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Alla guerra di invasione russa, si poteva rispondere in modo diverso, senza intraprendere una guerra di difesa ucraina? Questo è il punto decisivo della discussione

La richiesta del ministro ucraino Kuleba - “dateci armi, armi, armi” -, mi ha ricordato le parole del maresciallo di Francia Trivulzio al Re Luigi XII: “Per vincere una guerra ci vogliono soldi, soldi, soldi”. Sì, perché la guerra non la vince chi ha ragione (in questo caso l’Ucraina), ma chi ha più capacità distruttiva (vedremo alla fine, quando fine ci sarà, se l’esercito russo o gli armamenti della Nato). 

Infatti il Segretario generale Stoltenberg ha detto: "Abbiamo dato sostegno per molti anni formando centinaia di migliaia di forze ucraine e ora gli alleati stanno dando equipaggiamenti per sostenervi nella difesa. È urgente un ulteriore sostegno e oggi affronteremo il bisogno di più sistemi di difesa aerea, armi anticarro, armi leggere e pesanti e altro". Ma al governo ucraino questo non basta ancora e gli ha dato dell’ipocrita: “Chi dice vi do armi difensive ma non offensive è un ipocrita. La differenza tra armi offensive e difensive non dovrebbe avere senso nel mio Paese, perché ogni arma usata in Ucraina dalle forze ucraine contro un aggressore straniero è difensiva per definizione”. 

In fondo ha ragione, anche

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Rino Gennari – Domenico Sportelli
Il 25 aprile del 1945, in Italia, ebbe una conclusione vittoriosa la guerra contro gli invasori e la dittatura sanguinaria fascista, con il concorso importante della nostra resistenza armata. Furono conquistate, assieme alla pace, la democrazia, la libertà e, per molti, le premesse per la giustizia sociale e l’uguaglianza.

Nell’Europa occidentale furono adottate Costituzioni che rispecchiavano i valori per i quali si era combattuto.
La ricostruzione, le lotte sociali per il lavoro, i diritti sociali e civili, la difesa della democrazia e delle libertà conquistate, costituirono i fattori determinanti per la conquista di un compromesso avanzato tra capitalismo e democrazia, da cui nacquero i famosi “trenta gloriosi”, cioè i tre decenni delle riforme che permisero un netto miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita delle classi subalterne, la conquista di avanzati diritti civili e un impetuoso sviluppo economico, che fu chiamato “il miracolo economico”. Ci fu il concorso di altri fattori. La volontà del capitalismo di sottrarre i lavoratori dall’influenza del mito dell’URSS, del socialismo realizzato. La disponibilità da parte del capitalismo delle immense risorse sottratte al terzo e quarto mondo, nonostante la decolonizzazione, la quale per molti versi fu spesso, più formale che sostanziale.

Successivamente, le crisi economico-finanziare, il crollo del “del socialismo realizzato”, di cui conoscemmo la fallacia e anche la ferocia, fecero saltare quell’equilibrio, e ripartì l’attacco alle conquiste sociali, agli assetti democratici, col favore di un processo di globalizzazione squilibrato a favore del potere della grande finanza, la quale ormai comanda sulla politica e sulle Istituzioni democratiche (la politica ancella dei poteri economico-finanziari: vedi Francesco). Le nostre democrazie, in quanto tali, sono ormai esauste. E’ un grande problema, che noi dovremo affrontare.

Queste note sintetiche e lacunose, per i pochi che non sanno, per i molti che sorvolano e per quelli che sanno ma non capiscono.
Russia-Ucraina.

Voglio dire subito una cosa. Per Bucha è necessaria una commissione d’inchiesta accettata dalla due parti.
Ora inizio.
Oggi, la nostra attenzione, è e deve essere rivolta alla drammatica realtà della guerra in corso, avviata dalla Russia contro l’Ucraina, violandone la sovranità con la forza delle armi, producendo distruzione e morte. Non dimentichiamo tuttavia, senza attenuare la responsabilità gravissima della Russia, che l’Occidente ha ostacolato la via del dialogo e illuso Zelensky sulla possibilità di aderire alla NATO.
Ora, soprattutto chi festeggia il 25 aprile, deve battersi affinché le armi tacciano e si stabilisca un equo patto di pace.
Dire pace però non basta. La pace deve basarsi sul riconoscimento delle giuste ragioni degli uni e degli altri, se e quando ci sono. La storia ci insegna che ci sono patti di pace i quali si rivelano col tempo produttori delle condizioni per nuove guerre. Nel caso di questa guerra, deve concludersi subito, sancendo la neutralità dell’Ucraina, garantendo la sua indipendenza e sicurezza, riconoscendo l’appartenenza della Crimea alla Russia. Sul Donbass non mi pronuncio, perché non dispongo degli elementi sufficienti per farlo. Su questo, voglio aggiungere poche parole di un discorso di Francesco: “Il vento gelido della guerra in corso è stato alimentato negli anni … … il conflitto è stato preparato da tempo con grandi investimenti e commerci di armi”. 

