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CRISI UCRAINA. Pubblicati i 12 punti della posizione cinese. I russi: «Apprezziamo». Zelensky: «Lavoriamoci». Ma contro il "position paper" di Pechino arrivano bordate americane: «I cinesi armano la Russia»

Piace a tutti il piano della Cina, in cui non c’è la parola «guerra

 

È difficile chiamarlo “piano di pace” se non contiene nemmeno la parola “guerra”. Il position paper pubblicato ieri dal ministero degli esteri sceglie la definizione di “crisi” ma rappresenta comunque un passo ufficiale della Cina, che propone al mondo la sua visione sul conflitto e sul mondo che dovrà sorgere dopo di esso. Nessun piano concreto per arrivare alla pace, ma una serie di concetti che mettono nero su bianco una visione di mondo in cui gli Usa non dovrebbero più perseguire “egemonia” e in cui tutti i modelli di sviluppo sono legittimi.

Il documento è stato accolto positivamente soprattutto dai due protagonisti della guerra. «Apprezziamo gli sforzi di Pechino e condividiamo le sue considerazioni», ha commentato il ministero degli esteri russo, che poi forza la lettura del testo, sostenendo che invita Kiev a «riconoscere le nuove realtà territoriali». In realtà, il primo punto del position paper è il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale. Passaggio che consente a Volodymyr Zelensky di dichiarare che l’Ucraina «ha bisogno di lavorare con la Cina» per trovare una soluzione. Vero che il testo non fa distinzioni tra aggressore e aggredito e che viene proposta una cessazione delle ostilità che non condanni Mosca, ma la vera novità degli ultimi giorni è che Pechino ora è disposta a parlare esplicitamente della vicenda. «Il fatto che la Cina abbia iniziato a parlare dell’Ucraina non è male», ha detto Zelensky.

Il secondo dei 12 punti del documento è quello del rispetto delle “legittime preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi”, principio legato nel testo alla propagazione della “mentalità da guerra fredda”. Scelta che chiarisce definitivamente che in questo caso la Cina si riferisce a Mosca, che sarebbe stata in qualche modo “costretta” a violare l’integrità territoriale ucraina dopo che le sue esigenze di sicurezza sono state ignorate da Stati uniti e Nato. Cioè coloro che gettano “benzina sul fuoco”, come spiegato anche in sede Onu in occasione dell’astensione (scelta come sempre anche dall’India) alla risoluzione che chiedeva il ritiro dell’esercito russo.

Ribaditi anche il rifiuto delle sanzioni e il no all’utilizzo di armi nucleari o alla sua minaccia. Un colpo agli Usa e uno alla Russia. Sul nucleare Pechino compie però anche un passo in più, chiedendo la sicurezza delle centrali che sono entrate a più riprese nel conflitto. I punti su export di grano e stabilizzazione delle catene di approvvigionamento sono funzionali a proporsi come garante di stabilità, in primis economica. Tema a cui sono sensibili in molti: di sicuro il Sud globale di cui la Cina prova a ergersi capofila, ma anche l’Europa. Proprio i paesi europei appaiono i principali destinatari del documento, così come dell’intervista ai media cinesi di Wang Yi, lo zar della diplomazia cinese appena rientrato dal grand tour tra Vecchio Continente e Mosca.

La richiesta è quella di svincolarsi dagli Usa e perseguire una politica estera più autonoma. Le ambiguità e il bilancino utilizzati nel position paper rendono però difficile all’Europa evitare lo scetticismo sulle intenzioni cinesi, acuite dalla controffensiva diplomatica americana. Anche ieri, Antony Blinken ha ribadito che Washington teme l’invio di armi letali cinesi alla Russia. Ipotesi ventilata anche dal tedesco Der Spiegel, che parla di trattative per la spedizione di droni kamikaze. “Falsità” per Pechino, che anzi sostiene che la pace in Ucraina sia resa impossibile dal continuo invio di armi statunitensi a Kiev.

