Il caso. Per l’ex governatore 1.500 ore di lavori utili e confisca dei beni L’accordo con i pm spunta alla destra l’arma del garantismo
«Confesso, ho governato». E dunque «accetto di patteggiare una pena per corruzione e finanziamento illecito ai partiti»: due anni e un mese da scontare con 1.500 ore di lavori di pubblica utilità e una confisca da 84.100 euro. Tra un libro che sta per uscire e una decisione presa nello studio del suo avvocato, si consumano gli ultimi giorni della prima vita politica di Giovanni Toti, ex presidente della Regione Liguria. Il sipario sul primo atto cala qui, l’arresto del 7 maggio ora sembra solo un movimentato preludio. Se ne riparlerà scontata la pena, due anni scarsi. Toti accetta tutte le accuse che gli vengono mosse dal pubblico ministero, scelta che coglie di sorpresa. Arriva 24 ore dopo che il suo schieramento di centrodestra ha finalmente trovato un candidato, Marco Bucci, sindaco di Genova. Ci si chiede, in Liguria, a sinistra e al centro e pure a destra, se con un’altra tempistica il sindaco-candidato avrebbe accettato l’investitura.
LA DECISIONE di «patteggiare» presa da Toti, dovrebbe razionalmente chiudere la campagna pelosa dei giustizialisti contro garantisti, perché giustizia è fatta, lo dicono gli accusati, lo accettano gli accusatori. Però si sa, la politica è «sangue e merda», disgustosa affermazione del socialista Rino Formica. Della prima merce, va detto, ne circola ultimamente parecchia, sul fatto che Toti sia un politico a sangue freddo è caratteristica riconosciuta. Anche per questo adesso la domanda è: perché lancia la bomba a sei settimana dal voto in Liguria? Da un paio di giorni voci in uscita dal centrodestra sussurravano della possibilità di un patteggiamento. E cioè da quando si erano chiuse tutte le possibilità che a candidarsi per il dopo Toti fosse una creatura politica del governatore, la deputata genovese Ilaria Cavo, tenacemente fedele alla linea del suo leader. Se gli alleati avessero accettato questo nome, per l’ex governatore sarebbe stato un attestato di stima per il lavoro fatto, capace di allontanare qualsiasi desiderio di patteggiamento. Così non è andata, soprattutto per volontà dei vertici liguri della Lega. Allora ecco la contromossa di Toti, una «vendetta politica», a sangue freddo. Tutto dopo aver visto il distacco graduale, ma sempre più palpabile di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia.
POI SONO ARRIVATI i saluti di alcuni «totiani della prima ora», passati in altri partiti del centrodestra. Infine, sistemati alcuni irriducibili nella lista del neo candidato Bucci, Toti ha chiuso la sua mossa: sì al patteggiamento. Qui arriva la seconda parte della ricostruzione e tutto nasce da un’ambiguità del nostro sistema giuridico. Dove a differenza dei Paesi anglosassoni patteggiare non significa dichiararsi colpevoli. Un po’ di fumo negli occhi, che sta facendo e farà comodo in una campagna lampo, giocata molto sull’informazione o sulla disinformazione. Bene sarà dunque ribadirlo: l’ex presidente ha chiesto di patteggiare una pena per corruzione e finanziamento illecito ai partiti, rinunciando così a qualsiasi difesa nel merito e al processo con rito immediato che doveva iniziare il 5 novembre. Chiudendo la partita con due anni e un mese di pena, da scontare con lavori di pubblica utilità. Infine il pagamento del prezzo delle tangenti, circa 84 mila euro, poiché ritenuto responsabile d’aver incassato mazzette dal Gruppo Spinelli e da Esselunga. Soldi finiti al suo comitato e allora sarà il comitato a rimborsare e la cifra può apparire meno gravosa di quella prevista per sostenere le spese legali del processo.
