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Clima/energie. Lo sciopero mondiale per il clima di ieri ha acquisito un senso particolare in Europa in considerazione del barbaro attacco all’Ucraina

 

La manifestazione dei Fridays for future a Roma  © Cecilia Fabiano/ LaPresse

Lo sciopero mondiale per il clima di ieri ha acquisito un senso particolare in Europa in considerazione del barbaro attacco all’Ucraina. La riduzione della dipendenza dai combustibili fossili grazie alle rinnovabili ha infatti una doppia valenza.

Lo sciopero mondiale per il clima di ieri ha acquisito un senso particolare in Europa in considerazione del barbaro attacco all’Ucraina. La riduzione della dipendenza dai combustibili fossili grazie alle rinnovabili ha infatti una doppia valenza: le energie pulite non solo forniscono un contributo positivo nell’accelerare la transizione ecologica, ma incidono anche sulle importazioni di gas proveniente dalla Russia. In soli tre anni si potrebbe installare in Italia una quantità di rinnovabili tale da dimezzare le importazioni dalla Russia, dicono le imprese raccolte in Elettricità Futura.

Ma la disponibilità delle utilities ad investire rapidamente in questo settore è bloccata dalla lentezza delle autorizzazioni. E proprio le lungaggini burocratiche mettono a rischio il processo di decarbonizzazione e il raggiungimento degli obiettivi climatici al 2030 e al 2050. Ma non si tratta solo di questo. Sui giornali e alla Tv passano dichiarazioni del tipo «la crisi dell’Ucraina rallenterà la transizione energetica». Bisogna essere chiari su questo punto.

La decisione di aumentare le spese per gli armamenti sottrarrà risorse ad altre iniziative sociali e alla lotta climatica. Come anche la criticità nel reperimento di materiali utili alla transizione, pensiamo al nichel che vede nella Russia il terzo produttore mondiale, rappresenta certamente un elemento di freno. Ma l’impressione è che il treno delle rinnovabili a livello mondiale ha acquisito una forza tale, anche per la forte riduzione dei costi, da essere destinata ad imporsi. Certo in maniera diseguale nei vari paesi, ma dalla Cina agli Usa, dall’Australia all’Europa il crollo del prezzo di fotovoltaico, eolico e batterie inizia ormai ad imporsi.

È dunque chiaro che nella Ue, per sottrarsi alla dipendenza dal gas russo, si vedrà una fortissima accelerazione sui fronti della riduzione dei consumi e della crescita delle rinnovabili. Nei prossimi mesi ed anni, in particolare in Germania e in Italia, si potrebbe quindi innescare un deciso cambio di marcia. Non a caso Berlino, che già aveva stabilito l’obiettivo di avere l’80% di elettricità verde fra poco più di otto anni, ora punta al 100% di rinnovabili elettriche al 2035.

Da noi purtroppo non si vede lo stesso attivismo. O meglio, si assiste alla situazione paradossale di ambientalisti ed imprese che condividono la necessità e la possibilità di una rapidissima crescita. Si consideri che sono arrivati al gestore della rete elettrica, Terna, richieste di connessione elettriche per 150 GW rinnovabili. Cioè quasi il triplo di quanto servirebbe al 2030. Ma sul fronte autorizzativo ci sono forti blocchi: il Ministero dei Beni Culturali e le Soprintendenze rappresentano di fatto uno degli ostacoli principali alla riduzione dalla dipendenza dal gas russo in Italia.
Ci vuole dunque una vera e propria rivoluzione culturale. E una speranza viene dai giovani che sono tornati a manifestare in decine di città sollecitando un più deciso impegno per la lotta climatica, per la riduzione delle diseguaglianze e per un cambio radicale del paradigma economico dominante.

È interessante notare come allo sciopero per il clima si siano viste bandiere del sindacato. Sempre ieri, a Torino, Cgil e ambientalisti in un’affollata assemblea mettevano le basi di una piattaforma comune volta ad accelerare la transizione verso la mobilità elettrica. Un evento significativo considerate le possibili criticità di questo passaggio. Il governo finora è stato piuttosto assente, al contrario di quanto sta avvenendo in Francia, Germania e Spagna. Ha però partecipato all’incontro il ministro Giovannini che ha promesso una interazione attiva rispetto alla trasformazione industriale che dovrebbe portare al blocco della vendita delle auto a combustione interna dal 2035.
Del resto, i segnali climatici sempre più preoccupanti che arrivano, ultimo le temperature incredibilmente anomale in Groenlandia, ci indicano che occorre accelerare l’abbandono dei fossili.

