Apprendiamo con dispiacere del danneggiamento della statua dello scultore e ceramista Carlo Zauli. L'opera dal titolo “Cubo alato” posta sulla rotatoria davanti alla Stazione ferroviaria di Faenza è stata spezzata, pare solo incidentalmente, da alcuni giovani che frequentano il vicino bar.
Il danneggiamento della scultura richiede oltre ad una giusta e accurata indagine per appurarne le cause, anche una riflessione sui motivi e l'origine del mancato rispetto per l'arte e la cultura nel nostro paese. Scriveva Italo Calvino nelle Città invisibili: “Di una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà alla tua domanda”. E' esattamente così: non conta tanto l'apparenza, quanto le risposte reali che riesce a dare ai cittadini sul piano dei contenuti.
Proviamo allora a collocare questo ragionamento in ambito locale e facciamoci qualche doverosa domanda: sarebbe, ad esempio, interessante sapere quante persone a Faenza conoscono la qualità, il valore e il significato delle opere collocate sulle rotonde, nelle piazze o nei giardini pubblici del territorio. Credo che se questa indagine fosse rivolta in particolare proprio alle giovani generazioni, non darebbe risposte soddisfacenti. Perché? Per avere una risposta dobbiamo tornare a Calvino e alle sue settantasette meraviglie. Io sono fra quelli entusiasti del museo all'aperto, ovvero dell'idea di portare all'esterno sculture o altre opere, di farle uscire dal chiuso e renderle sempre fruibili a tutti. E' una grande idea, che può valorizzare una città e un territorio, ma perché funzioni deve essere costruita su un progetto educativo culturale preciso. E' mai stato fatto, ad esempio, un percorso formativo nelle scuole di Faenza per spiegare il valore e la conoscenza delle sculture? Se non c'è un riconoscimento di valore è evidente che verrà meno anche il rispetto. Poi quando vedo il degrado anche estetico delle rotonde su cui sono collocate le opere, o la mancanza di manutenzione dei giardini attorno alle statue, mi sembra che questo rispetto sia carente anche da parte delle istituzioni faentine. Quando si tollera che la rotatoria della Stazione, quella per intenderci su cui è collocata la scultura danneggiata, diventi alla notte territorio di movida giovanile, con lancio di bottiglie, ubriacature e schiamazzi denunciati inutilmente dai residenti senza che si intervenga, i risultati possono essere solo quelli che abbiamo visto.
Ancora una volta dobbiamo sottolineare l'importanza di fare cultura partendo dal basso, in modo capillare, in particolare proprio cominciando dai giovani e dalle scuole. Non serve avere settantasette meraviglie se non riesci a vederne nemmeno una.
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Pubblichiamo una mozione approvata dal Consiglio Comunale di Reggio Emilia, con i voti del Partito Democratico, Sinistra Italiana, Movimento 5 Stelle.
Ma su questioni così complesse, che dureranno a lungo, è necessario approfondire la riflessione....
Commenta (0 Commenti)Pubblichiamo l'intervento di Edward Necki all'Assemblea Regionale di Sinistra Italiana di sabato 15 ottobre
(con l'invito e l'auspicio che il dibattito sulle prospettive della sinistra continui anche sul nostro sito)
Care Compagne e cari Compagni volevo con questo breve intervento insieme a voi fare alcune riflessioni e lasciare alcune suggestioni per il dibattito assembleare.
La ricerca di una forza di sinistra nel panorama politico nazionale capace di catalizzare attorno a se tutte le anime, le sfaccettature e le peculiarità di quel che si muove a sinistra è sicuramente una impresa ardua da molti anni a questa parte.
Noi oggi riunendoci qui in assemblea regionale vogliamo assieme scandire che però il tempo è giunto.
Il tempo è giunto perché la crisalide lasci il suo bozzolo. Il tempo è giunto perché Sinistra Ecologia e Libertà lascia la sua forma attuale e si trasformi in Sinistra Italiana. Ma non con una mera operazione di maquillage estetico che sarebbe solamente fine a se stessa.
