Striscia di Gaza Il ministero della sanità palestinese ha pubblicato i nomi di 34mila morti identificati. Uccisi ieri a Gaza altri 20 palestinesi. Cinque sono stati fatti a pezzi da una bomba mentre erano in fila davanti a una panetteria nell’«area sicura» di Mawasi
Mentre Benyamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant dicevano ieri all’inviato Usa Amos Hochstein che solo un conflitto totale in Libano «riporterà nelle loro case gli sfollati» dall’Alta Galilea, l’offensiva israeliana che da quasi un anno devasta Gaza continua ogni giorno, senza eccezioni, a uccidere palestinesi. Almeno altri 20 ieri, a sud come a nord della Striscia, in prevalenza civili colpiti in campi di tende e abitazioni: cinque sono stati fatti a pezzi da una bomba mentre erano in fila davanti a una panetteria nel campo Al Sumud nell’«area sicura» di Mawasi. Non si sa se queste vittime saranno identificate tutte subito, andando ad aggiungersi alle oltre 30mila, sulle 41.226 in totale dal 7 ottobre, che sono state riconosciute ufficialmente e hanno un nome e un cognome.
Due giorni fa il ministero della Salute di Gaza ha pubblicato un documento di 649 pagine in cui vengono forniti nome, età, sesso e numero della carta di identità di 34mila palestinesi uccisi dalle forze israeliane. Le prime 14 pagine del documento sono agghiaccianti. Contengono i nomi dei bambini che avevano meno di un anno quando sono morti nei bombardamenti israeliani. I minori uccisi sono 11.355, un terzo del totale dei morti. 13.737 sono gli uomini, con un’età compresa tra i 18 e i 30 anni, in parte combattenti di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi, tutti gli altri sono civili. Ottobre 2023 è stato il mese più mortale per i bambini e le donne palestinesi. Tuttavia, il numero effettivo dei deceduti con ogni probabilità è più alto anche del totale degli uccisi identificati e da identificare: sotto le macerie di edifici e case, ci sarebbero i corpi di almeno 10mila palestinesi dispersi. Sono invece circa 1.600 i soldati e i civili israeliani uccisi il 7 ottobre e negli 11 mesi successivi.
Un bagno di sangue che include anche la Cisgiordania occupata (centinaia i palestinesi uccisi) e che per starebbe per allargarsi al Libano. Ieri Hochstein, l’inviato di Biden, ha ripetuto agli israeliani che un conflitto più ampio contro Hezbollah – che lancia attacchi contro Israele in sostegno dei palestinesi – non aiuterà gli sfollati a tornare a casa. Una possibilità che non spaventa Benyamin Netanyahu, anzi il premier israeliano appare deciso ad aprire un nuovo fronte di guerra. I 60.000 israeliani evacuati dal nord, ha detto Netanyahu a Hochstein giunto ieri a Tel Aviv, «non potranno tornare alle loro case senza un cambiamento fondamentale nella situazione della sicurezza» nelle zone di confine con il Libano. «Israele – ha avvertito il primo ministro – apprezza e rispetta il sostegno degli Stati uniti, ma alla fine farà ciò che è necessario per mantenere la sua sicurezza». Una dichiarazione di guerra indiretta che potrebbe materializzarsi nel giro di qualche giorno, malgrado la presunta opposizione alla guerra, almeno in questa fase del ministro della Difesa Yoav Gallant, contrario a disperdere le forze armate su più fronti. In realtà anche Gallant punta alla guerra, ma non subito. Secondo un comunicato del ministro della Difesa diffuso dopo il faccia a faccia con Hochstein, Gallant ha sottolineato che la possibilità di un accordo con Hezbollah si sta esaurendo poiché il movimento sciita continua a «legarsi» a Hamas.
Paradossalmente proprio l’uscita di scena di Gallant darebbe inizio del conflitto. Liberandosi del «dubbioso» ministro della Difesa e sostituendolo con Gideon Saar, un ex rivale divenuto di recente suo alleato, Netanyahu avrebbe la strada spianata per l’attacco in Libano. Saar è noto per il suo sostegno alla «vittoria totale» contro Hamas a Gaza e per un attacco massiccio in Libano. Le sue posizioni spaventano persino le famiglie degli ostaggi israeliani: la sua nomina, dicono, significherebbe l’addio definitivo alla possibilità di un accordo con Hamas per uno scambio di prigionieri. Netanyahu comunque ieri ha negato di voler sostituire Gallant.