I fronti sono molti, rinnovabili e mobilità elettrica tra questi. E bisognerà saper governare una transizione che sarà molto rapida. In assenza di segnali chiari dal governo, nuove alleanze potranno favorire il cambiamento.

*L’autore è direttore scientifico Kyoto Club

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Opinioni. Biden oggi in Europa. La narrativa che la Russia si è impantanata crea illusioni pericolose. E il fronte euro atlantico, reduce da epocali disastri, scopre che metà del mondo sta con Putin

Soldato ucraino a Kharkiv

Soldato ucraino a Kharkiv  © Ap

Avremo un Afghanistan nel cuore dell’Europa? Tre vertici a Bruxelles in un giorno (Consiglio europeo – Nato – G7) in cui Joe Biden oggi ci dice se intende – Putin permettendo – finire la guerra o affrontare la Russia in un conflitto di logoramento per procura che dura da un mese esatto.
La narrativa di una Russia che non può vincere o comunque restare impantanata è già pronta. Il presidente americano arriva accompagnato dal parere del Pentagono secondo cui Putin ha perso più del 10% della sua forza militare, si dice che l’offensiva è in stallo, la logistica delle truppe russe in crisi e gli ucraini sarebbero passati in alcune aeree alla controffensiva.

E come informa sul New York Times del 22 marzo l’ex generale americano che pianificò i raid di Desert Storm in Iraq, gli ucraini hanno ancora una forza aerea segreta che combatte contro i jet Sukhoi russi. Inutile girarci intorno: Biden è il capo del fronte euro-atlantico in una guerra dove gli ucraini sono la fanteria, come lo erano i curdi nella lotta al Califfato. Nonostante gli Usa non vogliano assolutamente una no-fly-zone per evitare una terza guerra mondiale, sono gli americani con gli inglesi che hanno riempito di armi l’Ucraina e gli Stati Uniti rappresentano il maggiore fornitore di aiuti militari e civili a Kiev, quasi 14 miliardi di dollari. Questi sono un recipiente finanziario e militare per continuare il conflitto. Al quale l’Italia di Draghi, nel giorno dell’accoglienza di Zelenski in Parlamento, si è accodata immediatamente.

Eppure toccherebbe a Biden trovare una via di uscita per Putin e fermare il massacro degli ucraini. Ma avrebbe dovuto cercarla prima, quando gli americani per due mesi si sono detti sicuri di un’invasione russa dell’Ucraina e non hanno fatto nulla di concreto. Andrei Grachev _ portavoce di Gorbaciov quando annunciò la dissoluzione dell’Urss _ in una recente intervista ha affermato che “bisogna accompagnare i due Paesi impegnati nel conflitto verso un’uscita d’emergenza, tornando alla formula discussa degli accordi di Minsk (2015), alla neutralità e fare dell’Ucraina uno stato federale, per garantire i diritti di una minoranza di lingua russa, che corrisponde a quasi un terzo della popolazione. Questo tipo di soluzioni potrebbero calmare il gioco, offrire a Putin la possibilità di giustificare l’alt all’offensiva.

È interessante che la stessa posizione, con sfumature diverse, sia espressa dal giornale americano “The Atlantic”. Che sottolinea la tentazione illusoria dei leader occidentali. I funzionari occidentali stanno rafforzando la loro retorica e il loro sostegno all’Ucraina per solidarietà morale e geopolitica, ma anche per il successo iniziale dell’Ucraina nel resistere all’attacco russo. Più a lungo l’Ucraina resisterà, più l’Occidente potrebbe convincersi di poter ottenere qualcosa di più grande dello status quo, e cioè che Putin e il suo regime non sopravvivano alla crisi che hanno generato.

È la debolezza stessa della Russia a creare una serie di pericoli. Si stanno facendo strada ipotesi sul collasso della Russia, convincendosi per esempio che l’esercito di Mosca non sia all’altezza, che le sue difficoltà in Ucraina rivelino un sistema pervaso dalla corruzione, che Putin sia una tigre di carta, o che il regime di Mosca cadrà presto. Ma dobbiamo ricordare che l’autoritarismo cinese è sopravvissuto alle proteste di piazza Tienanmen, la teocrazia iraniana è sopravvissuta per decenni alle sanzioni Usa e, più recentemente, Bashar Assad è sopravvissuto alla guerra civile siriana e ora è stato riaccolto nel consesso arabo con la visita di venerdì scorso negli Emirati.