TOTI entra in un cono d’ombra, tra un paio d’anni potrà tornare pubblicamente all’attività politica e (ad averli) si potrebbero scommettere anche 84.000 euro che la sua prima battaglia sarà sul finanziamento ai partiti. Il governatore del fare, ora viene sostituito dal candidato Marco Bucci, il sindaco del fare. Che ieri mostra intolleranza (la definizione è sua) alla domanda di un giornalista, sugli schermi di SkyTg24, semplicemente perché «non tollera l’insinuazione». In realtà è un semplice distinguo: fare è giusto, ma fare nel rispetto delle regole è imprescindibile. Non essere indagati e Bucci non lo è, non esclude avere a cuore il tema della legalità. L’uscita dalla scena politica di Toti modifica i rapporti di forza in un sistema, apre vuoti di contenuti che andranno riempiti. Con idee e azioni nuove, «a testa alta» come ribadisce il centrosinistra guidato da Andrea Orlando.
QUELLO CHE è stato lo spiega bene il commento di Debora Serracchiani, responsabile nazionale Giustizia del Pd: «Abbiamo detto che il sistema Toti andava fermato e per questo avevamo chiesto le dimissioni. La richiesta di patteggiamento per corruzione impropria e finanziamento illecito conferma che avevamo ragione. Senza alcun senso di rivalsa, prendiamo atto che l’ex presidente ha cambiato posizione e ha rinunciato a dimostrare di non aver commesso alcun reato. Questo accordo sancisce uno stato di cose che riguarda Toti e un metodo di amministrare e fare politica». Confessiamolo: il 27 e 28 ottobre i liguri potranno scegliere, ora il quadro che hanno è completo
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Palazzi bombardati a Pokrovsk - foto di Vincenzo Circosta
C’è fila all’ingresso di Pokrovsk, poco prima del nostro arrivo i russi hanno bombardato l’ultimo ponte rimasto. Il cavalcavia ha retto ma nel tratto centrale metà della carreggiata è caduta nel vuoto. «Prima il ponte verso Myrnograd, poi il grande ponte sopra la ferrovia, ora questo… è chiaro che i russi si stanno preparando a entrare» spiega un ufficiale ucraino di una brigata di complemento impegnata su questo fronte. «Se la situazione resta la stessa possiamo resistere una settimana, forse due. Magari se mandano dei rinforzi…» si interrompe e conclude con un’imprecazione.
Eppure la città sembra sospesa in una bolla, non si ha l’impressione (come a Bakhmut, ad esempio) che da un momento all’altro possano spuntare i battaglioni russi da dietro l’angolo.
L’artiglieria nemica non martella costantemente e il livello distruzione non è comparabile ad altre battaglie campali di questa guerra. Ma allora perché tutti la danno per spacciata?
Ci aiuta a capirlo l’ufficiale di complemento che però accetta di parlare a condizione di restare anonimo. «All’inizio della primavera c’è stato un cambio al comando di zona e il nuovo comandante è un incompetente: sposta i soldati sulla linea del fronte come se fossero le sue pedine di scacchi, non riesce a prevedere le offensive del nemico e quando i russi attaccano va nel panico. Abbiamo rischiato di essere chiusi in una sacca già due volte e abbiamo dovuto ripiegare – ci spiega l’uomo – per evitare l’accerchiamento. Ora per raggiungere le nostre posizioni di tiro dobbiamo percorrere 90 chilometri». Una lunga deviazione che evita di essere scoperti dai droni russi e, di conseguenza, bersagliati dall’artiglieria.
Starmer al cospetto di Biden per l’ok sugli Storm Shadow
Il nemico è a 7 km a est e a sud-est. «Anche qui, vedi – l’ufficiale indica con l’indice e il pollice su una mappa – stanno avanzando su due fronti, il loro obiettivo è di tagliarci fuori dalle retrovie».
Congiunge le dita sulla scritta Pokrovsk e si blocca, gli altri commilitoni guardano per terra. Ma non si sono lamentati? «Eccome! Tutto inutile». Un altro dei presenti racconta: «C’è qualcuno che dice che sia parente stretto di uno molto in alto… non so se sia vero ma sta di fatto che la sua incapacità ci ha fatto perdere troppi uomini».
Ora i russi non bombardano a tappeto perché ciò rallenterebbe la loro offensiva. «Hanno trovato un punto debole nelle nostre difese e lo stanno sfruttando, c’è stato un periodo in cui perdevamo un villaggio al giorno, per quanti dei loro ne potevamo ammazzare, erano sempre più di noi, molti di più, su un fronte lungo centinaia di chilometri. Resistere così è quasi impossibile».
