Nella foto: Il giorno della resistenza indigena a Caracas, Venezuela (12 ottobre, Columbus Day) @ Ap/Jesus Vargas
Oggi un Lunedì Rosso dedicato alle varie forme che può assumere la resistenza.
Dalle macerie del campo profughi di Jabaliya, nel Nord di Gaza, dove i sopravvissuti attendono la morte o qualsiasi altra cosa. Fino al tessuto produttivo della Toscana, dove la lotta alla dismissione industriale ha prodotto una fuga in avanti: il progetto collettivo di una fabbrica sostenibile e socialmente integrata, nel sito della Ex Gkn.
Ancora resta forse una declinazione della resistenza l’amore, con le sue infinite complicazioni, raccontate in All we imagine as light, un film ambientato nel tiepido blu tropicale di Mumbai.
Per iscriverti gratuitamente a tutte le newsletter del manifesto vai sul tuo profilo e gestisci le iscrizioni.
https://ilmanifesto.it/newsletters/lunedi-rosso/lunedi-rosso-del-14-settembre
Commenta (0 Commenti)
Il contingente Onu ha denunciato due episodi. Uno oggi, con l'irruzione di due carri armati israeliani in una postazione a Ramyah, e uno ieri, nel quale "soldati dell'Idf hanno fermato un movimento logistico critico dell'Unifil nei pressi di Meiss ej Jebel, negandogli il passaggio". La missione ha "chiesto spiegazioni in merito a queste scioccanti violazioni". Israele ha spiegato che un suo tank si è scontrato con una postazione perché era "sotto tiro". 15 caschi blu intossicati dal fumo dopo colpi sparati dall'Idf
https://tg24.sky.it/mondo/2024/10/13/unifil-israele-libano-news
Due carri armati israeliani hanno “fatto irruzione” in una postazione dell'Unifil nel sud del Libano. A denunciare l’ingresso “con la forza” dei tank è stata la stessa missione di peacekeeping dell’Onu. L'Unifil ha anche accusato l'esercito israeliano di aver bloccato uno dei suoi movimenti logistici, chiedendo "spiegazioni" dopo queste "scioccanti violazioni". "Ieri i soldati dell'esercito israeliano hanno bloccato un movimento logistico cruciale dell'Unifil vicino a Meiss el-Jabal, impedendone il passaggio. Questo movimento cruciale non ha potuto essere effettuato", ha fatto sapere la missione di peacekeeping nel sud del Libano. Quindici caschi blu, inoltre, sono rimasti intossicati dal fumo dopo alcuni colpi sparati dall'Idf vicino alla postazione Unifil. La missione ha "chiesto spiegazioni in merito a queste scioccanti violazioni". Israele ha risposto che un suo tank si è scontrato con una postazione della missione di pace perché era "sotto il fuoco". Intanto, una fonte qualificata ha fatto sapere all'Ansa che i 27 Paesi dell'Ue hanno trovato un'intesa sul testo della dichiarazione in risposta alle azioni israeliane contro il contingente Unifil in Libano: il testo, ha aggiunto, dovrebbe essere diffuso in serata. Le forze di interposizione delle Nazioni Unite da giorni sono sotto il fuoco incrociato tra Israele e Hezbollah. I caschi blu sono 10mila in tutto, tra cui oltre mille soldati italiani (GLI AGGIORNAMENTI LIVE SUL CONFLITTO).