La Cina sostiene anzi che gli Usa vogliano alimentare tensioni anche sullo Stretto di Taiwan. Il Wall Street Journal ha scritto che il Pentagono estenderà il programma di addestramento dell’esercito taiwanese, portando da 40 a quasi 200 il numero di consiglieri militari sull’isola. Un programma mai annunciato ufficialmente, ma di cui tutte le parti in causa conoscono l’esistenza. Washington sembra però disposta a parlarne più apertamente, così come non ha nascosto il viaggio di Joseph Wu, primo ministro degli esteri di Taipei a venire ricevuto per colloqui formali. Forse è anche per questo che è difficile trovare una pace sull’Ucraina: la partita è ben più ampia

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CRISI UCRAINA. All'ambasciata nel primo anniversario dell'invasione. Lega e Forza Italia non pervenute. E Prodi denuncia: «Gli Usa vogliono dividere l’Europa»

Solidarietà con l’Ucraina solo da Letta e Meloni. Conte si sfila: «Basta armi» Enrico Letta e l'ambasciatore ucraino Yaroslav Melnyk - foto Twitter

A metà di una giornata particolare, il primo anniversario dell’invasione russa, l’ambasciata dell’Ucraina fa sapere che solo le delegazioni di FdI e del Pd sono arrivate per portare la loro solidarietà. Quella del Pd era guidata da Letta e all’uscita il quasi ex leader ha sottolineato, non a caso, che «l’invio delle armi a un Paese aggredito è nel dna del Pd».

L’ambasciata segnala anche, per fare nomi, che non si è presentato nessuno della Lega, di Fi e del M5S. È un segnale preciso, non il primo e certo non l’ultimo, del nervosismo con cui Kiev guarda ormai all’Italia.

È una preoccupazione infondata se si guarda solo al palcoscenico della politica istituzionale, sul quale non figurano crepe. Il capo dello Stato Mattarella ha parlato di «un’aggressione come non se ne vedevano dalla Seconda Guerra Mondiale». La presidente del consiglio ha inaugurato la giornata con un lungo messaggio via Tweet incandescente e calibrato per rassicurare Zelensky su tutti i piani. La premier condivide in pieno l’analisi di Kiev per cui se l’Ucraina avesse capitolato Putin avrebbe poi invaso altri Paesi. Afferma che «il mondo libero è debitore nei confronti delle donne e degli uomini ucraini».

NELLA RIUNIONE DEL G7 in teleconferenza, si sforza anche di più. Martella sulla necessità di «contrastare la narrazione di Putin» e fa in modo che la notizia filtri. Ufficialmente si allude al rischio che detta narrazione faccia presa in Africa, ma va da sé che Giorgia ha in mente località più vicine, tipo Arcore.

È quella fronda, non sempre silenziosa, che si manifesta anche attraverso la scelta di non portare personalmente la solidarietà all’ambasciata che preoccupa e irrita gli ucraini. Il leader dei 5S non la manda a dire: «La strategia che si sta perseguendo porta solo a un’escalation militare. Questa strada ci conduce ad armi sempre più sofisticate e a un conflitto incontrollabile». La spina però non è Conte, leader d’opposizione: sono l’uomo di Arcore e quello di via Bellerio che invece stanno in maggioranza, hanno voce in capitolo sul nodo essenziale delle armi e la alzano per frenare l’impeto di Giorgia.

ANTONIO TAJANI, il politico italiano che da giorni si dibatte nella posizione più scomoda, fa il possibile per nascondere le tensioni. Giura che per il Sovrano d’Arcore Putin «ha rappresentato una grande delusione» e tra i due nell’ultimo anno «non ci sono mai stati contatti». Commenta il piano cinese con accenti intransigenti sulla voce mancante, quella del «ritiro delle truppe russe». Il solo problema è che a parlare è appunto Tajani. Non Silvio Berlusconi, che invece tace.
Il silenzio del Cavaliere per la premier è una buona notizia, e anzi è stata lei stessa a insistere per il mutismo, nella telefonata “pacificatrice” di due giorni fa. Prevede che qualora parlasse i toni, se non i contenuti, sarebbero ben diversi da quelli di Tajani. Ma se sull’evitare risposte contundenti a Zelensky e nuove dichiarazioni incendiarie sulla guerra, nonostante l’anniversario, la tricolore l’ha spuntata, sull’eventuale invio dei caccia tanto Fi quanto la Lega, resistono.

IL PROBLEMA sinora non si è posto, in buona parte le polemiche di questi giorni sono chiasso mediatico. Però più prima che poi è probabile che si ponga, ove la decisione venisse presa dalla Nato. Alla fine anche Berlusconi e Salvini in questo caso si piegherebbero, ma non senza mettere allo scoperto le divisioni profonde nella destra, che solo l’interesse comune permette per ora di ricucire.