«Pensa» racconta infine, «che dopo aver chiesto rinforzi per mesi ci hanno mandato di recente delle reclute che stavano nel Kursk… ragazzini che per poco non si sparano sui piedi! Abbiamo dovuto separarli e distribuirli tra i nostri per evitare che ci intralciassero». Inoltre nelle retrovie hanno dislocato delle reclute appena uscite dai campi di addestramento. «Cosa dovremmo farci? Sembra quasi che la vogliano regalare ai russi questa dannata città. E solo questa settimana ne ho persi altri due dei miei, due ottimi soldati, due ragazzi…» si ferma di nuovo e guarda per terra anche lui.
Pokrovsk è quasi deserta. Dei 50mila residenti che vi abitavano prima della guerra ora ne restano poche migliaia. Ieri l’amministrazione cittadina ha diffuso un comunicato nel quale ammette l’impossibilità di poter mantenere le forniture idriche d’ora in avanti; la corrente elettrica e il gas mancano già da un po’. L’ordine di evacuazione è stato dato da qualche settimana ma, come in molte città del Donbass diventate terreno di scontro, c’è sempre una parte di popolazione che non vuole partire.
Il lungo vialone che arriva alla piazza centrale sulla quale svettano le cupole d’oro e zaffiro della chiesa ortodossa è percorso solo da auto di militari. Alla fermata degli autobus delle anziane aspettano invano da ore di poter tornare nel loro villaggio. «Siamo venute per consegnare delle carte al comune, ma non c’era nessuno, né il sindaco né la polizia». L’idea stessa che alla mattina presto queste donne siano uscite per venire a sbrigare delle pratiche burocratiche nella città più pericolosa del Donbass è di un’assurdità quasi comica.
Nuovi tralicci, vecchia guerra: Ucraina verso l’inverno senza corrente
Un’altra anziana chiude una saracinesca. Quando la chiamiamo ci rivolge un sorriso con molti buchi ma nel quale svettano 4 denti d’oro. «Ho mandato tutti via, soprattutto i nipoti, io resto qui finché vendo la merce che mi rimane in negozio e poi me ne vado». Ma non ha paura? «Domani, venite domani a parlare, ora c’è il coprifuoco». Il sole è ancora alto, pensiamo sia una scusa ma più tardi scopriamo che l’amministrazione militare ha davvero imposto il rientro obbligatorio a casa entro le 15. «Comunque, quando tutto va male resta la nonna» continua la vecchia Ludmilla con il suo sorriso scintillante, «come si dice: una per tutti», ride rumorosamente e affretta il passo.
Il coprifuoco finisce alle 11 del mattino e inizia alle 15, agli abitanti di Pokrovsk sono concesse quattro ore di libertà. «È così stringente perché serve a controllare le strade quando non ci sono abbastanza agenti per le pattuglie, il rischio di operazioni di sabotaggio russe è alto e quindi teniamo tutti a casa» ci spiegano. A poca distanza un anziano carica la macchina e sembra si prepari a partire. «Non voglio fare nessuna intervista» dice ancora prima che apriamo bocca, ma poi ci spiega che non sta andando da nessuna parte perché percepisce 7000 grivnia di pensione (circa 170 euro) «e a Dnipro le case costano almeno il triplo». Non è preoccupato dell’arrivo del freddo? Si tocca la testa canuta e dice con un sorriso sardonico: «Ho i capelli bianchi, ne ho viste tante, passerò anche questa». Non ha famiglia? «Li ho mandati a Dnipro, ma non possiamo andare tutti».
Mezz’ora dopo le strade si svuotano completamente. Due poliziotti molto giovani pattugliano la piazza («non sono di qui, vengono da fuori» dice un’anziana di passaggio, quasi con disprezzo), ogni tanto un’automobile civile con i simboli di qualche brigata passa a tutta velocità. Da una curva svolta una vecchia Lada che trasporta un frigorifero e altri mobili legati con delle corde su un carrettino a rimorchio. Una serie di ambulanze a sirene spiegate viaggia verso ovest, probabilmente la coda tardiva di un’evacuazione di civili. Verso sera l’attività dell’artiglieria aumenta progressivamente e prima che faccia buio passiamo di nuovo il ponte, ricordandoci sempre, come dice un amico ucraino di queste zone, che «è l’ultimo rimasto, potrebbero colpirlo in ogni momento: correte!»