Il contingente Onu, in una nota, ha quindi denunciato due diversi episodi. Uno stamattina, con l'irruzione di due tank israeliani in una postazione a Ramyah, e uno ieri, nel quale "i soldati dell'Idf hanno fermato un movimento logistico critico dell'Unifil nei pressi di Meiss ej Jebel, negandogli il passaggio". Nella nota, Unifil ha spiegato: “Questa mattina presto le forze di peacekeeping dislocate presso una postazione a Ramyah hanno osservato tre plotoni di soldati dell'Idf attraversare la Linea Blu verso il Libano. Verso le 4.30 del mattino, mentre i peacekeeper erano nei rifugi, due carri armati Merkava dell'Idf hanno distrutto il cancello principale della posizione e vi sono entrati con la forza. Hanno chiesto più volte che la base spegnesse le luci. I carri armati se ne sono andati circa 45 minuti dopo, dopo che l'Unifil ha protestato tramite il nostro meccanismo di collegamento, affermando che la presenza dell'Idf stava mettendo in pericolo i peacekeeper". L'Unifil ha aggiunto che "verso le 6.40 del mattino, i peacekeeper nella stessa posizione hanno segnalato lo sparo di diversi colpi a 100 metri a nord, che hanno emesso fumo. Nonostante indossassero maschere protettive, 15 peacekeeper hanno subito effetti, tra cui irritazioni cutanee e reazioni gastrointestinali, dopo che il fumo è entrato nel campo. I peacekeeper stanno ricevendo cure.
Nella nota si sottolinea anche che "per la quarta volta in pochi giorni, ricordiamo all'Idf e a tutti gli attori i loro obblighi di garantire la sicurezza del personale e delle proprietà delle Nazioni Unite e di rispettare in ogni momento l'inviolabilità dei locali delle Nazioni Unite. Violare ed entrare in una posizione Onu è un'ulteriore flagrante violazione del diritto internazionale e della risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza. Ogni attacco deliberato ai peacekeeper è una grave violazione del diritto internazionale umanitario. Il mandato dell'Unifil prevede la sua libertà di movimento nella sua area di operazioni e qualsiasi restrizione a ciò è una violazione della risoluzione 1701". Per questo l'Unifil ha reso noto di aver "chiesto spiegazioni in merito a queste scioccanti violazioni".
Israele ha poi spiegato che un suo tank si è scontrato con una postazione della missione di pace perché era "sotto il fuoco". "Una revisione iniziale ha mostrato che un carro armato dell'Idf che stava cercando di evacuare i soldati feriti mentre era ancora sotto tiro è arretrato di diversi metri in una postazione Unifil. Una volta cessato il fuoco nemico, e in seguito all'evacuazione dei soldati feriti, il carro armato ha lasciato la postazione", ha comunicato l'Idf.
L'incidente di oggi con 2 carri armati israeliani entrati con la forza in una postazione Unifil "costituisce un atto inaccettabile nei confronti della Forza di pace delle Nazioni Unite, il cui mandato è orientato esclusivamente al mantenimento della stabilità e della sicurezza nell'area", ha commentato il ministro della Difesa Guido Crosetto. "A seguito di questa grave violazione ho chiesto al capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Luciano Portolano, di mettersi in contatto con il suo omologo. Il generale Portolano ha prontamente interloquito con il capo di Stato Maggiore delle Forze di Difesa israeliane, generale Herzi Halevi, ribadendo la necessità di evitare ulteriori azioni ostili. Stessa cosa mi ha assicurato il mio omologo, Gallant", ha aggiunto Crosetto.
Intanto, la Croce Rossa ha fatto sapere che alcuni suoi paramedici sono rimasti feriti durante un raid avvenuto oggi nel sud del Libano, mentre erano impegnati in operazioni di soccorso. I soccorritori erano stati inviati in una casa "in coordinamento" con la missione delle Nazioni Unite che funge da cuscinetto tra Israele e Libano. "Mentre la squadra cercava vittime da soccorrere, la casa è stata colpita per la seconda volta, provocando traumi ai soccorritori e danni a due ambulanze", ha riferito la Croce Rossa libanese. Questa squadra, ha aggiunto, "era stata inviata in coordinamento con la Forza ad interim delle Nazioni Unite (Unifil) dispiegata nel sud del Libano, bombardato quotidianamente da aerei israeliani”.