Il tempo è giunto affinchè la sinistra e non solo SEL sostanzialmente provi a trovare un elemento catalizzatore che porti alla costituzione di un partito di sinistra.
Dai territori giunge forte un grido: “c’è bisogno di sinistra”!!!!
C’è bisogno di una forza politica che occupi lo spazio politico lasciato dallo slittamento a destra di forze come il Partito Democratico che ormai di che cosa sia la sinistra hanno solamente un vago ricordo.
C’è bisogno di sinistra! Ce lo chiedono i territori!
Ce lo chiede Faenza da dove io provengo che con l’esperienza politica di aggregazione dell’ALTRA FAENZA ha riportato la sinistra radicale in consiglio comunale !
Ce lo chiede Ravenna dove l’esperienza di Ravenna in Comune ha portato ad un buon risultato elettorale e a una buona esperienza aggregativa.
Ce lo chiede Bologna con l’esperienza di Coalizione Civica.
Ce lo chiedono tutti quei territori dove nostre compagne e compagni quotidianamente si spendono in prima linea per portare i nostri valori.
Ma tutte queste esperienze cosa ci suggeriscono?
Ci suggeriscono a mio modo di vedere due cose:
La prima e che la sinistra c’è, esiste, pulsa ma deve riuscire a trovare al suo interno un collante, un aggregante, un catalizzatore che permetta il superamento di vecchi schemi e vecchi rancori e porti ad unità;
La seconda è che la sinistra si riconosce come tale e come tale si fa riconoscere se trasmette un messaggio coerente, se trasmette un messaggio chiaro, un messaggio che in due parole definirei di giustizia sociale.
Per troppi anni figli di un tatticismo politico che ci ha fatto credere che la forma sia più importante della sostanza noi abbiamo barattato le nostre idee con il concetto di governabilità.
Adesso dobbiamo dire basta!
Noi siamo noi! Gli ideali di sinistra, la giustizia sociale, il lavoro, il rispetto dell’ambiente, i diritti ad una equa retribuzione, ad una assistenza sanitaria pubblica, all’acqua bene comune, la salvaguardia della Costituzione figlia della Resistenza non si possono barattare.
Sinistra Italiana quindi nascerà sotto una buona stella se sarà capace di avere una propria proposta politica.
Chiara, semplice, decifrabile da chi ci sta ascolta.
Perché, dicamocelo pure, a Faenza, a Ravenna, a Bologna e dovunque ci spendiamo e ci siamo spesi ben diversi sarebbero stati i risultati se a Roma, a livello centrale, ci fosse stato un riferimento politico nazionale capace di rendere intellegibile l’esperienza politica locale dandole un respiro nazionale.
Ben diverso sarebbe stato se ci si fosse presentati tutti con la stessa maglietta e sotto la stessa bandiera.
Proprio per le riflessioni appena fatte auspico quindi che il percorso di Sinistra Italiana subisca una accelerazione, che non si aspetti l’esito referendario per capire se e cosa fare, che si arrivi ad un congresso dove siano i territori a poter portare le loro proposte politiche e dove si possa discutere, confrontarsi e dal confronto possa nascere un documento politico unitario.
Spero che nasca un partito finalmente, nel quale la dirigenza nazionale sia altro rispetto ai rappresentanti nelle istituzioni e nel quale il processo democratico nasca dal basso, dalle esigenze delle periferie.
Io a questo percorso ci credo, mi spenderò affinché possa riuscire e chiedo a voi compagne e compagni di crederci con me.
Edward Necki
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Nella storia non c’è stata mai una guerra giusta, ma alcune guerre sono state necessarie: si poteva fermare Hitler senza l’Armata Rossa e senza gli sbarchi degli Alleati?