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Il premier britannico Starmer, novello Blair, a Washington: vuole che Biden autorizzi l’Ucraina a usare i missili a lungo raggio. Ultimatum di Putin: così sarà guerra diretta fra la Russia e i paesi della Nato
Il limite ignoto. Al Consiglio di sicurezza Onu l’ambasciatore russo ribadisce la minaccia di Putin: «Conflitto con la Nato»
Il messaggio di Vladimir Putin «è molto importante», e «ha senz’altro raggiunto i suoi destinatari», ha detto giovedì il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov a proposito dell’ultimatum del presidente russo sui missili a lungo raggio. Se all’Ucraina verranno rimosse le restrizioni territoriali, e potrà impiegare gli agognati Storm Shadow inglesi per colpire sul suolo russo, «cambierebbe la natura stessa del conflitto», aveva affermato Putin, e i paesi Nato «si ritroverebbero in guerra con la Russia». Per maggiore chiarezza, il concetto è stato ribadito ieri anche dall’ambasciatore di Mosca all’Onu, Vassily Nebenzia, al Consiglio di sicurezza: «La Nato sarebbe direttamente coinvolta nelle ostilità contro una potenza nucleare, credo che non dobbiate dimenticarvi di questo, e pensare alle conseguenze». L’intervento al Consiglio di sicurezza avviene nello stesso giorno dell’incontro – a Washington – fra il presidente Usa Joe Biden e il primo ministro inglese Keir Starmer, che dovrebbe essere incentrato proprio sull’eventualità di autorizzare l’invio e l’uso dei missili Storm Shadow.
SECONDO una ricostruzione del New York Times, Biden sarebbe «sul punto» di approvare l’uso di missili a lungo raggio – la visita di Starmer è proprio mirata a chiedere formale approvazione da parte dell’alleato americano – a patto che (per il momento) non vengano impiegati quelli Usa, gli Atacms. A dissuadere Biden dall’autorizzare l’uso dei missili del proprio esercito avrebbero influito i report dell’intelligence per cui la Russia reagirebbe aiutando l’Iran ad attaccare le forze armate statunitensi in Medio oriente.
A RIBADIRE la sua assoluta contrarietà all’invio e l’uso di missili a lungo raggio è stato il cancelliere tedesco Olaf Scholz, interpellato da Afp proprio in vista dell’incontro Biden/Starmer nel pomeriggio di Washington (troppo tardi per noi): «La Germania ha preso una decisione chiara su ciò che farà e ciò che non farà. Questa decisione non cambierà». Di parere opposto il premier canadese Justin Trudeau: il Canada sostiene e approva l’uso da parte di Kiev di queste armi per «prevenire e impossibilitare la continuata capacità russa di arrecare danno alle infrastrutture civili ucraine». Del suo stesso avviso, naturalmente, anche Volodymyr Zelensky, che su X ha ringraziato gli Stati uniti per il loro «sostegno militare ed economico». «Tuttavia – ha aggiunto – ci serve il permesso per usare le armi a lungo raggio, e spero che verrà presa una decisione rilevante».
In Cina un forum a cui partecipano russi e ucraini
In attesa dell’incontro che potrebbe cambiare la direzione della guerra, ieri è continuata la battaglia diplomatica fra Mosca e il Regno unito per i sei diplomatici britannici espulsi
Leggi tutto: Starmer al cospetto di Biden per l’ok sugli Storm Shadow - di Ester Nemo
Commenta (0 Commenti)La festa di Verdi e Sinistra. «L’alternativa alla destra la costruiamo sui temi», dice Schlein mentre la sala fischia Renzi e Calenda (assenti). Fratoianni: non è geometria. Conte: il leader poi. Ma la guerra divide
I leader del cosiddetto "campo largo"
Alla prima festa nazionale di Alleanza Verdi Sinistra riprende la stagione politica del centrosinistra. L’ultima foto risale alla festa bolognese dell’Anpi. Qui i cinque leader (Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli, Elly Schlein, Giuseppe Conte e Riccardo Magi) si ritrovano reduci dalla votazione del Ddl sicurezza alla camera. E l’unità del campo largo, di cui si fa un gran parlare fin dai dibattito pomeridiani, è garantita anche dalle condizioni meteorologiche: tutti sotto il tendone che ripara l’uditorio dalla pioggia torrenziale che piomba sul parco Nomentano, senza tanti fronzoli.