Le tradizionali lacerazioni della destra non sono l’unico campanello d’allarme. L’intervista rilasciata ieri al Corsera da Romano Prodi è in realtà una denuncia precisa, pur se in stile prodiano: l’ex presidente della Commissione europea accusa di fatto gli Usa di privilegiare i Paesi dell’Europa dell’est, approfittando della guerra, con l’obiettivo di spaccare l’Europa e indirizzarla secondo i propri interessi. Data l’autorevolezza della fonte è qualcosa in più di un semplice scricchiolio.
Senza contare il principale dato che scuote Kiev e probabilmente anche Washington: in Italia la maggioranza della popolazione è su posizioni ben diverse da quelle del governo dei falchi atlantisti e nasconderlo è sempre più difficile

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L'ESTRATTO DAL NUOVO LIBRO DI CHOMSKY. C’è la possibilità di un negoziato? Non possiamo saperlo finché non ci proviamo. Intanto la realtà europea ne esce a pezzi e l’Ucraina viene devastata con il perdurare degli attacchi russi

La missione suicida del capitalismo e la scelta dell’Europa sulla guerra La celebre immagine, scatta dal fotografo Emilio Morenatti il 5 marzo 2022, ritrae la folla di civili ucraini accalcata sotto il ponte distrutto di Irpin, in attesa di essere evacuata, mentre cercava di fuggire attraversando il fiume alla periferia di Kiev - Emilio Morenatti

Anticipiamo, per gentile concessione della casa editrice Ponte alle Grazie, parti significative del capitolo 29 del libro di Noam Chomsky, (a cura di C.J. Polychroniou), “Poteri legittimi. Clima, guerre, nucleare: affrontare le sfide del nostro tempo” (pp.400 – euro 19,00, edizione italiana a cura di Valentina Nicolì), in uscita in libreria questi giorni.

Valentina Nicolì: Professor Chomsky, vorrei partire dalla situazione in Ucraina. A Qualche settimana fa il presidente Joe Biden ha dichiarato di essere disponibile a sedere al tavolo con Vladimir Putin «per capire che cosa abbia in mente». Ma ad oggi non si intravedono seri segnali di un negoziato di pace, e la Russia ha intensificato l’uso di missili e droni. Volodymyr Zelensk’yj si è recato in visita a Washington e ha tenuto un discorso alla Casa Bianca in cui ha dichiarato che l’Ucraina «non si arrenderà mai». Negli stessi giorni Biden ha annunciato un pacchetto di aiuti che comprendono anche i missili terra-aria statunitensi Patriot, da diverso tempo richiesti dall’U- craina.

Sul fronte opposto, il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, in merito ai Patriot, ha precisato che saranno «obiettivi legittimi» dei militari russi. (…) Nel frattempo, emergono nuovi crimini di guerra compiuti dalle forze russe e l’Unione europea ha annunciato che istituirà «un tribunale speciale, con l’appoggio delle Nazioni Unite, per indagare e perseguire eventuali crimini di guerra commessi dalla Rus- sia in Ucraina».L’impressione generale, dunque, è che le rispettive posizioni si stiano irrigidendo. Lei stesso, un paio di mesi fa, ha affermato: «Non ci vuole poi molto a salire la scala dell’escalation che porta da una guerra circoscritta a una nucleare e definitiva». Ci troviamo in una fase nuova e più grave dell’escalation?

Noam Chomsky: È vero, Joe Biden ha offerto un negoziato alla Russia, ma bisogna specificare in quali termini lo ha fatto. Biden ha detto che negozierà a una sola condizione: che la Russia acconsenta a una resa totale, su tutto. In altre parole, qualcosa del tipo: «Sto offrendo a Putin una ‘via d’uscita’, ma solo dopo che si sarà arreso completamente, se ne sarà andato e avrà rinunciato a tutto. Dopodiché potrà vedere se il popolo russo sarà soddisfatto e non lo defenestrerà. Questa è la mia generosa offerta». In questo consistono in pratica i negoziati.

