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Sciopero e corteo. Dopo trent’anni tornano in piazza uniti i metalmeccanici dell’auto. Contro Stellantis, che non investe e chiude, e contro le bugie del governo. Per la giusta transizione elettrica che salvaguardi il lavoro

Tempi Moderni Corteo da piazza Barberini a piazza del Popolo. Di nuovo unite Fim, Fiom e Uilm dopo la rottura dell'era Marchionne

Una manifestazione della Fiom a Torino foto LaPresse Lo sciopero unitario dei lavoratori Stellantis a Torino lo scorso aprile

L’ultima volta accadde nel 1994. Questa mattina a Roma si ritroveranno tutti i lavoratori del settore auto in Italia. Fim, Fiom e Uilm hanno indetto lo sciopero generale con manifestazione nazionale e corteo da piazza Barberini (ritrovo ore 9,30) a piazza del Popolo al grido di “Cambiamo marcia: acceleriamo verso un futuro più giusto». Uno sciopero contro Stellantis, che continua ad annunciare cassa integrazione in tutti gli stabilimenti e ritarda gli investimenti, e contro il governo Meloni e il ministro Urso che dall’agosto 2023 annuncia un accordo con Stellantis per produrre un milione di veicoli senza mai averlo neanche trattato.

Il dramma della perdita del lavoro ha già colpito parecchie imprese della componentistica (Lear in testa) che lavoravano anche per i produttori tedeschi e i chiari di luna per Volkswagen delineano un quadro molto pesante: ci sono 2.400 aziende e 280 mila lavoratori in gran parte a rischio. Nel gruppo ex Fiat invece dal 2014 (era Marchionne) a oggi sono usciti ben 11.500 lavoratori e nel 2024 sono previste altre 3.800 uscite incentivate.

Nella recente audizione in parlamento, Tavares ha ribadito la richiesta di più incentivi per colmare il gap di costi fra le auto elettriche e quelle endotermiche pari al 40%. Ma è chiaro che l’Italia ha una sua specificità unica: solo qui c’è un calo di produzione del 66% negli ultimi 20 anni mentre imperversa l’italian automotive sounding: gli storici marchi vengono prodotti nell’Est europa o in Africa, vere delocalizzazioni.

La novità di oggi viene proprio dalla politica. Dopo decenni in cui il centro sinistra ha appoggiato Marchionne e il Jobs act, questa mattina in piazza ci saranno tutti i leader di partito, da Elly Schlein a Giuseppe Conte, da Nicola Fratoianni a Carlo Calenda (speriamo per lui non incontri operai ex Embraco).

La richiesta di Fim, Fiom e Uilm è di aprire una trattativa a palazzo Chigi per un piano straordinario che rilanci la produzione in Italia, ma Giorgia Meloni non ha mai risposto.

In piazza ci saranno anche i tre leader confederali Landini, Bombardieri e Sbarra in una pausa dalle divisioni che ripartiranno già da domani quando Cgil e Uil saranno sempre a piazza del Popolo per protestare per i tagli alla sanità e il mancato rinnovo dei contratti pubblici.

 

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Irene Priolo - Irene Priolo ha aggiunto una nuova foto.

Manifestazione degli alluvionati romagnoli a Bologna in concomitanza con il nuovo sopralluogo a Faenza di Irene Priolo, presidente facente funzione dell’Emilia-Romagna e commissario all’alluvione del settembre 2024. Nel primo pomeriggio Priolo ha incontrato i giornalisti in Comune a Faenza.

Diversi i temi affrontati, a cominciare da CAS e CIS non ancora erogati per l’alluvione di settembre. È stato richiesto di portare il CIS a 10 mila euro per i privati, a 20 mila euro per aziende e negozi.

A Traversara si sta portando l’argine in quota lasciando tempo al terreno di compattarsi.

Dalla Regione è arrivato il via libera definitivo per i lavori in destra Marzeno per la messa in sicurezza del borgo di Faenza

 

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 Il generale Figliuolo

«Apre la riunione la Sig.ra Elena Ugolini (...) Comunica che il Gen. Figliuolo e il T.Col. Martella le hanno mandato migliaia di documenti, così come è riuscita ad avere accesso a tanti documenti anche della Regione, per cui è disponibile a metterli a disposizione in caso di richiesta».