Ma forse è questo che fa più paura al fronte euro-atlantico, reduce da disastri epocali in Afganistan, Iraq, Libia: scoprire che metà del mondo sta con Putin o simpatizza per lui. È il fronte “zero sanzioni” a Mosca. Dalla Cina, all’India, al Pakistan, alle monarchie del Golfo, senza contare le esitazioni di Turchia e Israele. Tutti stati che vogliono tenere aperti i canali con Mosca. Come dimostra lo storico vertice dell’altro giorno a Sharm ek Sheikh tra il premier israeliano Bennett, il principe degli Emirati Mohammed bin Zayed e il dittatore egiziano Al Sisi.

C’è il pericolo che la narrativa di impantanare la Russia in Ucraina alimenti pericolose illusioni. È possibile che il regime di Putin sia davvero indebolito. Ma questa debolezza della Russia può creare una serie di pericoli. In primo luogo, l’Occidente potrebbe diventare troppo sicuro di sé nel testare i limiti di Mosca. La prospettiva di una sconfitta in Ucraina, poi, aumenta la possibilità che Putin intensifichi il conflitto.

L’escalation può cominciare da subito. Putin potrebbe decidere che, semplicemente, non può perdere. Questo aumenterebbe la probabilità che usi armi di distruzione di massa per cambiare la realtà sul campo. La natura del suo regime fa sì che a essere in gioco non sia solo il suo potere ma perfino la sua vita. In questa situazione non si dovrebbe dare per scontato si fermerà prima di aver raso al suolo Kiev: ha già dimostrato di essere disposto a farlo, prima a Grozny, in Cecenia, e poi ad Aleppo, quando la potenza aerea russa ha sostenuto Assad.

Il pericolo, quindi, è che il sostegno occidentale all’Ucraina – alimentato dalla barbarie di Putin, dal successo ucraino e dall’ottimismo occidentale – si combini con la crescente debolezza del regime, creando le condizioni per un errore di calcolo nato dalla disperazione. E più la crisi dura e più grande è questo pericolo.

Poi ci siamo noi italiani: con un governo che aumenta verticalmente le spese per la difesa ma non accantona risorse sufficienti – abbiamo otto settimane di riserve, dice il credibile sottosegretario Gabrielli – per acquistare materie prime energetiche. Allora spegneremo la luce e insieme, forse, anche il lume della ragione.

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Crisi Ucraina. È questa la domanda sarcastica che si dice abbia fatto Stalin durante i colloqui di Yalta a chi gli suggeriva di tener conto anche delle opinioni del papa nel definire gli assetti geostrategici del dopoguerra. Un sarcasmo spiegabile in parte con il fatto che si usciva da sei anni di guerra mondiale in cui la parola era stata lasciata esclusivamente alle armi; in parte con il fatto della collocazione del papa di allora

Papa Francesco

 

Papa Francesco  © Lapresse

È questa la domanda sarcastica che si dice abbia fatto Stalin durante i colloqui di Yalta a chi gli suggeriva di tener conto anche delle opinioni del papa nel definire gli assetti geostrategici del dopoguerra. Un sarcasmo spiegabile in parte con il fatto che si usciva da sei anni di guerra mondiale in cui la parola era stata lasciata esclusivamente alle armi; in parte con il fatto della collocazione del papa di allora.

Il suo anticomunismo destava non dubbi, ma certezze.
Oggi, anche se la terza guerra mondiale (non più solo “a pezzi”) non è ancora cominciata, e le parti in causa sono già in campo: la Federazione russa, con la feroce aggressione e invasione dell’Ucraina; la Nato, per interposta nazione, con il riarmo del paese, che non è certo cominciato dopo l’aggressione russa, ma – per esplicita ammissione, o vanteria, di Biden – da almeno sette anni, con la consegna di ingenti armamenti e migliaia di istruttori non solo al governo ucraino, ma anche alle sue numerose milizie, più o meno ufficializzate, in campo da anni nella guerra contro le regioni autonome del Donbass.

Non solo il battaglione Azov, dichiaratamente nazista, ma molti altri corpi di analogo sentire, ma meno pubblicizzati (d’altronde i nazisti sono presenti anche dall’altra parte, e sono purtoppo ormai numerosi in tutto il mondo, Italia compresa, come ha notato Edith Bruch).
Quanto al papa, non è più quello di allora, poi accusato, se non di connivenza, certamente di un colpevole silenzio sulla persecuzione degli ebrei – per la cui salvezza molte istituzioni cattoliche si erano invece spese a fondo – e di un impegno, istituzionale ancorché segreto, nell’organizzare “vie di fuga” per numerosi gerarchi nazisti.