Non dobbiamo però fermarci li’, senza considerare il contesto planetario, del quale la guerra della Russia all’Ucraina fa parte indissolubile. Solo così facendo potremo vedere meglio cosa sta succedendo nel mondo. Le molte guerre in atto, al punto che Francesco ha detto che la terza guerra mondiale è in corso. Quali sono i responsabili diretti e indiretti. Ogni singolo episodio di violenza, di sopraffazione, di rapina di risorse, va visto come effetto dell’agire di un sistema economico-finanziario globale, che sfrutta spregiudicatamente donne, uomini e ambiente.
In questo quadro si svolge il conflitto tra le maggiori potenze mondiali: USA, Cina e Russia. Lo scopo è quello di estendere ognuna la propria area di influenza. Queste potenze usano molteplici mezzi per il raggiungimento dei propri fini. Estensione delle proprie alleanze militari: si veda l’allargamento della Nato fino a quasi tutto il confine occidentale della Russia, violando impegni assunti. Promozione di guerre, per il proprio interesse, fatte da altri. Interventi indiretti in Stati sovrani, ingaggiando bande di mercenari, per non apparire invasori, mentre lo sono di fatto.

Instaurazione di governi corrotti, al proprio comando. Interventi con propri istruttori e armi. Quando non basta, aggressioni dirette, cioè guerre. Per queste ultime, vediamo solo i recenti decenni. Afghanistan, prima l’URSS e poi gli Usa. Irak, partendo dalla provetta falsa di Colin e presunta presenza di armi di distruzione di massa. Jugoslavia. Libia. Le aggressioni a due popoli, Curdi e Palestinesi, ai quali è negato il diritto ad avere un proprio Stato, per cui tali aggressioni formalmente non sono violazione di sovranità statali, mentre lo sono di fatto. Poi le guerre in atto, nelle quali c’è lo zampino delle suddette potenze, soprattutto degli USA. Vediamo:
Siria; Yemen; Etiopia; Mali; Repubblica democratica del Congo: Sudan del Sud; Libia; Somalia. Inoltre, queste potenze acquistano, nei paesi deboli, infrastrutture strategiche e milioni di ettari di terreno fertile, specie in Africa da parte della Cina.
Da questi terreni saranno poi scacciati i coltivatori locali che li’ vivono, sia pure spesso ai limiti della sussistenza.
Tutto questo non solo è stato, ma è tuttora in corso. Ci siamo dentro, con l’acqua fino alla gola.
Partire quindi da una pace equa tra Russia e Ucraina, impegnandoci anche su tutto il resto. Un resto che produce non migliaia o decine di migliaia di vittime, che sono comunque troppe, ma decine di milioni, per guerre locali, fame, malnutrizione, malattie, tentativi di raggiungere altri luoghi in cui vivere. Di qui le migrazioni di dimensioni bibliche, che cresceranno. A proposito di malattie, va notato che l’Italia, in sede europea, ha votato contro la sospensione dei brevetti per i vaccini anticovid.

Tornando alla guerra della Russia contro l’Ucraina, per la soluzione rimando a quanto scritto sopra. Aggiungo solo poche cose.
L’invio di armi all’Ucraina, che possono essere rese inutili da un maggiore impegno della Russia, può provocare solo un prolungamento della guerra, con più vittime e distruzioni, mentre nello stesso tempo si intralciano i tentativi di dialogo in corso.
La giusta resistenza degli ucraini, non può essere paragonata a quella dei nostri partigiani. Su questo forse tornerò in altra occasione.
E’ vero che la prima vittima delle guerre è la verità, ma le bugie, che ci sono, lasciamole ai belligeranti. Vediamo invece che quasi tutti i mezzi di informazione italiani si sono messi l’elmetto e stanno letteralmente facendo schifo e pena.