Poche righe di un freddo verbale riassuntivo, ma abbastanza per aprire interrogativi legittimi nel corso di una campagna elettorale dove il tema alluvione appare più che mai portante. Ma per capire i contorni della vicenda bisogna fare un piccolo passo indietro e contestualizzare quelle parole pronunciate lo scorso 12 ottobre a Faenza. Quel giorno, nella sala Attanasio di via papa Giovanni Paolo II, è in programma un incontro (a cui la stampa non è ammessa) con i vari comitati romagnoli degli alluvionati. Sono presenti quelli di Traversara e di Faenza, ma anche i tanti danneggiati dall’alluvione del 2023 nel Ravennate, nel Cesenate e le “Vittime del fango” di Forlì. Stando al verbale (redatto e firmato da due aderenti ai comitati) la prima a prendere la parola è proprio la candidata Elena Ugolini che ai presenti dice appunto di aver avuto dal commissario straordinario Francesco Paolo Figliuolo e da un suo collaboratore migliaia di documenti e di aver accesso a tanti documenti anche della Regione. Documenti che è pronta a mettere a disposizione dei comitati.

Circostanza che, anche alla luce dei rapporti non più ottimali tra generale ed enti locali, non può che “incuriosire”. Anche perché - in attesa dell’esito del voto - Ugolini è al momento una privata cittadina. Esattamente come i residenti di Traversara e Faenza che il Commissario non lo hanno visto da tempo, nemmeno dopo il dramma di settembre. Né tantomeno dopo l’ultima visita in Romagna, quando il generale si fermò a Premilcuore e Portico specificando di essere il commissario straordinario “solo dell’alluvione 2023”, per il resto rivolgersi a Irene Priolo. Ecco perché le modalità di quei contatti, trapelate peraltro casualmente, prestano ora inevitabilmente il fianco a pensieri di calcolo elettorale tra la candidata di centrodestra e il commissario nominato da Meloni proprio al posto di Bonaccini. Resta poi il dubbio di sapere che tipo di documenti fossero. Dallo staff di Ugolini confermano la circostanza, ma specificano: «Chiaramente “migliaia di documenti” è un modo di dire, ma i contatti con Figliuolo ci sono stati dopo l’ultima alluvione. Nulla di segreto, era un modo per interessarsi alle comunità colpite direttamente»

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Manovra Nel 2025 la spesa sanitaria salirà appena dello 0,04% del Pil: circa 8-900 milioni

Sanità, smentito Schillaci: i 3 miliardi non ci sono

Il ministro Giorgetti ha dovuto ammettere che nella legge di bilancio per la sanità non ci saranno i 3,7 miliardi di cui ancora martedì si favoleggiava al ministero della salute. Lo ha ribadito nella conferenza stampa di ieri mattina in cui ha illustrato la manovra: «Manteniamo invariata la percentuale rispetto al Pil» ha detto, riferendosi al fondo sanitario nazionale che impegna circa 130 miliardi di euro. Se il Pil aumenterà poco sopra l’1% come previsto, il conto è presto fatto: alla salute nel 2025 andranno meno di due miliardi in più con cui le Regioni dovranno coprire l’aumento fisiologico dei prezzi e dei salari del personale. Molto meno di quanto sperato, e di quanto richiede lo stato della sanità pubblica.

Non è la prima volta che Giorgetti esprime l’intenzione di tenere costante il rapporto tra spesa sanitaria e Pil, già molto inferiore a quello di Francia e Germania. Ad alimentare l’ambiguità era stato però lo stesso ministro della salute Orazio Schillaci, che il giorno prima si era detto fiducioso su un investimento di «oltre tre miliardi», lasciando intendere che il governo avesse davvero intenzione di rilanciare il settore con nuove assunzioni. Invece no: rispetto a quanto già deciso, la spesa sanitaria nel 2025 aumenterà appena dello 0,04% del Pil, oggi poco sopra i duemila miliardi. Cioè di circa 8-900 milioni, altro che 3,7 miliardi. A questa cifra va sommato il miliardo già messo in manovra l’anno scorso per il 2025, e così non si arriva nemmeno a due. A chiarirlo è anche il Documento programmatico di bilancio (Dpb) inviato ieri a Bruxelles, in cui le spese previste dal governo nel triennio 2024-2026 sono messe nero su bianco. Secondo il Dpb i tre miliardi promessi arriveranno solo nel 2026, quando la spesa sanitaria salirà dello 0,15% del Pil.