«Noi vorremo che chi è qui questa sera fosse l’anima dell’alternativa alla detesta che ci disgoverna – esordisce Fratoianni – Sono quelli che manderanno in galera operai, studenti ed ecoattivisti. Questa serata deve rappresentare l’avvio dell’alternativa, assumendocene la responsabilità come facciamo spesso già in parlamento». Sul perché non ci sono Matteo Renzi e Carlo Calenda (il pubblico urla «Noooo»), il segretario di Sinistra italiana chiarisce: «Ragionare adesso del perimetro della coalizione non ha alcun senso, se è un tema di carattere geometrico dico subito che abbiamo bisogno di allargare il consenso. Ma serve una proposta credibile: milioni di italiani hanno smesso di partecipare, si sono sentiti delusi e traditi».
Elly Schlein dice subito che è meglio chiamarlo «campo progressista». «Mi sono impegnata a raccogliere proposte su cui lavorare insieme appena sono diventata segretaria – prosegue – Noi l’alternativa alla destra la costruiamo sui temi. Pensiamo alla sanità pubblica: la destra vuole sanità a misura di portafoglio. O alla difesa della scuola pubblica come prima grande leva di emancipazione». E poi: «Non saremo d’accordo su tutto, ma nei discorsi che ascolto c’è un tratto comune che risponde a un bisogno comune di speranza: le forze qui presenti stavano già insieme quando abbiamo vinto contro la destra alle amministrative».
Passa il giro di vite su occupanti e attivisti
Angelo Bonelli risponde idealmente alla leader della Bsw tedesca Sarah Wagenknecht (della quale si parla molto nelle retrovie) precisando che «questione sociale e questione ambientale sono indistinguibili». Bene, ma chi sarà il leader? Giuseppe Conte mostra fair play: «Ora non ha importanza stiamo costruendo la coalizione. E il giverno difende un’economia da bar, di camerieri e per il turismo, mente l’industria perde». Riccardo Magi ridisegna la metafora spaziale della coalizione: «Il campo largo è stanziale, fisso: parliamo di strada e di quello che ci tiene insieme, come i diritti che vengono violati dal Ddl sicurezza».
Alla fine, Conte è costretto a chiarire l’eterna questione su Trump, parla di deep state e di Stati uniti guerrafondai ma non può evitare la questione. Nicola Fratoianni si dice certo: se definiamo il perimetro ci chiariremo anche questioni più importanti, l’importante è partire». Ma si dice ottimista sul futuro: «Da quando c’è questo governo reazionario ci troviamo giorno dopo giorno a votare insieme, il dialogo nasce lì. Su alcune cose siamo d’accordo, su altre no». Poi, forse anche a beneficio dello scontro interno ai 5 Stelle, tira fuori l’importanza dell’«etica pubblica» e i conflitti d’interesse. Tutti in un modo o nell’altro parlano dell’astensionismo, del fatto che la metà del paese ha smesso di votare.
Ma la foto di Montesacro, ultima in ordine di tempo coi cinque leader, non può prescindere dalle differenze. Soprattutto in politica estera. «Il diritto internazionale dice che l’Ucraina è il paese aggredito», dice Magi. E Fratoianni rivendica il voto contro ogni invio di armi. «Per mandare a casa questo governo con venature neofasciste non bisogna nascondere le differenze e bisogna rafforzare le convergenze», è la formula proposta dal segretario di +Europa.