Anche Enrico Letta si dovrebbe togliere l’elmetto. Corrono voci di una sua aspirazione all’incarico di Segretario Generale della NATO, da lui tuttavia smentite, come si è soliti fare. Ebbene, se Letta aspira a quella carica, legittimamente, non si faccia condizionare da tale aspirazione.

Rino Gennari
6 aprile 2021

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OPINIONI. Non credo alla soluzione militare, ma anche se ci potesse essere un vincitore e uno sconfitto quale sarebbe il prezzo da pagare? Lo pagherebbero i civili, il 90% delle vittime nelle guerre

Per la pace rinuncio ai condizionatori d’aria persino al riscaldamento se fosse necessario. Chiedo però al presidente del Consiglio Draghi di rinunciare all’invio delle armi per la pace.

Anche se «Armi, armi, armi» è la richiesta del ministro della difesa ucraino Kuleba alla Nato. Un grido di guerra che mi spaventa. Nei vari conflitti in cui mi sono trovata a intervistare la popolazione, la prima richiesta avanzata era sempre la fine della guerra, porre fine alle stragi, a qualunque costo. Possibile che in Ucraina invece tutti siano a favore della continuazione della guerra fino alla vittoria? Certo il nazionalismo esacerbato alimenta il bellicismo e l’odio, che purtroppo non finirà con la fine della guerra, come abbiamo visto nei Balcani, ma vivere sotto le bombe è devastante.

In Ucraina esiste, per quanto ininfluente, anche un movimento pacifista contrario alla violenza guidato da Yurii Sheliazhenko. Chi ne ha mai parlato? In Ucraina, sotto la legge marziale, un decreto del presidente ha unificato tutti i canali televisivi in un’unica piattaforma di «comunicazione strategica» attivo 24 ore al giorno. E sicuramente non c’è spazio per l’opposizione.

Non credo in una soluzione militare, ma anche se ci potesse essere un vincitore e uno sconfitto sul campo, quale sarebbe il prezzo da pagare? Un prezzo che pagherebbero i civili, che nelle guerre sono il 90 per cento delle vittime. Nei servizi delle tv italiane vedo le donne, quelle che non sono fuggite, riemergere da sottoterra e dire che da settimane vivono senza acqua, cibo, medicine ed elettricità.

Siccome non si vive senza acqua e cibo per così tanto tempo, chi permette loro di sopravvivere: gli aiuti del governo, dei volontari o della Croce Rossa internazionale, per la quale sono raccolti gli aiuti all’Ucraina in Italia? Non è una domanda retorica, il 31 marzo il ministro per lo sviluppo delle comunità e i territori dell’Ucraina, Viacheslav Nehoda, intervenendo al Consiglio d’Europa aveva detto: «Chiediamo agli europei di sospendere la collaborazione con la Croce Rossa per gli invii di aiuti in Ucraina, perché riteniamo non stia agendo come deve… dovete collaborare direttamente con noi e non con associazioni che hanno perso la nostra fiducia». La Croce Rossa ha avuto sicuramente il merito, dove interviene, di non sottostare al comando dei militari e forse è questo il problema. Ma nessuno ha chiesto spiegazioni in merito e continuiamo a versare i soldi alla Croce Rossa..

Nelle guerre, tutte, la propaganda è una componente inevitabile dello scontro. La utilizzano più o meno abilmente, anche mediaticamente, tutti gli attori in campo, tanto che è difficile verificare i fatti dietro il fumo della propaganda, ma è necessario, indispensabile per informare e formare l’opinione pubblica. In Ucraina sarà particolarmente difficile, anche perché in questa guerra non c’è dubbio che dobbiamo stare dalla parte degli ucraini, ma dobbiamo farlo non con la reticenza e l’omertà, affidandoci al giornalismo embedded.

Con gli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione non possiamo rinunciare ai principi del giornalismo che impongono la verifica delle notizie, l’approfondimento delle cause e delle conseguenze, anche se gli orrori documentati sono più ad effetto tanto che si scade nella pornografia del dolore per amplificare le emozioni del telespettatore e del lettore. La guerra spettacolo è la negazione dell’informazione.

Alcuni di noi hanno sottoscritto un appello per rendere evidenti questi rischi e per evitare la deriva di questo giornalismo di guerra, io direi la «militarizzazione» dell’informazione, anche se questo declino non è iniziato con l’aggressione russa all’Ucraina ma in Ucraina ha raggiunto livelli preoccupanti: non basta denunciare gli orrori per evitare che tornino ad accadere, bisogna scavare in profondità per sradicare (o almeno togliere la copertura) alle ragioni più profonde.