Sulla guerra la nostra Costituzione parla chiaro, al di là delle interpretazioni sofistiche che le sono state date negli ultimi trent’anni: l’Italia ripudia la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti internazionali. Ripudiare ha una forza costrittiva e morale che solo chi è in malafede può mettere in discussione. La Costituzione, però, non fa dell’Italia un Paese senza esercito e senza forza militare; li assoggetta invece, implicitamente, alla legittima difesa della Nazione: di fronte ad un attacco armato di un altro Stato, l’Italia si difenderà con le armi, nel pieno rispetto del dettato costituzionale, senza ombra di dubbio. Ma che ne è della nozione di ‘legittima difesa’ nell’epoca delle guerre asimmetriche e della lotta al terrorismo internazionale? Molti l’hanno allargata fino alla totalizzante, e per questo ormai inutilizzabile, nozione di ‘guerra preventiva’. Di fronte alla minaccia terroristica, ogni azione, anche un intervento militare fuori dallo stato di guerra, è ammissibile e riconducibile al dettato costituzionale: è una posizione che calpesta l’articolo 11 della Costituzione, ma è ormai la posizione che tutte le maggioranze parlamentari succedutesi al governo del Paese negli ultimi anni hanno fatto propria, avallate dalla presidenza della Repubblica. Oggi che si torna a parlare di nuove missioni militari è giusto domandarsi: sono necessarie alla sicurezza del Paese?
Per rispondere è utile rammentare i passaggi decisivi della politica estera occidentale dal 1991 e presentare un sintetico quadro della situazione sul campo oggi.
Nel 1989, la caduta del muro di Berlino, salutata come la fine della storia, doveva aprire un’era di convivenza pacifica sotto l’egemonia economica e culturale occidentale. La guerra è stata utilizzata subito, non appena questa egemonia è stata messa in discussione. L’attacco all’Iraq nel 1991 è stato, prima di tutto e soprattutto, una dimostrazione di forza dell’Occidente; nell’intenzioni degli USA e dei suoi alleati doveva servire come prima, ma anche ultima e definitiva esemplificazione della loro supremazia, come lezione da imparare a memoria da parte di tutti coloro che volevano opporsi ai loro piani di dominio e controllo. Era ancora una ‘guerra simmetrica’, una guerra tra eserciti nazionali (per quanto di impari forza), una guerra che la diplomazia internazionale sperava di chiudere con le sanzioni e gli USA con il controllo dell’economia irachena. Era una guerra che Norberto Bobbio definì “un caso esemplare di guerra giusta”. Si sbagliavano tutti.
Ma Stati Uniti e Inghilterra hanno fatto un altro errore, ancora più macroscopico: dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, hanno manipolato l’opinione pubblica internazionale per
Leggi tutto: Il nuovo disordine mondiale - di Martino Albonetti
Commenta (0 Commenti)Prescindo da molte delle critiche alla proposta di riforma costituzionale, già sollevate da costituzionalisti, commentatori e politici, che in larga parte condivido. Le ragioni specifiche che mi determinano a votare No sono fondamentalmente tre.
Primo. Gli articoli della costituzione possono ovviamente essere modificati. Non però all'ingrosso ma al minuto. Tema per tema, uno alla volta, con emendamenti soppressivi o correttivi. Per coinvolgere i cittadini consentendo loro di capire davvero la necessità e le ragioni del cambiamento di una norma. Ora invece si pretenderebbe di cambiare, in un colpo solo, oltre un terzo degli articoli della Carta.
Per quanto mi riguarda continuo a credere nella lezione di Dossetti (ricordata recentemente anche da Raniero La Valle) il quale non si stancava di spiegare che deve essere sempre cercata una corrispondenza tra la costituzione e lo spirito del Paese. Nel senso che le Costituzioni non precedono la società, ma ne sono l'espressione proiettata in avanti. La Costituzione del '48 infatti fu la conseguenza della grande rigenerazione spirituale, sociale e culturale prodotta dall'immenso dolore della guerra, e da sentimenti di eguaglianza, libertà, dignità, solidarietà che erano radicati nelle masse prima di giungere alla formulazione costituzionale. Tuttavia, non si deve ritenere che solo i valori fossero legati allo spirito pubblico di quel tempo e non anche le scelte dei costituenti sulle forme e le regole del sistema politico. Ad esempio, è evidente che il ritrovato pluralismo politico, affratellato nel sangue della Resistenza e nel percorso verso la costituente, faceva ritenere scontate, da non dovere essere nemmeno menzionate nel testo costituzionale, le modalità e le forme per la formazione della rappresentanza.