Gli esperti militari affermano che Israele ha raccolto in questi mesi «informazioni di intelligence fondamentali» ed è pronto a lanciare un attacco dal cielo a sorpresa in Libano per neutralizzare buona parte dei sistemi di lanci di razzi e missili di Hezbollah. Se ciò non spingerà il movimento sciita ad arretrare i suoi uomini e avrà inizio una pioggia di razzi, droni e missili contro obiettivi in Israele (inclusa Tel Aviv), scatterà l’offensiva di terra e una nuova occupazione del Libano del sud, 24 anni dopo il ritiro israeliano dal paese dei cedri.
Hezbollah non si lascia intimidire e anche ieri ha rivendicato attacchi contro postazioni militari israeliane in Alta Galilea, in rappresaglia per i sanguinosi raid israeliani nei quali sono morti non solo combattenti ma anche civili, tra cui un bambino. L’influente deputato di Hezbollah, Hussein Hajj Hasan, ha ribadito che la sua organizzazione cesserà i lanci di razzi e droni quando Israele metterà fine alla sua offensiva a Gaza. «Il nostro obiettivo è chiaro ed è evidente a tutti: impedire al nemico di vincere e aiutare la resistenza a Gaza a ottenere la vittoria» ha detto.
Netanyahu fa la voce grossa anche con i combattenti Houthi. Domenica ha avvertito non mancherà di rispondere al lancio di un missile balistico dallo Yemen verso il centro di Israele, caduto a soli 35 chilometri dall’aeroporto internazionale Ben Gurion. Lo scorso luglio, dopo l’uccisione di un israeliano a Tel Aviv causata da un drone degli Houthi, l’aviazione israeliana bombardò massicciamente il porto yemenita di Hodeida causando gravi danni e numerose vittime
Commenta (0 Commenti)Il premier inglese Starmer da Meloni per sigillare l’intesa sulle politiche migratorie: «Grande attenzione per il protocollo Roma-Tirana». Il modello italiano fa scuola: sulla deportazione di chi cerca asilo, laburisti e destra vanno a braccetto
Il Labour sporco La premier italiana esulta per l'interesse del governo britannico sul protocollo Roma-Tirana. Rispetto al via libera per i missili a lunga gittata dall’Ucraina alla Russia, invece, resta il disaccordo
Il premier britannico Starmer e la presidente del consiglio italiana Meloni – Ansa
«Secondo me il deterrente più probabile per contrastare l’immigrazione irregolare è colpire le organizzazioni criminali che permettono questa attività. Il precedente governo britannico aveva un approccio di facciata costato 700 milioni di sterline, con il piano Ruanda. Il nostro è più pragmatico: abbiamo già rimpatriato 3mila persone, compreso il volo più grande mai decollato». Bastano queste frasi pronunciate ieri dal premier Uk Keir Starmer alla fine della conferenza stampa con l’omologa italiana Giorgia Meloni per capire che tra i due non c’è solo un feeling occasionale, ma un’intesa profonda. Almeno sulle politiche migratorie, perché sull’altro grande tema del bilaterale, l’Ucraina, le differenze restano.
STARMER E MELONI, ovvero il Labour e Fratelli d’Italia, quindi un certo centro-sinistra e la destra-destra, condividono la stessa interpretazione delle migrazioni: un fenomeno che dipende sostanzialmente dalle organizzazioni criminali. Infatti lei cita Falcone e Borsellino e il loro «follow the money», lui l’esperienza da direttore dell’ufficio del procuratore generale Uk impegnato nella lotta alle organizzazioni jihadiste. Mafia e terrorismo: a questo pensano i due leader quando discutono di migranti.
Da premesse uguali derivano uguali soluzioni: intensificare la lotta ai trafficanti; aumentare la collaborazione giudiziaria, di polizia e intelligence; usare più e meglio Interpol ed Europol creando, propone la leader FdI, sezioni specifiche per il controllo delle frontiere. A dare l’impressione che le ricette italiane funzionino c’è il calo degli sbarchi: -60% sul 2023. Tra Starmer e Meloni aleggia poi il fantasma dell’Albania. Quando al primo, criticato in patria da altri esponenti labour e alcune Ong, viene chiesto se sta ragionando sulla delocalizzazione dei richiedenti asilo, la risposta è elusiva. Dunque è un Sì. Anche perché Meloni è esplicita: «Sul protocollo Roma-Tirana il governo britannico dimostra grande attenzione».