Anche per togliere l’alibi a quei politici che pensano di lavarsi la coscienza inviando armi perché il popolo ucraino continui a combattere e a morire, aumentando le spese militari approfittando della guerra, magari per poi scoprire che non si possono usare per via della minaccia nucleare, ma alimentando così nuove guerre che inevitabilmente scoppieranno altrimenti si porrebbe fine all’industria bellica così fiorente anche in tempi di crisi.

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UCRAINA. Ora si può sperare solo in una tregua armata, non nella pace. E il dopo strage, in attesa di foto di altri eccidi, peserà in una guerra che come spesso accade non ha una sola verità

La scena del crimine

Cadono le maschere. Quella indossata da Putin, padrino di un massacro e di crimini di guerra a ripetizione. Mosca sta conducendo una guerra totale, di annientamento. Non c’è un obiettivo politico o di governo del territorio ucraino come poteva sembrare all’inizio (e come dichiarava lo stesso Putin) ma l’intenzione di lasciare terra bruciata e di ottenere al massimo il controllo, se riesce, del collegamento via terra della Crimea al Donbass.

Ma è caduta anche la maschera della Nato dove gli Usa sul campo di battaglia europeo conducono le danze per assestare alla Russia una sconfitta epocale con una guerra per procura usando gli ucraini come la loro fanteria. L’idea di fare dell’Ucraina, giorno dopo giorno, l’Afghanistan di Putin sembra sempre più concreta. I civili, in questa ottica di scontro strategico per la supremazia, sono le vittime «collaterali» di questo gioco

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GUERRA E PACE. Se Putin oggi ha “riportato indietro l’orologio della storia” è però anche vero che la storia ha radici profonde, che non poteva essere l’economia dello scambio diseguale a cancellare

Caccia russi volano intorno alla torre del Cremlino, Mosca - Ap

Forse saranno gli orrori che ci vengono mostrati a incrinare le nostre certezze, noi che avevamo sempre creduto che la pace e il negoziato – da “negozio” – venissero sempre e comunque prima di ogni altra cosa. Come dopo Srebrenica, spontaneo viene il rigurgito: perché non abbiamo saputo, potuto evitarlo?

Le vittime innocenti gridano vendetta, oggi come sempre, come in ogni dove. Già i nostri bellicisti commentatori ammoniscono che le immagini di corpi senza vita abbandonati lungo le strade tra le rovine «dovrebbero togliere ogni alibi a chi in nome del pacifismo o di una neutralità ponziopilatesca suggerisce che non si faccia niente per fermare tutto questo» (Polito sul Corriere). «Il mostro non è solo la guerra. A Putin non deve restare altra alternativa che la pace.» Ma ha forse alibi il pacifismo? O, come ha affermato Di Francesco sul manifesto, è piuttosto contro-contro, altro che né-né.

Noi sappiamo quanto inermi siamo e non saranno quelle armi in più che d’impeto abbiamo deciso di concedere a un esercito a cambiare le cose sul campo. Perché le guerre sono maledettamente complicate, perché nonostante l’orrendo delitto di Mladic oggi a Srebrenica «non c’è più un solo minareto», come mi disse orgoglioso l’autista che mi ci guidò tra le sue case tranquille, quando tutto era finito. Le guerre le decidono i potenti sulla testa, e i corpi, della povera gente.

«Sulla sofferenze non si sbagliavano mai gli antichi maestri: quanto bene ne avevano compreso la posizione umana, come può avere luogo mentre qualcun altro sta mangiando, aprendo una finestra, o solo facendo due passi… Non dimenticavano mai che anche il più terribile martirio può avvenire in un angolo, dove il cane fa i suoi bisogni, mentre il cavallo dell’aguzzino escoria l’innocente dietro un albero». William H. Auden sapeva, ricordandoci la callosità dell’animo umano.