Riguardo all’escalation, non dimentichiamo che all’inizio dell’aggressione di Putin, gli analisti militari statunitensi e della Nato erano convinti che la Russia avrebbe conquistato l’Ucraina in pochi giorni. Addirittura, si ragionava su un governo provvisorio e su come portare Zelensk’yj fuori dal paese e metterlo al sicuro. Tutti, compresa a quanto pare anche la Russia, hanno sopravvalutato di molto la potenza militare russa e sottovalutato la strenua volontà degli ucraini di difendersi. Ma quello che si aspettavano non è avvenuto. Sono rimasti anche molto sorpresi, e lo hanno ammesso, che la Russia non combattesse la guerra seguendo lo stile statunitense, britannico e israeliano (non hanno citato Israele, lo aggiungo io). La strategia anglo-americana, adottata anche da Israele, è quella che viene definita «Shock and Awe» (‘colpisci e terrorizza’, o del ‘dominio rapido’). (…)Di distruggere tutto insomma. Certo, con il passare del tempo, com’era prevedibile, la Russia ha cominciato a imitare lo stile angloamericano e israeliano e nelle ultime settimane ha cominciato ad attaccare le infrastrutture. Ed è devastante. Infatti gli ucraini, non Zelensk’yj ma gli analisti economici

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TERRITORI OCCUPATI PALESTINESI. Operazione con missili e cecchini per catturare due membri della Fossa dei Leoni. Hamas minaccia una risposta. I partiti palestinesi indicono lo sciopero generale

 Militari israeliani, ieri, nella città vecchia di Nablus - Issam Rimawi/Getty Images

Nablus come il campo profughi di Jenin. Sono dieci, ma il bilancio è destinato a salire, i palestinesi uccisi ieri durante un’incursione di unità speciali dell’esercito e della guardia di frontiera di Israele a Nablus, la seconda città per importanza della Cisgiordania occupata.

TRA I MORTI anche un ragazzo di 16 anni e due uomini di 71 e 61 anni. I feriti sono oltre cento, 47 dei quali colpiti da proiettili veri. Alcuni sono in condizioni critiche. La strage è avvenuta dopo l’intesa mediata appena qualche giorno fa dagli Stati uniti e con cui l’amministrazione Biden avrebbe imposto a israeliani e palestinesi di evitare mosse unilaterali. A quanto pare gli obblighi sono solo per i palestinesi che nei giorni scorsi hanno anche ritirato al Consiglio di Sicurezza Onu la bozza di risoluzione di condanna delle colonie israeliane. Decisione incomprensibile per gran parte dei palestinesi.

La tensione ieri sera era molto alta e, da Gaza, Abu Obeida, il portavoce delle Brigate Ezzedin Al Qassam, il braccio armato del movimento islamico Hamas, ha avvertito che «la pazienza della resistenza sta per esaurirsi», lasciando intendere che la sua organizzazione potrebbe reagire con azioni militari e lanci di razzi contro Israele. Simili gli ammonimenti del Jihad islami e altre formazioni palestinesi.

La Fossa dei Leoni, gruppo di combattenti palestinesi che non fa riferimento ad alcuna forza politica, ha chiesto in un comunicato «a tutti coloro che non vogliono stare a guardare ed essere uno strumento al servizio dell’occupazione (israeliana) di difendere Nablus».

Gli uccisi sono Mohammad Al Junaidi, 25 anni; Adnan Baara, 71 anni; Tamer Minawi, 33 anni; Musab Awais, 27 anni; Hussam Aslim, 24 anni; Mohammed Abdel Ghani, 23 anni; Walid Dakhil, 23 anni; Abdel Hadi Ashqar, 61 anni; Jasser Qanir, 23 anni; e un ragazzo, Mohammad Shaaban, 16 anni.

OBIETTIVO INIZIALE delle unità speciali israeliane era arrestare (o eliminare) Hussam Aslim e Mohammad Al Junaidi, ricercati dall’intelligence perché presunti responsabili, sostiene il portavoce militare, dell’uccisione di un soldato, Ido Baruch. Hanno circondato la casa dove i due si nascondevano con un altro giovane intimando la resa. Dall’interno hanno risposto che non si sarebbero mai consegnati alle forze di occupazione.

Allo scontro a fuoco è seguito il lancio di un missile anticarro israeliano contro l’edificio. La morte dei tre all’interno è stata istantanea. I loro corpi senza vita sono stati estratti qualche ora dopo dalle macerie da cui si è alzata per ore una colonna di fumo.

Nello stesso momento nel resto della città vecchia, in via Hittin e in tutta Nablus divampava la rabbia degli abitanti chiamati con gli altoparlanti delle moschee a difendere la città. Gli scontri più duri sono avvenuti nel quartiere Al Sheikh avvolto nel fumo dei copertoni dati alle fiamme e dei lacrimogeni. È stata una strage.