E su Unifil non si fermano le tensioni internazionali. “È giunto il momento di rimuovere l'Unifil dalle roccaforti e dalle aree di combattimento di Hezbollah", ha detto il premier israeliano Benyamin Netanyahu in una dichiarazione registrata, in cui si è rivolto al segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. "L'Idf lo ha chiesto ripetutamente, e ha avuto ripetuti rifiuti, tutti volti a fornire uno scudo umano a Hezbollah. Il vostro rifiuto di evacuare i soldati li rende ostaggi di Hezbollah. Questo mette in pericolo la loro vita e quella dei nostri soldati. Ci rammarichiamo per l'infortunio subito dai soldati Unifil, facciamo tutto per prevenire questi incidenti", ha aggiunto. E ancora: "Sfortunatamente, alcuni leader europei stanno esercitando pressioni nel posto sbagliato. Invece di criticare Israele, dovrebbero rivolgere le loro critiche a Hezbollah, che usa l'Unifil come scudo umano proprio come Hamas a Gaza usa l'Unrwa". Per parlare della questione, anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha avuto una conversazione telefonica con Netanyahu. “Meloni ha ribadito l'inaccettabilità che Unifil sia stata attaccata dalle forze armate israeliane, ricordando come la Missione agisca su mandato del Consiglio di Sicurezza per contribuire alla stabilità regionale", ha fatto sapere Palazzo Chigi, spiegando che la premier "ha sottolineato l'assoluta necessità che la sicurezza del personale di Unifil sia sempre garantita".
Nel frattempo, a due settimane dalle operazioni di terra di Israele, continuano i combattimenti lungo il confine libanese. Mentre aumentano le incursioni, Hezbollah ha dichiarato che i suoi combattenti stanno affrontando le truppe israeliane in diversi villaggi al confine. "Durante il tentativo di una forza di fanteria nemica israeliana di infiltrarsi nel villaggio di Al-Qawzah, dal lato meridionale, i militanti di Hezbollah si sono scontrati con loro usando le mitragliatrici”, ha dichiarato il gruppo in un comunicato. I combattenti di Hezbollah hanno anche fatto esplodere ordigni esplosivi contro i soldati israeliani e "si sono scontrati con loro mentre tentavano di infiltrarsi" due volte nei pressi del villaggio libanese di Ramia, ha affermato il gruppo. Hezbollah ha anche dichiarato di aver lanciato "dei razzi" contro soldati israeliani nel villaggio di Maroun al-Ras, vicino al confine tra Libano e Israele.
Dall'inizio della guerra, il Paese ha perso 14 milioni di cittadini — da 42 a 28 milioni — in gran parte fuggiti o riparati all'estero. Un'emorragia che include donne, minorenni e disertori, e rischia di lasciare l'Ucraina con una carenza di forza lavoro e una crisi sociale a lungo termine.
https://www.youtube.com/shorts/liC-y3vqEfY
Commenta (0 Commenti)
Con una lettera aperta, un gruppo di riservisti ha dichiarato il rifiuto a combattere fino a quando non ci sarà un accordo per liberare gli ostaggi. Rischiano fino a un anno di carcere
Carristi israeliani al confine con il Libano - Ansa
«Not in their name», «non nel loro nome». Michael Ofer Ziv sintetizza così il motivo che ha spinto lui e altri 129 soldati israeliani a dichiarare lo sciopero dal servizio fin quando il premier Benjamin Netanyahu non raggiungerà un accordo per il rilascio dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza. «Non sono più disposto a uccidere o a morire per un governo che non rappresenta né me né gli interessi del Paese. È il mio punto di vista ma è anche il sentire comune di quanti hanno deciso di firmare la lettera aperta all’esecutivo e al ministero della Difesa», afferma il 29enne impiegato nel settore dell’high-tech che, tra ottobre e dicembre, per tre mesi, ha prestato servizio come riservista e ufficiale di fanteria nella Brigata Gerusalemme nel nord di Gaza. Prima di entrare nella Striscia, è stato per alcune settimane a Sde Teiman, la base diventata tragicamente nota per gli abusi sui detenuti palestinesi. «Ma non mi trovavo nella parte “incriminata” del compound», precisa. Il documento, sottoscritto a settembre, è diventato pubblico questa settimana, suscitando scalpore nell’opinione pubblica nazionale. L’esercito – Tzahal, dall’acronimo – è uno dei pilastri di Israele: ragazzi e ragazze prestano servizio militare obbligatorio da uno a tre anni. Al termine, inoltre, sono arruolabili come riservisti per i successivi vent’anni. Solo un’esigua minoranza rifiuta la chiamata, anzi molti si rendono disponibili anche dopo, come volontari. Contribuire alla difesa è un valore socialmente condiviso. Dopo il massacro di Hamas, le defezioni si sono praticamente azzerate.