Chiude Angelo Bonelli, con Fratoianni padrone di casa: «Se commettiamo l’errore drammatico del 2022, quando dividendoci abbiamo regalato la maggioranza alla destra, ci rincorrono coi forconi. Ma vorrei dire a Magi che il diritto internazionale vale anche per Gaza. E non dimentichiamo il progetto neocoloniale che chiamano Piano Mattei. Su questo facciamo già battaglia comune in parlamento. E come Avs porteremo le organizzazioni africane, il prossimo 17 ottobre, a parlare di quel progetto». Bonelli viene ormai identificato come l’uomo degli esposti. Rivendica che quello sul sottosegretario Delmastro è servito a mandarlo sotto processo. «La stessa cosa vale per Sangiuliano: non possiamo tollerare la permeabilità delle istituzioni, se io da deputato avessi chiesto la mappa del G7 a Pompei giustamente non me l’avrebbero data. Si comportano così perché si sentono padroni. Per questo dobbiamo mandarli all’opposizione». Alla fine sale sul palco una delegazione di «italiani senza cittadinanza» che invita a firmare per i referendum che dimezza, da dieci a cinque, gli anni che servono per ottenere la cittadinanza
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Lavoro sommerso. Città in piazza per chiedere garanzie sul progetto della gigafactory di batterie elettriche: «Non accetteremo ulteriori ritardi»
Il presidio dei sindacati in piazza a Termoli
«È inaccettabile che la situazione di assoluta incertezza che sta attraversando il settore dell’automotive ricada sulle spalle di migliaia di lavoratori. È chiaro che senza risposte, metteremo in campo le azioni necessarie per responsabilizzare Stellantis e governo, che continuano ad azzuffarsi sulla pelle dei cittadini».
In centinaia si sono ritrovati ieri pomeriggio in piazza Monumento a Termoli per un presidio organizzato dai sindacati in vista del tavolo fissato al ministero delle Imprese e del made in Italy per martedì 17 settembre. Mobilitazione, promossa da Fim Fiom, Uilm per focalizzare l’attenzione sulla mancanza di risposte riguardo alla realizzazione della gigafactory a Termoli, annunciata a ripetizione da Acc (joint venture tra Stellantis, Mercedes e TotalEnergies) ma sulla cui nascita è improvvisamente e inaspettatamente scesa una oscura cortina di dubbi.
ERA LA SOLUZIONE annunciata, e sembrava quasi fatta, per salvare i circa duemila dipendenti dell’ex stabilimento Fiat, nato nel 1972, nel nucleo industriale di Termoli e specializzato nella produzione di motori e trasmissioni. E che va avanti faticosamente.
Francesco Guida, Uilm Molise, descrive il clima di incertezza all’interno della fabbrica: «Stellantis si sta disgregando nei vari reparti, e questo è un momento molto delicato. Abbiamo tantissimi lavoratori a casa, in cassa integrazione. L’impasse si trascina da un pezzo e le prospettive non sono incoraggianti. Stellantis deve fare chiarezza, insieme alla politica, e fornire risposte concrete a un territorio che, anche sacrificandosi, ha sempre dato tanto all’azienda e che, oggi più che mai, ha bisogno di scelte precise per guardare al proprio futuro».
Dopo quella di Billy-Berclau Douvrin in Francia e la seconda in Germania, la gigafactory di Termoli avrebbe dovuto essere la terza in Europa, per la produzione di batterie per veicoli elettrici, pensando alla mobilità sostenibile. Ma il progetto è finito in stand by.
I turchi di Beko già tagliano in Polonia. In Italia sciopero il 12
Gianluca Ficco, segretario nazionale Uilm: «Chiederemo al tavolo, innanzitutto, certezze sull’investimento. Le chiederemo a Stellantis, alla quale chiederemo anche di garantire la produzione di motori sufficienti per agganciare la transizione». Samuele Lodi, segretario nazionale Fiom e responsabile del settore mobilità: «Per Termoli abbiamo bisogno di risposte chiare. Vogliamo sapere quando ripartirà il progetto. Stellantis detiene il 45% del consorzio e deve garantire la prospettiva e, contestualmente, volumi di motori adeguati».