Nel 2025, l’aumento della spesa sanitaria sarà in linea con l’inflazione e con la variazione del Pil come auspica Giorgetti. In sostanza, per la sanità non cambierà quasi niente. Secondo il ministro dell’economia è già qualcosa: «Credo che il meno deluso debba essere Schillaci», ha detto alludendo allo scontento degli altri membri del governo a cui toccheranno tagli lineari. Ma ora in tanti lamentano l’inconsistenza di un ministro della salute che si spreca negli annunci e poi raccoglie regolarmente le briciole senza fiatare. «Si fanno piani e promesse molto ambiziosi – osserva Marina Sereni, responsabile salute nella segreteria del Pd – e poi non si trovano le risorse necessarie per realizzare tutto questo». «Se non ti danno i finanziamenti sei un tecnico, devi battere i pugni, devi farti valere e nel caso metti sul tavolo le dimissioni» consiglia Giuseppe Conte a Schillaci. Ironico e amaro Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe: «Il ministero della Salute può ormai essere considerato senza portafoglio».

Anche lo stop al numero chiuso nelle facoltà di medicina annunciato dalla ministra Bernini non è quel che sembra. Bernini ha provato a accontentare necessità opposte: da un lato, quella di aumentare il numero di medici soprattutto in alcuni settori come la medicina d’urgenza e la rianimazione; dall’altro, l’opposizione storica dell’ordine dei medici e della associazioni di categoria alla liberalizzazione delle facoltà. Sullo sfondo, i tagli che non hanno certo risparmiato le università. E allora la ministra ha preferito varare un compromesso al ribasso.

Il disegno di legge delega approvato ieri dalla Commissione istruzione del Senato prevede che a medicina ci si potrà iscrivere liberamente ma con una selezione rimandata al primo semestre dopo esami «caratterizzanti» e in base a criteri ancora da stabilire. Tutto senza un euro in più. E infatti il presidente dell’ordine dei medici Filippo Anelli festeggia: «L’abolizione del test di accesso a Medicina non toglierà il numero programmato: è sicuramente una buona notizia». Mentre le opposizioni protestano perché il numero chiuso è solo spostato di qualche mese, senza risorse per accogliere gli studenti in più e con un prevedibile scadimento della didattica. Dura la segreteria Pd, per voce di Sereni e del responsabile università Alfredo D’Attorre: «Un puro imbroglio a fini propagandistici»

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Medio Oriente Onu e ong denunciano la chiusura, i soldati israeliani confermano: il Piano dei Generali è già in atto. Costi folli al mercato nero, un mix di scarsità e oligopolio: al nord un chilo di cetrioli costa 150 dollari, 25 chili di farina mille. E l’83% del cibo non arriva a destinazione. E in Libano nuovi spari su Unifil

Camion di aiuti umanitari per Gaza, ieri, fermi nella città egiziana di Arish foto Ali Moustafa/Getty Images Camion di aiuti umanitari per Gaza, ieri, fermi nella città egiziana di Arish – Ali Moustafa/Getty Images

«La gente è in modalità sopravvivenza». Rachael Cummings, specialista per la salute di Save the Children, riassume in poche durissime parole la quotidianità di Gaza: «La gente cerca cibo, cerca acqua». L’indispensabile a sopravvivere, appunto. Una battaglia giornaliera che nel nord è pratica estrema.

L’assedio totale imposto dall’esercito israeliano da dodici giorni è un puzzle di cecchini che sparano a vista, artiglieria e raid aerei, ospedali circondati e aiuti fantasmi. Lo ha detto ieri l’Onu: mai dal 7 ottobre 2023 si era raggiunto un simile record negativo nella consegna (mancata) degli aiuti umanitari, «le peggiori restrizioni» imposte da Israele, dice James Elder, portavoce di Unicef.

IL NORD È ISOLATO, non entrano cibo, acqua e medicine. La questione è centrale, sul piano pratico – della sopravvivenza di cui sopra – e sul piano politico. C’è quello delle autorità israeliane che, confermano alcuni soldati ad Haaretz, stanno già implementando il cosiddetto Piano dei Generali («I comandanti dicono apertamente che il Piano Eiland è promosso dall’Idf»; «Lo scopo è dare ai residenti che vivono a nord dell’area di Netzarim una scadenza per trasferirsi a sud. Dopo, chiunque rimarrà nel nord sarà considerato un nemico e verrà ucciso»).