Perché chi, oggi, nel dirci che Putin è un mostro – «ve l’avevamo detto» – insiste che non vi è altra scelta che non armare i poveri ucraini e armarci noi tutti, ci vuole anche convincere che se deve essere guerra, che sia, anche se a farne le spese sarà la povera gente, a milioni. Era quello che non avevamo mai voluto e ci avevamo creduto, persino accettando le promesse del mondo “nuovo” che si era lasciato intravedere dopo la caduta del muro simbolo.
Si era aperto un orizzonte: la fine dei blocchi, l’apertura di nuovi Paesi e milioni di uomini e donne bramosi pronti finalmente a godere della felicità del libero mercato e del consumismo. Facciamo tacere i fucili, smantelliamo gli apparati militari, che il capitalismo saprà avere la meglio dove il comunismo ha fallito, questo ci avevano promesso. Poi, però, le cose sono andate diversamente.
Se Putin oggi ha “riportato indietro l’orologio della storia” è però anche vero che la storia ha radici profonde, che non poteva essere l’economia dello scambio diseguale a cancellare.  Si accusano i pacifisti e le molte frange della sinistra nel mondo occidentale di ragionare con la vecchia logica dei blocchi (e, ça va sans dire, dell’anti-americanismo). Ma non è forse quella logica che ci porta a dire, oggi, di nuovo, che bisogna stare da una parte – e ben armati – contro l’altra, disumana e totalitaria com’è?

Certo, questa guerra – «questa invasione di uno stato da parte di un altro stato, nel cuore dell’Europa» – segna un nuovo spartiacque, tanto quanto lo fu il radioso 9 novembre dell’89. Con due tratti distintivi: la fine della globalizzazione e la fine dell’Europa. La globalizzazione capitalistica liberista – borderless, limitless – che ha finto di “soprassedere” al ruolo della politica e della storia, dei popoli e delle loro culture. Perché si fanno affari con tutti, che importa chi c’è al governo, la rete dei commerci renderà inutili le differenze di regimi, politiche, finanche i confini, che segnano i limiti dei rapporti tra le genti. Un’Europa che non ha mai saputo guardare oltre a sé se non come a un insieme di entità economiche, prive di un orizzonte comune e condiviso.

Le sfere d’influenza torneranno ad essere segnate da una demarcazione che non è più “ideologica” ma dettata comunque dalla logica militare e politica di una potenza che – avendo perso la primazia economica – può comunque vantare quella bellica. L’Europa, che dopo l’89 aveva avuto l’occasione di esprimersi come il centro di un nuovo multi-lateralismo, includendo nella sua grande “unione doganale” tutti, Russia compresa, guardando al superamento dei blocchi e all’annullamento definitivo dell’opzione nucleare, ha mostrato la sua piccolezza. Dopo aver glorificato per anni i suoi padri fondatori oggi raccoglie i frutti di quella cecità e non può altro che tornare a ripararsi sotto l’ombrello americano.

Gli europei, nel loro insieme, destinano già 232 miliardi di dollari all’anno alle spese militari, contro i 62 della Federazione Russa (e i 778 degli Stati Uniti). Ora, si dice, ogni Paese europeo dovrà spendere di più. Perché dobbiamo essere più “protetti” da mostri come Putin. Già, ma come costringeremo il mostro alla pace, forse facendogli guerra? E che guerra potrà mai essere che non lasci sul terreno solo morte e distruzione e nessuna “vittoria”? Davanti a noi c’è il nostro fallimento di europei – dall’Atlantico agli Urali – di non aver saputo mai, in questi trent’anni, far uscire dalle nostre prospettive l’opzione militare. Perché fa parte della nostra storia, e peccato per gli innocenti che ne dovranno, come sempre, pagare il prezzo.

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EFFETTO UCRAINA. Ci vorrebbe una visione diversamente orientata dal punto di vista degli interessi di classe da difendere e di medio-lungo periodo per riuscire a risolvere il disastro economico all'orizzonte. Ma questa non si vede, seppure per ragioni e con caratteri diversi, né sull’uno né sull’altro versante dell’Atlantico

.Il conflitto ucraino cambia la vecchia globalizzazione

Il paradosso per cui l’unica certezza è l’assenza di certezza è tornato di moda. L’ha usato anche il ministro dell’economia Daniele Franco, per giustificare l’imminente presentazione di un Def che dimezzerà le previsioni di crescita dello scorso autunno, derubricandole a una cifra fra il 2 e il 3%, con un aumento record dell’inflazione al 6,7%, mai così in alto dal 1991. Ma l’espressione può essere riferita all’intero quadro mondiale, politico ed economico.