Dicono alcuni operai: «Sarebbe la svolta cruciale, non solo per l’economia locale. Questa è un’opportunità di rinascita per la regione, che vive una lunga fase di difficoltà economiche e occupazionali».
«BASTA INCONTRI INFRUTTUOSI – rimarcano in un documento congiunto i sindacati che hanno promosso il sit-in -. Con questa manifestazione abbiamo voluto rendere evidente che la gigafactory è essenziale per tutto il territorio e per l’intera popolazione. Chiediamo al Governo e a Stellantis di smetterla con le loro reciproche dannose diatribe poiché le conseguenze di questa lite colpiscono i lavoratori e l’industria del nostro paese. Acc tenga fede agli impegni. Per nessun motivo i fondi pubblici stanziati per Termoli devono essere distratti e dirottati altrove: il progetto industriale deve andare avanti».
Se la querelle non cesserà, è la promessa, «ci faremo sentire: sarà battaglia». E proseguono: «Le polemiche stanno solo aggravando una situazione già fortemente critica. Ci aspettiamo che ci si muova, ognuno per la sua parte, per la difesa e il rilancio dell’intero comparto».
Roberto Gravina, ex sindaco di Campobasso e ora consigliere regionale: «Troppe uscite improvvide da parte del ministro Adolfo Urso riguardo ai fondi Pnrr e, pensando al caso Termoli, al loro utilizzo. Non possiamo perdere un’occasione unica, senza alternative, per questa nostra realtà e per l’Italia intera. E’ vero che c’è stato un rallentamento verso la transizione, ma non si può fare retromarcia e rinunciare a un investimento del genere. Bisogna fare in modo che i finanziamenti annunciati rimangano qui, anche stendendo i ponti d’oro a Stellantis, se necessario»
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Il mondo libero. La 28enne curdo-iraniana prigioniera da 9 mesi in Calabria: «È estremamente depressa». Dubbi sui testimoni e sui traduttori. All’udienza di mercoledì saranno ascoltati i poliziotti, la sentenza è attesa per il 5 novembre
Maysoon Majidi durante l’udienza a Crotone del 24 luglio scorso. Foto di Silvia di Meo
«Maysoon Majidi ha ricominciato lo sciopero della fame». A dirlo è il suo avvocato, Giancarlo Liberati, che ieri mattina l’ha sentita per telefono dopo averla incontrata nella mattinata di mercoledì. La regista e attivista curdo-iraniana, detenuta in Calabria, prima a Castrovillari e ora a Reggio, da oltre nove mesi per l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, aveva già scelto di smettere di nutrirsi lo scorso maggio, arrivando a pesare appena 38 chili. «È estremamente depressa, nel corso del nostro incontro ha pianto ripetutamente», racconta il consigliere regionale Ferdinando Laghi, che giovedì è andata a farle visita in carcere. C’è anche tanta solidarietà per lei, però. «Maysoon ha collezionato ben due pacchi di lettere e cartoline che certamente l’hanno rincuorata – dice ancora Laghi -. Continuiamo a starle vicino e a sostenere la sua causa».
L’ATTESA è tutta per la prossima udienza, fissata per mercoledì a Crotone. La procura sostiene che Majidi, 28 anni, fosse «l’aiutante del capitano» dell’imbarcazione che il 31 dicembre dell’anno scorso è arrivata sulle coste calabresi con 77 persone a bordo, ma le prove risultano poche e contraddittorie: due testimoni l’hanno riconosciuta, ma ormai sono irreperibili (almeno per il tribunale) e la loro versione dei fatti non è stata videoregistrata, dunque la difesa non ha la possibilità di effettuare una perizia sulla traduzione delle loro parole. Non solo: a maggio, la trasmissione televisiva Le Iene era riuscita a raggiungerli in Germania e, intervistati, i due hanno detto di non aver mai riconosciuto Majidi come scafista perché la barca era guidata «da un uomo turco».
Zerocalcare: «Solidali con i curdi, ma solo a volte»
Gli investigatori hanno anche un video preso dal cellulare della donna in cui lei rassicura il padre sulle sue condizioni e ringrazia il capitano della nave. E però la
Leggi tutto: Il processo arranca e Majidi ricomincia lo sciopero della fame - di Mario Di Vito
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