Quello di oggi, Francesco, è invece sicuramente un papa al di sopra delle parti, non solo perché non sospettabile di connivenza con uno degli avversari in campo, ma perché si è posto fin dall’inizio del suo apostolato “dalla parte di Gaia”, della Terra; per cercare di rendere tutti consapevoli che la guerra non è solo un massacro crudele, inutile e sempre più pericoloso, ma anche un acceleratore della corsa verso il precipizio ambientale e climatico, che i “Grandi della Terra” hanno fatto presto a dimenticare, ma da cui, a partire dall’enciclica Laudato sì, papa Francesco ha cercato di mettere l’umanità al riparo.

Nella ricerca di una soluzione pacifica al conflitto in corso papa Francesco è da tempo in campo anche se per vie necessariamente coperte. Ma ora, dopo la visita inconsueta all’ambasciata russa e la telefonata, altrettanto inconsueta, di ieri a Zelensky, un suo possibile ruolo di pacificatore è emerso con forza. Poi, dopo l’invito di Alex Zanotelli e di Luca Casarini a costituire un corpo di interposizione che si rechi sul “teatro di guerra” (che anch’io avevo prospettato su queste pagine il 15.3), dopo molte altre proposte di missioni di pace in Ucraina, è arrivato l’invito esplicito di Domenico Quirico al papa (La Stampa) a recarsi personalmente in Ucraina, con quanti sono disposti ad accompagnarlo.

Ecco le divisioni del papa! Una missione del genere potrebbe essere l’occasione non per un gesto solo simbolico, per quanto importante, ma per una vera iniziativa di mediazione. Che non può esserci se non c’è un mediatore: che potrebbe, sì, fare riferimento al corpo di interposizione che si offre di accompagnare il papa o, in alternativa, di avvalersi di un suo mandato. Ma, ovviamente, solo se ufficialmente tutelata da un riconoscimento ufficiale di Governi che si candidino allo stesso ruolo.

E che per essere mediatori non possono essere le parti in causa, ma solo chi si metta in una posizione di terzietà, pur essendo più o meno direttamente coinvolto. Quindi non Turchia, Israele o Cina, solo indirettamente coinvolte (ben vengano comunque!), bensì L’Unione Europea o almeno alcuni governi dei suoi Stati membri. In questo contesto, accelerare le procedure di associazione dell’Ucraina all’Unione rischia di esseree visto solo come un passo verso l’ingresso nella Nato. Candidarsi al ruolo di mediatore invece vuol dire prendere le distanze dalla Nato con una proposta che, come tutte le mediazioni, non può che comportare delle concessioni sostanziali da entrambe le parti: con il vantaggio, però, di offrire sia a Putin che a Zelensky una via di uscita da un’impasse destinata, se no, a protrarsi nel sangue, forse per anni.

Le uniche alternative a una vera mediazione sono esigere la “resa” dell’Ucraina, proposta di cui vengono accusati i “pacifisti”, senza che nessuno di loro l’abbia mai formulata (una cosa è inviare armi perché la guerra continui; un’altra promuovere una mediazione perché finisca al più presto); oppure la sconfitta irreversibile delle forze armate russe, il disarcionamento di Putin, o la dissoluzione stessa della Federazione russa: obiettivo destinato a protrarre la guerra fino allo sbocco in un conflitto aperto, e forse nucleare, tra le vere parti in causa.

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"È una guerra criminale", dice, ma è del tutto contraria all'invio di armi, che alimenta l'escalation del conflitto. A colloquio con Luciana Castellina, giornalista, scrittrice, più volte deputata, presidente onoraria dell'Arci

https://www.collettiva.it/copertine/internazionale/2022/03/23/video/la_pace_la_nato_e_l_occidente-1973871/

Schiettezza e candore, lo stile della sua sinistra". Gli auguri di Aldo  Tortorella a Luciana Castellina - nuovAtlantide.org

Militante politica, giornalista, scrittrice, più volte parlamentare, eurodeputata, presidente onoraria dell’Arci. Forse ad alcuni il nome di Luciana Castellina non dice niente ma per altri è tutto questo e molto altro: compagna, pacifista, pasionaria della sinistra, comunista. Ma soprattutto persona coerente, dotata di onestà intellettuale, una che argomenta e poi agisce di conseguenza e che per questo finisce spesso nel mirino, lei, le sue idee, le sue prese di posizione. Come quelle sulla guerra in Ucraina, che ci illustra dopo

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Come armare la pace. Il salto è grande perché richiede la costruzione di una diversa concezione e assetto dei rapporti internazionali. Quanto ciò sia difficile è dimostrato anche dai tentativi di mediazione in atto.