Né meno forte è stato il sentimento diffuso e la rivalsa tra il passaggio alla Repubblica e la forma politica che l'Italia aveva avuto fino ad allora Sentimento che trovava nel Parlamento la sua massima espressione simbolica e reale. Caduto il re il Parlamento era il sovrano. Ovvero la sovranità visibile del popolo. Per questo, proprio perché c'era stato un Senato del Regno doveva esserci un Senato della Repubblica. E poiché il Senato in precedenza era di nominati a vita doveva ora essere formato da eletti dal popolo, per realizzare non solo un parlamentarismo differenziato nel rapporto con il governo, ma anche nel rapporto con il territorio.
Oltre tutto c'erano pure delle ragioni più profonde che hanno spinto la Costituente a puntare su un parlamentarismo leale, forte e rappresentativo di tutta la società. La prima era il grande prestigio di cui era circondata la rappresentanza repubblicana che veniva dall'impegno politico antifascista, dal confino, dalle carceri, dalla clandestinità. Era una classe politica che, nella sua maggioranza conduceva vita austera, era mal pagata e non era sospettabile di intenzioni di carrierismo. La seconda era il rispetto e la stima che non solo circondava la rappresentanza politica, ma anche il legame di importanti masse popolari con i loro partiti e nello stesso tempo di reciproco rispetto, con marginali eccezioni, dei rappresentanti politici tra loro, pur essendo e restando avversari politici.
Basterà ricordare le parole di altissima considerazione che il partigiano Dossetti ebbe a pronunciare riferendo la testimonianza di un partigiano comunista del reggiano. Oppure il rapporto di amicizia, durato tutta la vita, di Zaccagnini con il comandante partigiano comunista Bulov. Infine c'era il senso comune che l'uscita dell'Italia dalla pesante situazione del dopoguerra era possibile con uno sforzo che richiedeva la rinuncia di ciascuno alla pretesa di attuare esclusivamente i propri interessi, le proprie idee personali, o di parte. Purtroppo da tempo questa armonia si è rotta.
Uno sviluppo economico sregolato e tumultuoso, un importante mutamento dei costumi, ripetuti sovvertimenti dell'ordine economico e politico internazionale ed infine lo tsunami mediatico hanno inaridito e reciso i legami sociali, senza che le grandi strutture religiose, sociali, culturali ed informative fornissero la linfa per rigenerarli.
Sicché né le culture politiche, né la dialettica politica quotidiana, né i comportamenti dei cittadini si sono dimostrati all'altezza delle nuove sfide. Non si sono saputo produrre analisi e proposte adeguate. Con la ammirevole eccezione di Papa Francesco, praticamente nessuno ha saputo contrastare il potere incontrastato del denaro, delle scandalose ineguaglianze, sia a livello mondiale che nazionale, dell'economia che uccide.
Quindi oggi la società è più barbara da quella in cui è stata concepita e realizzata la Costituzione del '48. Secondo le statistiche europee in Italia ci sono 7 milioni di poveri. Ma sono solo dei numeri, non delle facce, delle dolorose storie personali e famigliari. La svalutazione del lavoro viene giustificata come strada obbligata per assicurare la competizione produttiva. Infine il primato della finanza e della speculazione rispetto all'economia reale continua e cresce sostanzialmente indisturbato. Al punto che sessantadue persone nel mondo vantano una ricchezza pari a quella di tre miliardi e mezzo di persone.