Dan Eliav, all’epoca 63enne e, dunque, esentato, anzi ha fatto di tutto per tornare sul campo. Ci è riuscito entrando nella guardia di sicurezza della comunità in cui risiede, Zichron Yaakov, vicino ad Haifa. Per questo, si presenta all’appuntamento alle porte di Gerusalemme con il fucile d’ordinanza in spalla. «L’ho tenuto nonostante abbia lasciato. Ero nella mia fattoria al sud e là mi sento più sicuro con questa», dice, a mo’ di giustificazione, indicando la voluminosa arma. “All’indomani del 7 ottobre ho avvertito l’urgenza di combattere per la sopravvivenza di Israele. E l’ho fatto – racconta –. Ora, però, la minaccia è stata rimossa. Non si tratta più, dunque, della salvaguardia del Paese bensì della volontà del premier di prolungare a oltranza il conflitto per raggiungere i propri obiettivi. Cioè restare al potere il più a lungo e evitare i processi. Un’agenda che si combina perfettamente con quella della sua base sociale: i coloni e gli ultraortodossi ai quali la deflagrazione offre l’opportunità di realizzare il proprio sogno della “grande Israele” mediante la rioccupazione della Striscia e del sud del Libano. Tzahal, come dice la parola stessa, è un esercito di difesa: deve garantire la sicurezza del Paese. E quest’ultima non si ottiene solo con la forza, bensì con la politica e il negoziato. Proprio quanto Netanyahu ostinatamente rifiuta».
«Lo abbiamo compreso di colpo a novembre quando, dopo il primo accordo con cui sono stati rilasciati 105 sequestrati, l’esecutivo ha deciso di riprendere i combattimenti», afferma uno dei 64 che hanno firmato la lettera con il proprio nome ma che ora chiede di restare anonimo per tenere un basso profilo. Allora, il ricercatore 26enne era arruolato nel Battaglione 923, in servizio a Beer Sheva. «All’inizio pensavo di essere là per una causa concreta: salvare le vite dei civili nel sud. Poi, man mano che diventava palese la distruzione massiccia della Striscia, mi sono reso conto che le ragioni erano ben altre – racconta di fronte a un lunghissimo caffè americano –. Per questo, quando mi hanno offerto di entrare a Gaza, ho detto no».
Da tali riflessioni è scaturito, ad aprile, un primo documento che minacciava l’obiezione in seguito all’incursione dell’esercito a Rafah dove erano ammassati quasi due milioni di profughi. Micheal, Dan e il 26enne l’hanno sottoscritto, insieme a 39 colleghi. Cinque mesi dopo, quando è stato lanciato un nuovo documento, le adesioni sono triplicate. «Le ragioni sono due: il protrarsi del conflitto e l’avere scelto di concentrarci sull’urgenza di riportare a casa gli ostaggi, su cui c’è ampio consenso nella società israeliana», sottolinea il ricercatore 26enne. «Il ritorno degli ostaggi tocca i fondamenti etici su cui si basa l’identità stessa Israele: la cura reciproca e la certezza di non lasciare indietro nessuno – ribadisce Dan –. Consentire che vengano meno, con l’abbandono dei rapiti, vuol dire mutare il Dna del Paese. Israele non sarebbe più ciò che è. Salvare l’essenza della nazione è la vera battaglia che dobbiamo combattere». Il costo può essere salato. Chi rifiuta di tornare in servizio come riservista rischia fino a un anno di carcere.