PER LA PREMIER è decisivo incassare questo sostegno. Le recenti pronunce dei tribunali di Palermo e Catania sulle norme per il trattenimento dei richiedenti asilo sono
Commenta (0 Commenti)Nella foto: I danni delle alluvioni che hanno colpito il centro europa, Jesenik, Repubblica Ceca @AP Photo/Petr David Josek
Oggi un Lunedì Rosso che percorre le varie facce della reclusione. Il padre di Maysoon Majidi, attivista e artista curdo iraniana imprigionata in Italia con l’accusa di essere una scafista, scrive al manifesto esprimendo la sua disperazione per l’assurda vicenda della figlia.
Reena Saini Kallat, artista indiana che espone per la prima volta a Roma presso la Richard Saltoun Gallery, raffigura delle mappe geografiche a cui applica cavi elettrici e filo spinato per raccontare la violenza di confini e delle chiusure.
Il noto criminale Renato Vallanzasca invece esce di prigione per finire di scontare i suoi ergastoli in una Rsa, ma solo dopo essere evaso da sé stesso, i medici infatti ne accertano il “decadimento cognitivo”. Per iscriverti gratuitamente a tutte le newsletter del manifesto vai sul tuo profilo e gestisci le iscrizioni.
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Reportage. In viaggio con gli Ospedalieri, l’unico battaglione di volontari ucraini che non combatte, sul bus-ambulanza utilizzato per trasferire nelle retrovie i soldati feriti in battaglia. Il loro motto è «per ogni vita»
L’interno dell’"austriaca", il pullman del Battaglione Ospedalieri, durante il tragitto effettuato ier - Vincenzo Circosta
Lo chiamano «l’austriaca», è un pullman di quelli da viaggio internazionale con lettini da ospedale al posto dei sedili, barelle nel vano dei bagagli e personale medico a bordo. Serve per evacuare i soldati feriti dal Donbass verso gli ospedali del centro dell’Ucraina, soprattutto a Dnipro, e fa il lavoro di 10 ambulanze.
L’HANNO CHIAMATA COSÌ in onore di una volontaria che aveva quel soprannome e che è morta in un’incidente qualche mese fa e dal fatto che l’hanno prodotto in Austria. Negli ultimi tempi percorre i 400 km di strada andata e ritorno quotidianamente, a volte anche due volte in un giorno solo.
L’equipe è composta da un dottore, da 4 o 5 paramedici e un autista-barelliere. Sono tutti volontari, nel senso che nessuno li paga e hanno altri lavori che tornano a svolgere dopo 15 giorni. Tanto dura una rotazione di quello che si è strutturato dal 2014 come il «Battaglione degli Ospedalieri».
«L’ospedale è pieno… e ogni giorno ne arrivano altri: mutilati, ragazzi con gli organi maciullati dalle bombe, altri senza un occhio» racconta Andriy, un capitano ucraino ferito al braccio che incontriamo nell’ospedale centrale di Dnipro. Il suo nome di battaglia era «l’italiano» perché ha lavorato 6 anni a Ischia e infatti parla con un forte accento campano, ma ci tiene a sottolineare che è ischitano, non napoletano. Il padrone del ristorante si chiamava Pasquale («lui sì che era napoletano», sottolinea) e quando ha raccontato ai suoi soldati quanto fosse cattivo con lui il padrone, i suoi sottoposti gli hanno detto che deve comportarsi con i russi peggio di come Pasquale faceva con lui. E quindi ora in trincea lo chiamano Pasquale. In ogni caso, Andriy-Pasquale ci racconta che molti dei suoi «ragazzi» aspettano ancora di essere trasferiti, «fuori da Pokrovsk è diventato un inferno».