Malgrado "res pubblica semper reformanda est", in questo quadro ci sono motivi per ritenere che la riforma costituzionale non possa essere considerata una priorità assoluta. in ogni caso deve sempre essere affrontata con larga partecipazione, con estrema ponderazione e senso del limite. Il che non è quando ci si propone di riscrivere interamente la seconda parte della Costituzione. Cioè un pacchetto di 47 articoli. Dimenticando che le modifiche costituzionali non sono un semplice esercizio di scrittura. Oltre tutto in questo caso mal riuscito.
Teniamo presente che quando si scrive in un documento solenne come la Costituzione, nato dalla Resistenza e quindi dal sacrificio di tante vite umane, che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli, che limitando di fatto l'eguaglianza tra le persone che non consentono l'effettiva partecipazione dei lavoratori alla vita economica, sociale, culturale, civile alla vita del paese, si è detto moltissimo. Praticamente tutto. Perché si è caricata la Repubblica di un impegno perenne, continuo. Non fosse altro perché si è data ad essa un traguardo ed un orizzonte che non è mai definitivamente e pienamente raggiungibile. Il che naturalmente nulla toglie al fatto che questo fine debba essere continuamente ed instancabilmente perseguito. Con il contributo dello Stato e la contestuale partecipazione dei gruppi sociali intermedi. In pratica dell'intera società.
Questa concezione spiega perché diversi padri costituenti si siano sempre opposti alle ricorrenti pretese di progetti di stravolgimento della Costituzione. Infatti, come molti ricorderanno, ciò si è verificato sia in rapporto al disegno definito "organico" elaborato dalla commissione Bicamerale presieduta da D'Alema, affossato prima di arrivare al voto parlamentare. Ed una decina di anni dopo al tentativo pericoloso e confuso del centro-destra, definito a "blocchi" e riferito all'intera parte seconda della Costituzione, bocciato dal voto popolare. E' opportuno richiamare questi precedenti perché un cambiamento integrale della seconda parte della Costituzione è stato riproposto dal governo, presentandolo come indispensabile, cruciale. Ed è appunto sulla sua proposta che il 4 dicembre si svolgerà il referendum.
L'aspetto che colpisce e preoccupa è che il premier ha considerato il percorso che si concluderà con il voto referendario "una occasione storica che va assolutamente colta" ed alla quale si lega la "vita del governo e della legislatura", anche se successivamente ha in parte cambiato versione. Per altro, la domanda che ci si deve porre è: perché mai deve essere il governo ad assumersi il compito di formulare a far camminare una riforma costituzionale, al punto di ipotecare la vita del governo e la durata della legislatura?
Il fatto è che attorno al tema di una radicale revisione costituzionale si è da tempo concentrata una enfasi mediatica (con motivazioni diverse e, non di rado, opposte) al punto da farla considerare una questione ineludibile. Da qui la speranza (o l'illusione) per la maggioranza di governo di poterne lucrare popolarità e consenso. Di fronte a questo calcolo ritengo, per quanto li ho conosciuti, che cristiani di sinistra, "repubblicani" democratici ed autentici, come: Dossetti, La Pira, Lazzati, Don Mazzolari ed altri, non avrebbero esitato a rispondere con Luca (Lc 6, 26) "Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi!". Ma forse erano, non solo altri tempi, ma soprattutto altri uomini. Con una tensione democratica ed una moralità politica pubblica, oggi largamente sconosciuta.
Secondo. Una scelta condivisa avrebbe potuto essere quella di concentrare il dibattito e la proposta di riforma su un solo punto: il superamento del bicameralismo perfetto. Anche se, per la verità, contrariamente a diffuse interpretazioni, analizzando i dati della produzione parlamentare, non sembra essere questa la causa principale dei ritardi legislativi. La spiegazione dell'impotenza e paralisi che spesso si verifica va piuttosto ricercata nelle contrapposizioni politiche ed interne ai vari gruppi parlamentari. In ogni caso su tale questione si sarebbe potuto, presumibilmente, realizzare un largo consenso. Invece, inserita nel calderone della riscrittura dell'intera seconda parte della Costituzione ne è sortito un obbrobrio. Nel senso che, secondo la proposta sottoposta a referendum il bicameralismo perfetto verrebbe sostituito da un bicameralismo confuso e pasticciato. Del resto basta leggere l'articolo relativo alle competenze del nuovo Senato (composto da Sindaci e da Consiglieri regionali, con il risultato che presumibilmente finiranno per non assolvere bene né l'uno né l'altro compito) per farsi una idea che quel garbuglio diventerà sopratutto fonte di contenziosi e di conflitti, rendendo ancora più e lunga e complicata l'attività legislativa.