Obiettivo, lo svuotamento di Gaza nord per creare una zona cuscinetto, che il governo a mezza bocca descrive come necessaria alla sicurezza di Israele ma che l’ultradestra – più sfacciata e priva di remore – ritiene il primo passo per una nuova fase di colonizzazione del territorio palestinese.

E poi c’è il piano esterno, diplomatico. Domenica in una lettera inviata all’esecutivo di Tel Aviv, il segretario di stato Usa Antony Blinken e quello alla difesa Lloyd Austin avevano avvertito della possibilità di limitare l’invio di armi se i camion umanitari non avessero varcato il confine invisibile tra nord e centro di Gaza. Ieri a parlare è stata l’ambasciatrice statunitense alle Nazioni unite, Linda Thomas-Greenfield: «Una politica di fame nel nord di Gaza sarebbe orribile e inaccettabile e avrebbe conseguenze secondo il diritto internazionale e la legge statunitense».

La risposta, indiretta, è giunta ieri dall’esercito israeliano che fa sapere di aver autorizzato il transito di 50 camion provenienti dalla Giordania verso le zone assediate. Non si sa se e quando arriveranno, sono comunque quella goccia nel mare descritta ieri nell’ultimo rapporto di Oxfam: l’83% degli aiuti diretti a Gaza non arrivano a destinazione. L’Unrwa ha paura: siamo vicini al «punto di rottura, quando non saremo più in grado di operare».

GLI AIUTI non arrivano e il poco che c’è ha i costi folli del mercato nero, un mix di scarsità e oligopolio, quello di chi i beni li ha perché se li è presi con la forza. I prezzi li ha ricostruiti l’AjLabs di al Jazeera: un chilo di cetrioli costa 150 dollari a nord, otto a sud (un dollaro prima dell’offensiva); un chilo di pomodori 180 dollari a nord, 12 a sud (prima, un dollaro); 25 chili di farina mille dollari a nord, 150 a sud (dai nove di un anno fa); il latte in polvere 85 dollari a nord e 12 a sud (costava tre dollari). Il 96% della popolazione soffre per la carenza di cibo, il 20% è alla fame.

Ieri Algeria, Francia e Gran Bretagna hanno chiesto una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza per discutere della crisi umanitaria (per mano umana) a Gaza e chiedere a Israele di garantire l’arrivo di beni salvavita. Se l’attivismo di Parigi e Londra potrebbe segnalare un mini-riposizionamento, per lo meno sul piano umanitario, manca ancora il riconoscimento di un circolo vizioso politico.

Lo vediamo ripetersi con cadenza regolare e ravvicinata da un anno, denunciato da mesi dalle organizzazioni umanitarie e dalle ong che accusano Israele di usare la fame come arma di guerra di lungo periodo: rendere Gaza un luogo inadatto alla vita, presente e futura. Nessuna via di uscita, nemmeno per Israele, denunciano sulle colonne dei quotidiani israeliani diversi analisti militari che, come Yagil Levy, definiscono strategia «senza senso» «l’idea che Gaza possa essere un campo di concentramento, dove ogni persona si muove secondo il volere d’Israele…Il 7 ottobre dovrebbe averci reso chiaro che è impossibile tenere milioni di persone sotto assedio».

INTANTO, PERÒ, il numero di uccisi a Gaza sfiorava ieri i 42.500 (più 10mila dispersi), di cui 350 uccisi nel campo profughi di Jabaliya solo negli ultimi 12 giorni di assedio. «Intere famiglie al nord sono scomparse», ha raccontato ieri Mounir al-Bursh, direttore del ministero della salute di Gaza.

E l’offensiva prosegue anche in Libano, «nuovo» fronte di guerra. Il bombardamento peggiore ha colpito Nabatieh, nel sud, otto raid aerei che hanno centrato anche il municipio: tra i 16 uccisi, c’è il sindaco Ahmad Kahi. «I soccorritori stanno cercando tra le macerie», racconta il giornalista Imran Khan dal luogo in cui pochi giorni fa a essere bombardato era stato il mercato storico cittadino, «completamente distrutto dalle fiamme».