SASHA, IL DOTTORE che domani finirà le sue due settimane, è un traumatologo di circa 35 anni che si è unito agli Ospedalieri perché cercava un modo di aiutare «la sua gente» senza dover entrare nell’esercito. La madrina di tutti è Natalia, una donna di 65 anni che è stata prima nell’esercito e poi, quando l’hanno mandata in pensione – e ci tiene a sottolineare che è stato contro la sua volontà – si è arruolata negli Ospedalieri per continuare a «fare la sua parte». Fino a quando? «Finché il fisico me lo permetterà, non voglio essere un peso per gli altri».
A bordo ci sono anche Tanja, tecnico informatico, Kristia, operatrice sociale, il giovane Vitja, studente, e Ruslan il conducente che forse non stacca mai e serpeggia tra i check-point come se avesse una Smart, ma la squadra si fida di lui e i malati non si lamentano. Hanno tutti una preparazione medica e sono in grado di prestare assistenza di base, ma è il dottore a decidere.
QUANDO ARRIVA LA CHIAMATA al centro operativo, che si coordina con il comando militare orientale per gli elenchi dei feriti, con l’amministrazione militare per le licenze e con gli ospedali di destinazione per i posti disponibili, si parte. Troviamo Vitja steso a riposare su uno dei lettini, le donne sedute a chiacchierare in fondo, nella parte che poi spetterà ai malati meno gravi, e Sasha ad accoglierci. «Gli Ospedalieri esistono dal 2014 grazie alle donazioni private dei nostri sostenitori ucraini e internazionali, senza quei soldi potremmo resistere solo per poco: la benzina, i medicinali, le attrezzature mediche sono molto costose».
A differenza degli altri battaglioni di combattenti creati a partire dalla guerra con le repubbliche separatiste, questo non è stato inquadrato nell’esercito e non combatte. Il loro motto è «per ogni vita».
Raggiungiamo una clinica a una trentina di chilometri da Pokrovsk e qui troviamo una folla di feriti ad attenderci. Molti hanno ancora indosso l’uniforme segnata dalla vita di trincea, alcuni invece portano pantaloncini di una taglia errata, la maggior parte è in ciabatte.
LE FERITE vanno da un arto rotto a emorragie dovute a schegge da estrarre, molti necessitano di chirurgia. I più gravi sono portati su 6 barelle: sono un ufficiale e il suo sottoposto di una compagnia di stanza in quel poco che resta del Lugansk, un ragazzo con un occhio bendato che continua a perdere sangue dalla ferita e ha dormito tutto il tempo, un uomo sulla 50ina che è scampato miracolosamente a un drone ma ha il corpo crivellato e un soldato appena arrivato da Pokrovsk più morto che vivo. «Non prendiamo casi disperati» spiega Sasha, «se c’è il rischio che qualcuno muoia a bordo non possiamo portarlo perché non abbiamo l’attrezzatura necessaria».
Dunque l’uomo forse non sta per morire ma non si muove, la testa è gonfia come un pallone e interamente fasciata, per chiedergli come sta gli portano un cartello plastificato con delle faccine che vanno da triste a sorridente e dei numeri da 1 a 10 e lui indica con gli occhi come si sente. Lo fanno bere da una cannuccia e per tutte le tre ore del viaggio lo controllano costantemente.
SEDUTI CI SONO DUE MILITARI con il collare. «Avevamo l’ordine di proteggere una postazione» spiega il soldato soprannominato Groot (come uno dei personaggi de I Guardiani della Galassia), «quando è arrivato un drone russo che evidentemente cercava altro perché all’inizio non ci ha considerato. Poi però hanno capito che eravamo gli unici lì e si rivolto verso di noi, gli abbiamo sparato con qualsiasi cosa avessimo, ma è riuscito comunque a sganciare una granata. Il mio compagno era grave, l’ho trascinato per quanto ho potuto, poi per fortuna ci sono venuti a prendere». Svat (il genero, ndr), ha una barra di metallo che esce dalla fasciatura, non muove più l’avambraccio e il polso, anche lui è stato ferito da un drone.
Garfield, un ufficiale, è svenuto dopo un bombardamento aereo, ha varie schegge di granata conficcate nel corpo, gli hanno installato il catetere perché non riesce a urinare ma la sacca di plastica a un certo punto si è bucata e il suo lettino è diventato una pozzanghera giallastra che i volontari hanno subito ripulito senza un gesto di disappunto. Il soldato che gli è steso accanto gli ha salvato la vita, dopo averlo portato in trincea ha ricevuto l’ordine di tornare in posizione ma ha messo il piede su una mina. Le sue gambe sono coperte e non sappiamo se ricomincerà a camminare, lui è ottimista. È l’unico che dice: «Se potessi non tornerei laggiù».
