Nel suo ultimo libro l’autore dialoga con una figlia immaginaria, nel tentativo di riannodare i fili generazionali di un passato complesso, e sempre più remoto
Che fine ha fatto la Sinistra? In Italia se lo chiedono in molti, non soltanto dalla caduta del Muro di Berlino ma da quando, in questo secolo che ha ormai raggiunto il primo quarto, l’avanzare di un capitalismo nevrotico e sempre più spietato sembra aver preso il sopravvento incontrastato, e in maniera irreversibile. Le ultime elezioni politiche nazionali hanno poi riportato all’ordine del giorno i rigurgiti di una matrice ideologica, quella fascista, nel nostro Paese mai del tutto condannata e sconfitta, a cui si aggiunge uno scenario geopolitico internazionale a dir poco preoccupante, malgrado in Europa la recente tornata elettorale in Gran Bretagna e Francia sembra poter offrire qualche spiraglio di speranza.
Di tutto questo abbiamo parlato con il professor Marco Revelli, autore di numerosi libri che analizzano in uno stile del tutto personale la politica e la società italiana moderna e contemporanea, il cui ultimo Questa sinistra inspiegabile a mia figlia (Einaudi, pp. 163, euro 16,50) racconta del dialogo con una figlia immaginaria nel tentativo di spiegare una sinistra divenuta, in particolare negli ultimi venti-trent’anni, inspiegabile anche a sé stesso.
Professor Revelli, quando nasce l’idea di questo dialogo generazionale?
L’occasione esteriore mi è stata data dall’editore, quando Einaudi mi ha chiesto un classico libro della serie “xy spiegato a mio figlio”, in questo caso con la sinistra come soggetto, considerandomi evidentemente un uomo rappresentante della sinistra italiana.
Non si sente così?
Sì, certo. Però questo ha innescato una cascata di pensieri e riflessioni, a cominciare dal fatto che non mi sentivo di spiegare un concetto simile a chiunque, men che meno a un figlio o un adolescente di ultima generazione, perché nel momento in cui mi sono concentrato sul tema mi sono accorto che era inspiegabile anche a me stesso come fosse diventata quella identità entro cui ero nato e cresciuto…
E come ha risolto il problema?
In verità non mi ero mai posto il problema dell’essere di sinistra, dato il contesto famigliare, l’educazione, il tipo di memoria che ho ereditato, in una collocazione che in una prima fase aveva dei costi in termini di solitudine, nel senso che la mia infanzia e prima adolescenza, vissuta nella bianca Cuneo, bianca ma antifascista, mi portava a questa condizione. Poi le cose sono cambiate.
Cosa è accaduto?
Sono arrivati quei momenti che nel libro chiamo di “felicità pubblica”, dalla seconda metà degli anni Sessanta e nel decennio Settanta. Ma a un certo punto mi sono reso conto che il sentiero si era perduto, e quell’identità di sinistra era diventata impalpabile, introvabile, quasi all’improvviso apparteneva soltanto alla memoria e non al presente; e che tutte queste cose, a un giovane nato all’inizio di questo secolo, dicevano poco, non appartenevano più al suo orizzonte. Da qui la domanda che è alla base di questo libro: quando la sinistra ha cominciato a scomparire, quando ha iniziato a perdersi?
Ha trovato una risposta?
Credo tutto sia iniziato nel momento in cui gli esponenti della sinistra, italiana ed europea, hanno smesso di essere riconosciuti come tali per le loro scelte politiche e sociali.
Nel libro infatti si parla anche di Massimo D’Alema, di Tony Blair…
Sì, e del lucido cinismo dell’Avvocato Agnelli, quando affermò che “solo un governo di sinistra può fare una politica di destra”… Credo lo disse proprio al tempo del Governo D’Alema; d'altronde, lo smantellamento delle conquiste del mondo del lavoro ottenute negli anni Sessanta e i primi Settanta è opera più degli eredi del Partito comunista, e degli ultimi socialisti, che non della destra. Nel nostro Paese siamo arrivati al paradosso che uno come Silvio Berlusconi si è potuto permettere di proporsi come populista.
In alcune pagine viene evidenziata una sorta di ineluttabilità nel destino dell’uomo di sinistra, condannato a un diverso rapporto con il senso del tempo, a una “coscienza infelice” in virtù di un “disagio della realtà” che lo affligge.
Si tratta di un mio pensiero recente, maturato nello scrivere questo libro. Il fatto che essere di sinistra, non da oggi, implichi mettere in conto una certa quota di dolore e sofferenza, è un tema che ho voluto approfondire. Perché chi è antropologicamente di sinistra, al di là delle rispettive culture politiche, vive empaticamente lo scandalo delle ingiustizie di cui è pieno il mondo, il nostro presente. E l’uomo di sinistra è tendenzialmente infelice nel presente, ben lontano dal filosofico “grande meriggio” nietzschiano del qui e ora, perché il presente genera dolore anche se non è un dolore legato alla propria specifica persona, partecipando della sofferenza altrui. In altre parole è il disagio dell’essere in nome di un dover essere, per cambiare il presente, che in un tempo di edonismo narcisistico diventa un sentimento improponibile, quasi impensabile.
Nel libro la sua figlia immaginaria la rimprovera per questa infelicità sempre in sottofondo…
“Mi hai reso infelice trasmettendomi i tuoi valori”, dice a un tratto, un tratto esistenziale del presente, che però da un quarto di secolo a questa parte appartiene all’orizzonte di vita delle nuove generazioni, il cui imperativo è essere felici dell’esistente, perché questo viene richiesto loro.
Eppure qualcosa sembra muoversi, almeno in Europa, in attesa del voto statunitense. Penso al recente voto in Gran Bretagna, al Front Populaire in Francia. Non ci sono spiragli per la costruzione di un’altra sinistra?
Sinceramente dal risultato inglese non mi attendo nulla, anche perché è un successo determinato soprattutto dal crollo dei Tories, e non dall’avanzata dei Labour che, per intenderci, in termini di voti hanno preso meno di Jeremy Corbyn. Personalmente sulla Gran Bretagna ho messo una croce sopra, credo che il mondo anglosassone in buona misura sia una terra perduta per la sinistra. Per il Front Populaire in Francia il discorso è diverso, una miracolosa reazione che in un mese e una settimana ha ribaltato un destino che appariva ormai ineludibile. Ma questa reazione è il prodotto di uno spirito profondo, pre-politico, di un sentire partitico insoumise, non sottomesso, che appartiene non solo all’area-Mélenchon, e non si rassegna a consegnarsi al post-fascismo del Rassemblement National. Un sentimento che ha portato a votare milioni di elettori che si erano ritirati dalla politica, 10 milioni in più rispetto alle precedenti Europee, e che non è un merito di Macron, ma di una Francia antropologicamente irriducibile.
Non possiamo pensare a un risveglio simile, seppur diverso, anche in Italia?
Come dice la mia figlia immaginaria, dovrà pur esserci una reazione a queste “faccine di circostanza”, o al negazionista di turno, al di là del pessimismo cosmico trasmesso in questi anni… Io penso che arriverà un soprassalto fisiologico alle forme sfacciate di ingiustizia, allo scandalo delle diseguaglianze che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi. Essere di sinistra, malgrado tutto, continua a significare provare empatia per chi soffre, e questo sentire non può esser svanito per sempre