Altri 15 gli uccisi nella cittadina di Qana e bombe anche su Beirut, poche ore dopo la richiesta degli Stati uniti a Israele: basta raid sulla capitale. In serata Unifil ha riportato di nuovi colpi sparati da un carro armato israeliano, «diretti e apparentemente deliberati» contro una postazione della missione Onu nel sud libanese: due telecamere distrutte e la torretta di osservazione danneggiata.

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Manovra Il governo annuncia la legge di bilancio da 30 miliardi. Ma la tassa sugli extra profitti delle banche è solo una partita di giro: 2,5 miliardi che lo Stato restituirà, dalla prossima legislatura. Scarsi i fondi in più alla sanità,

Manovra Giorgetti: «Non saranno contente dei sacrifici». Ma l’intesa soddisfa l’Abi. Opposizioni all’attacco, medici pronti alla protesta

Gioco di prestigio sulle banche. Meloni: «Non sono nemiche» Il ministro dell’Economia Giorgetti e il viceministro Leo alla conferenza stampa sul ddl Bilancio – LaPresse

«Orgogliosa e soddisfatta per una manovra seria e di buon senso»: così si proclama da Bruxelles Giorgia Meloni commentando la legge di bilancio da 30 e non 25 miliardi approvata dal consiglio dei ministri martedì sera, ma non ancora messa giù nero su bianco. A illustrarla in conferenza stampa, ieri mattina, sono stati il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e il viceministro Maurizio Leo. Il turno di Meloni arriverà lunedì prossimo, quando sarà lei a presentare il testo definitivo. Saranno passati due anni dalla nascita del suo governo: occasione d’oro per un consuntivo sul cui trionfalismo si può scommettere a colpo sicuro.

SULLA DESTINAZIONE di quei 30 miliardi non ci sono grandi sorprese. È stato un po’ alzato il tetto del taglio del cuneo, che diventa strutturale come l’accorpamento delle prime due aliquote Irpef ma per via indiretta: dai 35 mila euro ai 40 mila si procederà per detrazioni. La sanità prende poco, 900 milioni, ma che secondo il Mef vanno sommati allo stanziamento dell’anno scorso e si arriva a 2,366. L’opposizione l’ha presa male e gli operatori della Sanità anche peggio: i medici ospedalieri di Anaoo Assomed sono sul piede di guerra, «pronti alla protesta». Quattro miliardi e mezzo serviranno a finanziare il rinnovo dei contratti della Pubblica amministrazione. I bonus famiglia saranno condizionati alla presenza e al numero di figli: un po’ mussoliniano ma è anche vero che sulla minaccia costituita dalla crisi della natalità sono d’accordo tutti.

Il vero punto interrogativo riguardava però non la destinazione ma le coperture. Poco più di due miliardi arriveranno dai tagli lineari, però poi modulati caso per caso, ai ministeri, allargati anche ai vertici degli enti pubblici che non potranno guadagnare più del presidente del consiglio. Un miliardo arriverà dalle detrazioni degli sgravi fiscali, accettati di buon grado dal presidente di Confindustria Orsini anche perché su una somma di 120 miliardi tondi non è molto. Un altro dal contributo delle Assicurazioni, due e mezzo dalle banche e buona parte dello scontro politico si articola proprio intorno a questa voce. È vera tassa o almeno vero contributo? Le banche rinvieranno di due anni l’incasso dei crediti di imposta. Insomma un prestito ma senza interessi.

L’OPPOSIZIONE IN CORO non ha dubbi: «È una truffa, un imbroglio». Giorgetti la vede all’opposto: «Io li chiamo sacrifici. Le banche fanno bene a essere caute. Pescatori e operai saranno contenti. Le banche un po’ meno». La premier, che per inciso aveva escluso «sacrifici» e probabilmente Giorgetti ci tiene ad adoperare il termine anche per questo, sfodera toni opposti: «Non vogliamo dare il segnale che le banche siano degli avversari. Abbiamo fatto un lavoro con loro. È stata una collaborazione». Il vicepremier azzurro Antonio Tajani, che nelle settimane scorse si era qualificato come il gladiatore delle banche, concorda con la presidente del consiglio: «Abbiamo ottenuto quel che chiedeva Forza Italia: un accordo, non un’imposizione e non una tassa».

UNA PARTE DI RAGIONE ce l’hanno tutti ma Tajani e Meloni più di Giorgetti. La trattativa con le banche, conclusa domenica sera, è stata serrata e a tratti difficile. La strada indicata

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