GLI ALTRI SI DICHIARANO PRONTI a tornare, Garfield addirittura dice che l’adrenalina che gli dà la guerra la usa per ammazzare i russi invasori e che ciò gli dà piacere. Anche Taras l’ischitano non vede l’ora di tornare, «però magari la convalescenza la faccio a casa con la famiglia».
Un soldato scampato a un bombardamento non sente più, si guarda intorno costantemente e fissa tutti. Sorride quando gli chiediamo se vuole dire qualcosa. «Un’intervista? Ci sarebbe da scrivere un romanzo qui». I feriti appena hanno un secondo fumano, gli infermieri degli ospedali gli fanno ombra sulla testa con la mano e gli tolgono la sigaretta prima che la cenere gli cada in faccia. Una vecchia babushka con un’uniforme da infermiera antica come la sua faccia di cuoio si arrabbia quando trasferiscono un soldato sul lettino del pronto soccorso: «Dovete essere delicati con loro»
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Striscia di sangue. Pesanti raid su Gaza City, nuovo ordine di evacuazione a Beit Lahiya. L’Anp: «Preludio all’annessione». E dentro casa, il governo israeliano fa arrestare chi distribuisce volantini
Una donna ferita da un raid israeliano su Khan Younis - Ap/Mohammed Dahman
Tra i tanti rivoli dell’offensiva che Israele sta conducendo contro la popolazione di Gaza c’è anche la repressione interna. Se quella esercitata contro i palestinesi cittadini israeliani, fatta di censure, arresti e licenziamenti, è di fatto invisibile, a generare più imbarazzo agli occhi dell’opinione pubblica interna è il tentativo di silenziare le famiglie degli ostaggi e chi chiede l’accordo di scambio con Hamas.
Giovedì tre donne sono state arrestate e detenute per otto ore per aver poggiato dei volantini con appelli alla liberazione degli ostaggi sulle panche di una sinagoga a Herziliya. Ieri la polizia ha aperto un’inchiesta sulla condotta degli agenti che le hanno ammanettate.
DISSENTIRE non si può, il governo avanza come uno schiacciasassi a difesa di se stesso. Perché la questione degli ostaggi (101 quelli che si reputano sia ancora vivi) è la sola che fa traballare la coalizione di ultradestra e garantisce frecce all’arco di opposizioni altrimenti silenti, non il genocidio in corso a Gaza – di cui quella stessa opinione pubblica non parla – né i massacri che vanno in mondo visione.
Ieri a Gaza l’aviazione ha colpito due scuole. Ormai si è perso il conto. I video pubblicati sulle piattaforme social mostrano scene simili a quelle di stragi precedenti: soccorritori che a mani nude scavano tra le macerie della scuola Dar al-Arqam, a nord ovest di Gaza City, e in quella Shuhada al-Zeitoun, nella stessa città. In entrambi i casi ieri pomeriggio erano stati recuperati cinque corpi senza vita. E in entrambi i casi l’esercito israeliano ha detto di aver preso di mira centri di comando di Hamas usati per pianificare attacchi alle truppe di terra e per produrre ordigni.
Sempre a Gaza City la protezione civile ha recuperato undici cadaveri nel quartiere al-Tuffah, dopo un raid israeliano: erano tutti membri della famiglia Bustan, tra loro quattro bambini e tre donne, dice all’Afp il portavoce della protezione civile Mahmoud Basal. Solo ieri in tutta la Striscia si sono registrate almeno 64 vittime, che portano il bilancio accertato dal 7 ottobre a 41.182 (oltre 10mila dispersi, un numero che tende a restare stabile tra i cadaveri via via identificati e nuove vittime rimaste sotto le macerie).
Ad annunciare un nuovo ordine di evacuazione a nord è stato l’ormai noto Avichay Adraee, il portavoce dell’esercito per la lingua araba: i civili devono lasciare la zona orientale di Beit Lahiya, tre diversi quartieri. Si restringe così ulteriormente lo spazio dichiarato sicuro dalle forze di Tel Aviv, sebbene i mesi passati abbiano dimostrato come una simile etichetta sia quasi del tutto inutile: meno del 15% della Striscia ricade oggi nella classificazione «area umanitaria».