Terzo. Il collegamento tra la riscrittura di 47 articoli della Costituzione e la legge elettorale (Italicum) desta comprensibilmente motivi, non solo di grave preoccupazione, ma anche di rigetto. La ragione è semplice. La legge elettorale ha infatti un carattere oligarchico che finirebbe per indebolire ulteriormente il già fragile tessuto democratico e l'indispensabile divisione dei poteri. Il premier che per diverso tempo l'ha difesa a spada tratta, ora si dichiara disposto a discuterne ed eventualmente a modificarla. Al momento però non è chiaro se, come e quando ciò si verificherà. E, soprattutto, quali potranno essere i possibili esiti.
Sono quindi convinto che ci siano più che fondate ragioni per votare No al referendum del 4 dicembre.
Pierre Carniti
Roma, 2 ottobre 2016
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Continuiamo a pubblicare contributi sul caso Arena Borghesi, come su altri di grande interesse: la cultura, l’economia e lo sviluppo del territorio, il lavoro e gli effetti di una crisi che dura ormai da troppi anni, la sanità, i servizi sociali. Il sito ospiterà di buon grado le opinioni che gli perverranno.
Paghi uno prendi due?
di Fabio Mongardi
A proposito della Arena Borghesi e in seguito all'interpellanza comunale del consigliere de L'Altra Faenza Eddy Necki, apprendiamo dal sindaco che quello da noi sospettato corrisponde a realtà: c'è ancora in piedi il progetto di vendere un'ulteriore parte dell'Arena al supermercato Conad.
Senza tanti giri di parole ci dice il Dott. Malpezzi che non c'è scandalo in tutto ciò, è una semplice questione di risorse, cioè di denaro da trovare per il restauro. (guarda la diretta del Consiglio comunale dal minuto 01:17:20)
A parte che gli sprechi che hanno caratterizzato tutte le ultime amministrazioni a Faenza, esistono risorse a livello regionale o europeo proprio per la valorizzazione del patrimonio artistico ambientale del territorio. Ma naturalmente bisogna essere consapevoli di quello che si vuole conservare e della loro importanza. Quello che vediamo purtroppo è che la fantasia dei nostri amministratori non ha limiti. Fino ad oggi esisteva il coinvolgimento del privato che sponsorizzava il restauro o la ricostruzione di un'opera. Bene. Ben venga, diciamo noi, consapevoli che le risorse pubbliche scarseggiano.
Qui a Faenza però si sta facendo un curioso e imprevedibile salto di qualità, le cui conseguenze proiettate nel futuro potrebbero portare ad effetti, direi , quantomeno sconcertanti. Il privato che sponsorizza un restauro non ottiene come benefici sgravi fiscali, agevolazioni o possibilità di sfruttare la cosa come pubblicità, no, qui si va oltre, il privato se ne compra addirittura un pezzo, cioè si compra un pezzo di un bene pubblico.
Questa è la fantasiosa idea che circola all'interno delle stanze comunali. Come se Della Valle per restaurare il Colosseo avesse preteso di prendersene una parte, magari per farne un mega negozio di scarpe. Si potrebbe quindi ipotizzare, ad esempio, di vendere una parte di Pompei a Briatore, che sicuramente saprebbe sfruttare come location per le sue conturbanti feste. Oppure vendiamo un bronzo di Riace, tanto ne abbiamo un'altro. Insomma con questo principio e la follia di noi italiani, può succedere di tutto.
A Faenza con l'aria che tira e visto che c'è di mezzo un supermercato, si potrebbe addirittura arrivare al paghi uno e prendi due?
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