Manifestazione pacifista a Milano

Manifestazione pacifista a Milano © LaPresse

Cosa si può fare per fermare la guerra? Come si può armare la pace? Il terrore di precipitare in un conflitto totale appartiene a tanta gente, agita le menti di innumerevoli persone, senza confini, cittadinanze, appartenenze di sorta. Altri subiscono passivamente la massiccia campagna bellicista che, in realtà, è parte del conflitto. Troppi restano chiusi in una sorta di fatalismo impotente.

Così la storia continua a passare sulle teste di tutti. Deliri di potenza, rivendicazioni di supposti primati, contrapposizioni di pretesi valori (da sempre meri vessilli per mandare a combattere), trame di “grandi tessitori”. Sono questi i comportamenti delle cosiddette super-potenze che pretendono di disegnare la geografia economica e politica di macro regioni del mondo.

Come fermarli? Come spiegare che l’età degli imperi è tramontata per sempre?
Essa è finita proprio perché le insaziabili brame dei gruppi di potere dominanti, economici, finanziari, politici, tecno-militari hanno provocato squilibri che

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Intervista. «A Buon diritto» compie 20 anni. Parla il suo fondatore, Luigi Manconi: «La sinistra deve sempre avere il punto di vista delle vittime». «Ci sono due forme di pacifismo. Quello profetico di Capitini e Balducci, e quello politico. Quando è necessario, il pacifista - di cui mi fido - interviene come sa e può per rendere inoffensivo l’aggressore». «Come Alex Langer, credo nel sogno di un’Europa grande e accogliente che ponga come unica condizione per farne parte la condivisione delle idee e dei valori fondanti»

 

Un graffito di Banksy

I venti anni di «A buon diritto», l’associazione fondata da Luigi Manconi, cadono mentre si combatte un’altra guerra: il baratro di tutti i diritti civili, sociali e umani.

Manconi, voi che avete sempre denunciato la violazione dei diritti in Russia, vi aspettavate un epilogo come questo?

No, non l’invasione dell’Ucraina.

Perché? Pensavate che la “democrazia incompiuta” russa non prevedesse anche guerre espansionistiche?

Non credo si possa parlare di democrazia incompiuta, in Russia, ma di un regime dispotico retto da un autocrate dove il sistema politico non è ispirato a criteri democratici, perché non c’è divisione dei poteri, non c’è indipendenza della magistratura e soprattutto non c’è una rappresentanza politica libera e riconosciuta. Ma immaginavo – sbagliando, come quasi tutti – che l’equilibro dei rapporti di forza, le relazioni internazionali e la situazione di quella regione non portassero ad una precipitazione di tipo imperialista.

Luigi Manconi

Lei è stato tra i primi sostenitori dell’Europa, il cui sogno fondativo era quello di comprendere Paesi molto diversi proprio per evitare una nuova guerra nel cuore del continente. Col senno di poi, l’Europa avrebbe dovuto comprendere anche la Russia, o perlomeno allacciare più stretti rapporti con quella potenza, come sostiene su La Stampa Massimo Cacciari?

Ho avuto la fortuna di essere amico personale di Alex Langer che univa a una visione profetica una straordinaria concretezza. Era un militante politico molto pragmatico e allo stesso tempo un visionario. Questa idea di un’Europa grande e accogliente l’ho imparata da lui. E sono sempre stato anche molto interessato alle idee di Emma Bonino su questo punto, anche quando mi sembravano irrealizzabili: l’ingresso in Europa della Turchia, di Israele e dell’ex Impero sovietico. Perché credo che sia il modo giusto di porre questo problema: indicare le condizioni attraverso le quali si può entrare a far parte dell’Unione europea, cioè in virtù dei principi dello stato di diritto, delle regole della democrazia e quindi attraverso una condivisione delle idee e dei valori fondanti dell’Europa. È stata l’occasione persa ai tempi di Gorbaciov ma in quei Paesi le condizioni non si sono realizzate e oggi prevalgono tendenze che allontanano dall’Europa.