La storia punisce gli incauti. Obama definì la Russia una potenza regionale. Non era solo quella, come si vede di fronte alle conseguenze globali dell’invasione dell’Ucraina. Larry Fink, il fondatore di BlackRock, il più grande fondo di investimenti mondiale, ha scritto agli azionisti che “l’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine alla globalizzazione come l’abbiamo sperimentata negli ultimi trent’anni”. Molto dipende da come si concluderà e con che tempi la guerra ucraina. Intanto circolano varie formule dal “multipolarismo competitivo” alla “concorrenza tra blocchi”, tutte basate sullo sconvolgimento dei vecchi assetti, del resto già minati dai processi di de-globalizzazione antecedenti alla pandemia.

In questo quadro così friabile tuttavia qualche certezza si fa strada. Nessuno più osa affermare che l’incremento dell’inflazione sia congiunturale e passeggero. Nell’Eurozona l’inflazione è salita a marzo al 7,5% partendo dal già robusto 5,9% di febbraio. Le previsioni ottimistiche della Bce su un suo drastico ridimensionamento il prossimo anno – che peraltro contraddicono il preannunciato contenimento della politica monetaria espansiva – non vengono credute dai mercati finanziari che prevedono per il febbraio del 2024 non meno del 4% di inflazione. Visto i bassi tassi di crescita la prospettiva di un periodo non breve di stagflazione da probabile si è fatta certa. Negli Usa l’inflazione è quasi all’8%, ma almeno la situazione occupazionale è migliore e persino le retribuzioni sono aumentate del 5%. Si fa sempre più drammatico il dilemma per la Fed e la Bce: se intervenire rialzando i tassi per raffreddare la spinta inflazionistica con l’avvio più che probabile di un processo recessivo, oppure ampliare il rimbalzo economico, chiamato crescita, lasciando le briglie libere all’incremento dei prezzi. Nell’uno e nell’altro caso le conseguenze sociali sono pesanti. Ma non nello stesso modo. I falchi del ritorno all’austerity sono pronti ad aggredire le colombe. E sarebbe un nuovo disastro devastante, un’implosione per l’Europa.

Ci vorrebbe una visione diversamente orientata dal punto di vista degli interessi di classe da difendere e di medio-lungo periodo per riuscire a risolvere il problema. Ma questa non si vede, seppure per ragioni e con caratteri diversi, né sull’uno né sull’altro versante dell’Atlantico. Le conseguenze del conflitto bellico si fanno sentire anche sul lato asiatico del globo. In Cina l’indice manifatturiero delle piccole imprese private, più sensibile agli smottamenti, si colloca sotto quota 50, lo spartiacque tra crescita e recessione. Infatti Morgan Stanley taglia le stime della crescita cinese per l’anno in corso di un punto rispetto al target ufficiale (dal 5,5% al 4,6%).

Il rallentamento dell’economia mondiale e gli effetti della guerra ucraina riducono le esportazioni cinesi, mentre i flussi di capitale invertono la rotta alla ricerca di porti più sicuri. In Giappone si rileva un calo di fiducia che potrebbe preludere a una riduzione del Pil che pareva in leggera ripresa. In questa situazione si riaccende la guerra delle valute. Anche qui le cose non saranno più come prima. La creazione del denaro dal nulla che sta alla base delle politiche di espansione monetaria non è detto che sopravviva alla crisi. Lo indica già la mossa sul rublo avanzata da Putin, che non va presa sottogamba. L’intenzione ritorsiva russa è evidente ed è legata alla necessità urgente di sostenere il rublo. Comunque vada, ciò non esaurisce il significato e i possibili effetti della manovra.

Infatti, come osservato da alcuni economisti, per acquistare gas bisogna procurarsi rubli, quindi chiederli a una banca russa che a sua volta potrebbe avere la necessità di richiederli alla banca centrale. Il che comporterebbe non un semplice cambio tra divise monetarie, ma un prestito in rubli da rimborsare necessariamente attraverso l’esportazione di beni in Russia ricevendo rubli in pagamento. La divisa russa diverrebbe moneta per lo scambio, con un “sottostante” rappresentato da fonti energetiche fossili. Il tutto comporterebbe un indebolimento dell’euro e della Unione europea – il che di per sé non dispiacerebbe affatto agli Usa -, annullerebbe l’effetto delle sanzioni economiche, riproporrebbe in termini rinnovati il superamento della centralità del dollaro.
Ci vorrebbe un novello Keynes per sbrogliare la matassa. In assenza dovremmo tutti puntare su un esito positivo della trattativa di pace. Non altrimenti la Ue potrebbe contribuire a un nuovo ordine mondiale, con un ruolo autonomo.

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