principio ma deve esserci una formazione vera: elementari e medie più un esame finale. Lo ius scholae in questo momento non rappresenta una priorità». Anche su questo la Cei replica: «Ne parliamo da almeno 15 anni, contrapporre il caro bollette non ha senso. La legge viene letta con parametri ideologici che non guardando alla realtà. Quella di un milione e 400mila ragazzi, dei quali 900mila alunni delle nostre scuole, e gli altri che hanno più di 18 anni, che aspettano di essere cittadini italiani. L’Italia è cambiata con 5 milioni e mezzo di migranti. Occorre utilizzare lo strumento della cittadinanza per rendere partecipi di questa trasformazione le persone che attendono ma anche gli italiani che sempre si sono detti favorevoli, che sono oltre il 70%». E ancora: «La cittadinanza aiuterebbe anche una circolarità del mondo migratorio in Europa».
La forzista Renata Polverini si è dissociata dal patito: «Voterò a favore. Il centrodestra sui nuovi italiani è anacronistico. Ma se si accogliessero le richieste di Fi sui cicli scolastici si allargherebbe il consenso». Di Maio ha utilizzato il tema per schierarsi a difesa dell’esecutivo: «Mi auguro che si trovi un compromesso in Parlamento, mi sconcerta che si usi come una bandierina per picconare il governo».
Commenta (0 Commenti)CRISI UCRAINA. La giustificazione: va riparato Nord Stream 1. Mentre continua il "braccio di ferro" europeo tra Zelenski («Non decenni per l’ingresso nell’Ue») e von der Leyen («Prima le riforme: lotta alla corruzione, giustizia, stop all’influenza degli oligarchi, libertà del media»). Intanto da lunedì conferenza a Lugano su ricostruzione ma anche legalità, con la presidenza ceca della Ue
Gazprom Germania GmbH, sussidiaria della compagnia russa in Germania - Ap/Fernando Gutierrez-Juarez
Le «riparazioni» del gasdotto NordStream1 dalla Russia alla Germania via Mar Baltico dureranno più a lungo del previsto: dall’11 al 21 luglio Gazprom chiude il rubinetto.
La Russia usa l’arma del gas a fondo, tenendo conto però della diversa importanza e peso politico dei Paesi europei. . Già aveva ridotto del 40% gli arrivi in Germania e bloccato le forniture a fine aprile a Bulgaria e Polonia – tagliate a questi due Paesi senza scuse di «riparazioni» -, mentre l’Europa nel 2021 era dipendente per più del 40% dal gas russo (con differenze tra paesi).
Il governo tedesco si aspettava da un momento all’altro il colpo delle ulteriori «riparazioni». L’Unione europea, che ha già varato sei pacchetti di sanzioni alla Russia, ha colpito, a termine, per quanto riguarda l’energia, carbone e petrolio, ma per il momento non ha ancora toccato il gas (già sul petrolio c’è stato il freno dell’Ungheria).
MENTRE PUTIN USA, «differenziando», l’arma del gas e i Paesi Ue cercano di riempire i serbatoi per non restare al freddo, il prossimo inverno, la bandiera della Ue sventola da ieri nell’aula del Parlamento a Kyiv, accanto a quella ucraina. «Era il mio sogno, è diventato realtà», ha affermato il presidente del parlamento, Ruslan Stefanchuk, che ha aggiunto: «l’Ucraina la merita».
Volodymyr Zelensky si è rivolto alla Ue: «Adesso siamo più vicini», è «un grande onore, una grande responsabilità», ma «abbiamo percorso 115 giorni per ottenere lo statuto di candidato e il nostro percorso non dovrà durare decenni, dovremo intraprendere la strada rapidamente».
Ieri la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, si è rivolta ai deputati ucraini via video: «I prossimi passi sono alla vostra portata» ma ha messo in guardia, «richiederanno in duro lavoro, determinazione e, soprattutto, unità di intenti».
Von der Leyen sottolinea le tappe del percorso: accelerare le riforme sulla lotta alla corruzione, sulla giustizia, sulla diminuzione dell’influenza degli oligarchi, sulla libertà del media.
L’Ucraina e la Moldavia hanno battuto un record, la domanda di candidatura alla Ue è stata presentata il 28 febbraio, 4 giorni dopo l’aggressione russa, ed è stata accettata il 23 giugno, 4 mesi dopo (per la Serbia ci sono voluti 3 anni, dal 2009 al 2012). Ma la Ue ha subito messo in guardia sui tempi lunghi dell’analisi dei 35 capitoli dell’adesione.
IL PRIMO GROSSO OSTACOLO è la corruzione. L’ong Transarency International ha classificato l’Ucraina tra i paesi più corrotti dell’ex area sovietica, fanno peggio solo Russia e Azerbaijan. «Avete creato un’impressionante macchina anti-corruzione» ha concesso Ursula von der Leyen, del resto Zelensky si è fatto eleggere nel 2019 su questa promessa.
«Ma adesso queste istituzioni hanno bisogno di rafforzarsi» ha precisato la presidente della Commissione: la Ue chiede una riforma della Corte costituzionale che integri i principi della commissione di Venezia, la revisione della controversa legge anti-oligarchi, che è di stampo populista perché a decidere chi è «oligarca» è il presidente Zelensky, anche se l’Ucraina è il solo paese della Partnership orientale della Ue ad avere una legge del genere, c’è bisogno di «un approccio più legale».
DI TUTTE QUESTE QUESTIONI di legalità e anti-corruzione si parlerà alla conferenza di Lugano sull’Ucraina, il 4-5 luglio. Non è una conferenza dei donatori, ma sul tavolo, dopo l’aggressione russa, c’è evidentemente la questione la questione della ricostruzione, anche se l’appuntamento di Lugano era stato deciso prima dell’aggressione russa, per parlare di riforme e anti-corruzione.
A Lugano, Zelensky sarà collegato via video, mentre dovrebbe partecipare in presenza il primo ministro, Denys Chmyhal, sono rappresentanti di 38 paesi e 350 imprenditori, accanto a Ursula e la Repubblica ceca, che da ieri ha la presidenza della Ue, dopo la Francia. Con la presidenza francese c’erano stati momenti di tensione, quando Emmanuel Macron ha ricordato che i tempi per diventare membro della Ue possono durare “decenni”.
IL GOVERNO CECO, a metà strada tra la Polonia decisamente anti-russa e l’Ungheria di Orbán (il gruppo di Visegrad è ormai esploso), frena sull’idea di Macron di dare vita a una Comunità politica europea (Cpe), che dovrebbe riunire «dall’Islanda ai Balcani» tutti i Paesi non dell’Unione europea (non ancora membri o che non intendono esserlo) per discutere dei problemi comuni.
All’est e tra i paesi della Partnership orientale viene vista con sospetto, come una strada senza uscita per evitare l’accoglienza a piano titolo nella Ue. Il 6-7 ottobre, la presidenza ceca organizza a Praga il primo incontro della Cpe, ma senza le ambizioni francesi. Intanto, ieri la Ue ha versato il primo dei 9 miliardi di aiuti macro-finanziari alla Ucraina, approvati al Consiglio europeo di fine giugno.
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