Lei è stato anche candidato presidente della Repubblica di Sinistra italiana, ma in alcuni suoi recenti articoli ha invece lamentato di non aver trovato al vostro fianco nelle battaglie per i diritti individuali e civili, una certa «sinistra autoritaria» che oggi si schiera contro l’invio delle armi agli ucraini. È crisi tra lei e la sinistra?

No. Intanto io mi riferivo a tutti tranne che al manifesto che mi è stato compagno in quasi tutte le battaglie fatte. E in questi giorni ascolto Nicola Fratoianni usare parole molto mature. Registro invece un sentimento molto diffuso – e non solo sui social – che si esprime nella concentrazione sulla dimensione tutta geopolitica di questa vicenda, nella massima attenzione per l’ideologia delle zone di influenza, per la logica di potenza, e una ossessiva ricostruzione delle cause e delle concause degli accadimenti attuali. E in questo atteggiamento si tralascia ciò che per me è centrale: il punto di vista delle vittime, le quali rischiano di scomparire. Non solo vengono soverchiate dalla geopolitica ma a loro si chiede di arrendersi. E sono richieste che vengono da più soggetti e da più culture della sinistra. Ecco: questi due processi portano a un rovesciamento di ciò che chiama l’ermeneutica della sinistra. Che a mio avviso dovrebbe essere sempre il punto di vista delle vittime.

Malgrado sia alla base dei diritti umani, civili, sociali, dell’autodeterminazione e della democrazia, quanto è dimenticata oggi la parola «libertà»?

Molto. Per questo dico che chi combatte per mantenere la propria libertà e per la democrazia, sia pure da costruire, è un partigiano. Quella è resistenza.

Il presidente ucraino Zelensky davanti al parlamento italiano molto probabilmente evocherà la nostra Resistenza. Sollevando critiche, come è accaduto in Israele quando ha parlato alla Knesset di «soluzione finale» messa in atto sul suo popolo. Siccome è vero che l’Olocausto non è solo lo sterminio di un popolo, non crede che sia sbagliato anche il paragone con la Resistenza?

No, è un errore questo. Mi limito alle inequivocabili parole di Carlo Smuraglia: «Chi resiste all’invasione è un resistente». Anche chi dice che in Ucraina non c’è la guerra civile e che gli alleati lì non sono formalmente in guerra, è in errore. La Resistenza in Europa ha avuto forme diverse: la resistenza dei greci contro le truppe italiane e tedesche e quella degli spagnoli contro il colpo di Stato di Franco. L’epopea letteraria della Spagna anti franchista si chiama non a caso «Romancero della resistenza».

Autodeterminazione, democrazia, libertà come si coniugano con quel tipo di pacifismo che prende le distanze sia da Putin che dall’Ucraina di Zelensky?

Ci sono due forme di pacifismo. Uno profetico di cui tutti abbiamo bisogno, come quello di Aldo Capitini o quello descritto nel 1991 da padre Ernesto Balducci che in un confronto pubblico con me sosteneva «Siamo solo alla vigilia del pacifismo», in costruzione come prospettiva di lungo periodo. Il pacifismo politico lo seguo e marcio con esso quando assiste le vittime delle guerre, aiuta i profughi, protegge le case, cura i feriti, si impegna nelle trattative, crea occasioni di comunicazione tra le due parti in conflitto. Ma poi quando l’aggressore punta il fucile su quel profugo, su quella donna o su quell’anziano, il pacifista sul quale ripongo la mia fiducia interviene come sa e come può per rendere inoffensivo l’aggressore.

Con le armi ai combattenti? Si può anche mandare la polizia…

Certo, allora mandiamo la polizia internazionale, che però deve essere armata. Attenzione però: rispetto chi dice che non se la sente di usare la violenza. Ma la pace a volte pretende l’uso della forza per fermare la guerra. Comunque ho sempre creduto che la resistenza con le armi debba sempre marciare insieme la resistenza nonviolenta.

Il teologo Vito Mancuso ha paragonato l’autodeterminazione di chi decide di morire rifiutando una vita non più dignitosa per sé con l’autodeterminazione di chi decide di morire piuttosto che rinunciare alla libertà. Cosa ne pensa?

Sono totalmente d’accordo. Il principio dell’autodeterminazione è costitutivo dell’intero sistema dei diritti, civili, sociali e politici. Diritti che nascono da un processo di auto consapevolezza e si esprimono come sovranità dell’individuo sul proprio corpo e della comunità sulle proprie scelte di autogoverno. È questa sovranità che fonda l’insieme dei diritti umani.

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