Guidati da droni ed elicotteri, i tiratori scelti dell’esercito hanno ucciso sette persone. Tutti «terroristi» secondo le autorità israeliane, incluso il 71enne Baara colpito da un proiettile mentre era a breve distanza dalla panetteria dove si stava recando. Un video circolato sui social mostra il suo corpo senza vita a terra, in mezzo alla strada. Negli ospedali di Nablus – Rafidia, Al Arabi, Al Najah e Al Ittihad – è stata emergenza tutto il giorno per l’arrivo nel giro di due ore di oltre cento feriti da proiettili e intossicati dai gas lacrimogeni.

I SERVIZI di soccorso hanno denunciato che i soldati hanno impedito per molti minuti alle ambulanze di raggiungere i feriti. Le forze israeliane hanno lasciato Nablus solo dopo alcune ore sotto una pioggia di sassi scagliati da centinaia di giovani palestinesi. Nessuno può prevedere cosa accadrà nei prossimi giorni. In un’atmosfera da seconda Intifada, tutte le forze politiche palestinesi, incluso il movimento Fatah del presidente dell’Anp Abu Mazen, hanno proclamato uno sciopero generale in segno di lutto e appelli a resistere all’occupazione.

È enorme il danno per l’Anp provocato da quest’ultima strage in una città palestinese che, almeno ufficialmente, è sotto la sua amministrazione. Il premier Mohammed Shttayeh ha denunciato con forza l’attacco militare israeliano.

Ma proprio ieri i media hanno riferito che l’Anp avrebbe accettato in linea di principio il piano del generale americano Mike Fenzel, coordinatore degli affari di sicurezza presso l’ambasciata Usa a Tel Aviv, per ripristinare il controllo dei servizi di sicurezza palestinesi su Jenin e Nablus. Prevede in particolare l’addestramento di 5mila agenti speciali in Giordania, sotto supervisione Usa, per eliminare dalle due città e dai loro campi profughi le cellule armate.

Inizialmente, Abu Mazen lo aveva rifiutato perché prevede impegni e doveri richiesti solo all’Anp, senza alcun obbligo per Israele. Poi, ancora una volta, hanno vinto le pressioni Usa.

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IL FRONTE LARGO. Area strategica a ridosso del principale porto ucraino, Odessa, obiettivo di Mosca

  Una donna cammina a Tiraspol, capitale della Transnistria - Ap

Retrovia sin dai primi giorni, la Moldavia torna al centro degli eventi della guerra russo-ucraina. Nel suo viaggio europeo, Joe Biden ha ribadito come gli Usa e l’«Occidente» tutto sosterranno l’integrità territoriale della Moldavia, la piccola nazione cerniera fra gli estremi Balcani e l’Ucraina. Dal 1992, la striscia di territori che per 405 km marca il confine fra i due paesi, la regione della Transnistria, si è sottratta al controllo di Chisinau ed è vissuta come repubblica separatista grazie al supporto della Russia, che vi ha mantenuto le vecchie basi della 14ma Armata sovietica quali «forze di peacekeeping», oggi forti di 1000 uomini.

Tuttavia, Mosca aveva finora riconosciuto la sovranità della Moldavia su questi territori. Ora nel suo pericoloso annuncio di ieri Putin ha capovolto la posizione revocando il Decreto (che è del 7 maggio 2012 n. 605) che impegnava la Russia a «trovare una soluzione al conflitto transnistriano che rispetti l’integrità territoriale e la neutralità della Repubblica di Moldavia istituendo uno status speciale per la Transnistria».

In seguito alla rischiosa dichiarazione, le forze armate di Kiev hanno accresciuto la loro presenza ai confini meridionali della Transnistria. L’ area si trova a ridosso del principale porto ucraino, Odessa, che resta fra gli obbiettivi di Mosca in caso le sue forze riuscissero a capovolgere l’esito della guerra in Donbass.

Per entrambe le parti in conflitto, la posizione della Moldavia riveste dunque un’alta importanza strategica. Al pari di quella ucraina di prima del 24 febbraio, la società moldava è profondamente divisa fra i sostenitori dell’integrazione europea e quelli della reintegrazione nel paese in un’unione a guida russa. Tali orientamenti si sono alternati al vertice istituzionale del paese, ora presieduto dall’ex-funzionaria del Fmi Maia Sandu la quale, sin dalle prime settimane dell’attacco russo in Ucraina, è riuscita ad agganciare la corsia preferenziale per l’accesso all’Ue, ottenendo lo status di candidato ufficiale nel giugno 2022.