UNA LETTURA dei continui ordini di evacuazione emessi dall’esercito israeliano – nelle ultime settimane a cadenza quasi giornaliera – la dava ieri il ministero degli esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) secondo cui «la cacciata di palestinesi dal nord di Gaza…prelude all’annessione di significative parti del territorio a fini di colonizzazione».
Nelle stesse ore a Didim, lungo la costa ovest turca, si tenevano i funerali della giovane attivista turco-statunitense dell’International Solidarity Movement, Aysenur Ezgi Eygi, uccisa una settimana fa da un cecchino israeliano a Beita, vicino Nablus. Dopo quella dell’Anp, è stata la Turchia a svolgere un’autopsia che conferma la prima: un colpo diretto e non di rimbalzo
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Al processo Open Arms la Procura chiede 6 anni per Salvini: «Sequestrò i migranti». Meloni alza i toni in difesa del ministro, ma soprattutto dei «confini della nazione», e attacca i magistrati: «Precedente gravissimo». Tajani si accoda. Il leader della Lega in un video: «Rifarei tutto»
Uomo a mare. Sette ore di requisitoria: «Doveva concedere subito il porto sicuro». Il ministro, assente in aula, fa la vittima con un video sui social. La palla passa alla difesa, la sentenza potrebbe arrivare alla fine dell’anno
A bordo della nave Open Arms, agosto 2019 - foto Open arms
È stato Matteo Salvini a imporre i decreti che impedivano alle navi delle ong di entrare nelle acque territoriali. È stato Matteo Salvini a ritardare e negare il porto sicuro alla Open Arms che aveva a bordo 147 migranti. È stato Matteo Salvini a tenere la regia del tavolo tecnico ed era a lui che arrivavano «in modo costante e quotidiano» gli aggiornamenti sulla nave spagnola per venti giorni tenuta in mare. È stato Matteo Salvini a imporre di procedere prima con la redistribuzione e poi al rilascio del pos (il porto sicuro).
PER I PM del processo Open Arms, il vicepremier è l’unico responsabile, lo dimostrano i documenti acquisiti al dibattimento e le testimonianze. E non è vero, come sostiene la difesa, che ogni decisione era concordata da Salvini con gli altri ministri competenti del governo Conte, persino l’allora premier, sentito al processo, era tenuto all’oscuro di alcune scelte. Salvini, è la tesi dell’accusa, ha fatto tutto per interesse, il suo scopo sarebbe stato di intercettare più consenso sfruttando la lotta all’immigrazione clandestina. «Non c’era ragione» per agire in quel modo ha incalzato la pubblica accusa. Ecco perché per i pm Salvini va condannato. L’aggiunto Marzia Sabella e i sostituti Geri Ferrara e Giorgia Righi hanno chiesto 6 anni di carcere per il leader della Lega, contestandogli il sequestro di persona e il rifiuto di atti d’ufficio.
Per questi reati il codice non prevede pene alternative al carcere. In sette ore di requisitoria l’accusa ha cercato di smontare alcuni punti interrogativi, come quelli legati al sommergibile Venuti della marina militare, la cui informativa trasmessa all’epoca al Viminale viene ritenuti ininfluente ai fini del processo. Ferrara ha ricostruito il quadro normativo nazionale e sovranazionale, sostenendo che l’allora ministro degli Interni nel governo Conte ha violato convenzioni, regolamenti europei e sentenze della corte costituzionale; Righi invece ha ripercorso tappa dopo tappa l’intera vicenda, ricordando alcune testimonianze, tra cui quella dell’ex premier Conte e delle lettere inviate a Salvini per contestargli fughe di notizie e decisioni non condivise col governo.
«ALLA OPEN ARMS il pos doveva essere rilasciato senza indugio e subito, il diniego è stato in spregio delle regole e non per proseguire in un disegno governativo», e quel «diniego consapevole e volontario ha leso la libertà di ognuna delle 147 persone e non c’era ragione». Quindi un pensiero ai migranti, «i grandi assenti in questo processo:
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