Il problema per Sandu è quello di mantenere il controllo su un paese già dilapidato dalle politiche neoliberali e poi investito dagli effetti della guerra vicina, in primo luogo dall’afflusso dei profughi, più di 700.000. Di fronte alle proteste, Sandu e l’Ue denunciano sabotaggi russi (leader delle agitazioni è il Partito Shor, emanazione di Ilan Shor, oligarca moldavo attualmente in esilio in Israele), ma la protesta ha forti caratteristiche interne, prodotto dall’aumento del costo della vita, in particolare di quelli dell’energia, per cui la Moldavia, paese più povero del continente europeo, è completamente dipendente dalle forniture russe. Due settimane fa i governi di Kiev e Chisinau avevano accusato un sorvolo del territorio moldavo e rumeno da parte di un missile russo, ma gli Usa e Bucarest hanno smentito.

Nella sua successiva visita a Bruxelles, Vladimir Zelensky ha denunciato un piano russo per destabilizzare la Moldova. Nello stesso giorno Sandu ha annunciato le dimissioni del proprio primo ministro, Natalia Gavrilita, sostituita con un personaggio considerato espressioni di posizioni ancora più filo-occidentali, Dorin Recean, già consigliere presidenziale per la sicurezza. Impotente di fronte ai problemi reali del paese, sotto pressione da parte occidentale, il nuovo premier ha posto l’accento sul problema della Transnistria e sulla «necessità che le forze russe abbandonino la regione».

Per forzare la situazione con i separatisti Chisinau non ha bisogno di ricorrere alla forza. Prima della guerra, oltre che sul contrabbando, l’entità separatista ha prosperato esportando le proprie produzioni sovvenzionate dal gas russo in direzione dell’Ue. Recean punta dunque a costringere le imprese locali a scegliere tra la Russia, con la quale i legami economici diminuiscono, ed il futuro occidentale rappresentato dal proprio governo.

La ripresa del controllo della regione, oltre che fatto strategico come fianco finora scoperto dell’Ucraina, sarebbe in questo momento molto importante per la Nato. Le forze russe presidiano infatti enormi depositi di armi e munizioni «made in Urss» che, nonostante l’età, potrebbero ancora essere riciclati per rifornire le forze ucraine, che, come più volte sottolineato dai portavoce atlantici, stanno esaurendo le scorte loro fornite. Va da sé che un tale scenario costituirebbe un’ulteriore e pericolosa escalation, un allargamento del fronte di guerra che rafforzerebbe le forze più estremiste del campo russo accellerando il conto alla rovescia verso un confronto militare sempre più diretto- con sullo sfondo la minaccia nucleare

 

 

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IL LIMITE IGNOTO. Il tour italiano delle pacifiste Darya Berg (russa), Olga Karach (bielorussa) e Kateryna Lanko (ucraina), da Roma a Milano

 Da sinistra a destra, Olga Karach, Kateryna Lanko e Darya Berg

«Rappresento l’organizzazione Go By the Forest, che in russo ha un doppio senso: sia letterale, di andare nella foresta come modo di sfuggire alla guerra, che di ’vai a farti fottere’, ciò che diciamo noi al nostro governo» – quello di Mosca. L’attivista russa Darya Berg, per la sua opposizione all’«operazione militare speciale» di Putin è dovuta fuggire dalla Russia già nel marzo 2022, e ora con l’organizzazione pacifista Go By The Forest aiuta i suoi connazionali a sottrarsi all’obbligo di andare a combattere in Ucraina. In questi giorni, grazie al Movimento nonviolento, è in Italia per le mobilitazioni di Europe For Peace previste nell’anniversario dell’inizio della guerra. Insieme a lei c’è Kateryna Lanko, del Movimento pacifista ucraino – arrivata in Italia da Kiev – e l’attivista, politica e giornalista bielorussa Olga Karach, direttrice del Centro internazionale per le iniziative civili Our House – partita invece dalla Lituania dove è stata costretta a trasferirsi: «Il regime di Lukashenko mi ha etichettata come terrorista e estremista. Se vi fate anche solo una foto con me, in Bielorussia rischiate fino a due anni di carcere».

TRE DONNE che condividono la missione di aiutare, proteggere e incentivare l’obiezione di coscienza e la diserzione nei propri paesi e che si appellano alla cittadinanza italiana ed

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