Sia Michael sia il 26enne l’anno fatto: il primo a giugno, il secondo una settimana fa. Possono, dunque, essere processati in ogni momento. «Ne varrebbe la pena», dice Michael. «La reazione furibonda della ministra dei Trasporti, Miri Regev, la quale, sbattendo un pugno sul tavolo, ha minacciato di farci arrestare tutti e 130, indica che abbiamo toccato un punto cruciale», aggiunge Dan. L’esercito, da parte sua, minimizza. Alla richiesta di un commento si è limitato a rispondere: «Ci risulta che solo cinque dei firmatari siano in servizio come riservisti. L’effetto reale non è, dunque, rilevante». «Rispetto alla lettera di aprile – conclude il 26enne –, stavolta stiamo ricevendo molti più messaggi da colleghi che, pur non avendo aderito, condividono la nostra posizione. La pressione internazionale è condizione necessaria ma non sufficiente per fermare la guerra. Occorre anche l’opposizione interna. Esiste. Si tratta solo di farla emergere. Ciascuno di noi deve fare la sua parte»
Commenta (0 Commenti)
Il nord della Striscia è sotto assedio totale da sette giorni: la nuova offensiva di terra israeliana intrappola 400mila persone. I cecchini sparano su chiunque si muova, gli aiuti non entrano dal primo ottobre. È il «Piano dei Generali»: una zona cuscinetto senza palestinesi
Palestina Voci dal campo profughi di Jabaliya. Corpi abbandonati per le strade, spari su chi si avvicina, ma molti decidono di restare nel nord di Gaza sotto assedio totale: è il «Piano dei Generali», verso la cacciata di 400mila palestinesi
Palestinesi in mezzo al campo profughi di Jabaliya, distrutto dall’offensiva israeliana – Ap/Mahmoud Essa
Pubblichiamo l’articolo della testata israelo-palestinese +972mag
L’esercito israeliano ha lanciato una nuova grande offensiva nel nord di Gaza, assediando le tre città più settentrionali della Striscia e i loro dintorni. Domenica 6 ottobre, all’alba, l’esercito ha ordinato ai circa 400mila residenti rimasti nel nord di trasferirsi nella cosiddetta «zona umanitaria» a sud, in vista di una nuova operazione militare.
Molti si sono rifiutati di lasciare le proprie case e da domenica pomeriggio i residenti di Jabaliya, Beit Hanoun e Beit Lahiya sono stati sottoposti a un intenso bombardamento, tagliati fuori da Gaza City più a sud, mentre carri armati e droni sparavano a chi cercava di fuggire.
Più di 120 palestinesi sono già stati uccisi nell’area dall’inizio dell’ultima operazione, a causa di attacchi aerei, colpi di artiglieria e sparatorie da parte dei soldati israeliani e dei droni quadricotteri. Nessun aiuto umanitario entra nelle zone assediate e Israele ha bombardato l’ultimo panificio funzionante di Jabaliya. L’esercito ha anche ordinato l’evacuazione di tutto il personale medico e dei pazienti delle tre principali strutture mediche della zona: l’ospedale Kamal Adwan, quello indonesiano di Beit Lahiya e l’Al-Awda di Jabaliya. I residenti del campo profughi di Jabaliya, epicentro dell’attuale invasione di terra, riferiscono che i corpi sono sparsi per le strade e le ambulanze non riescono a recuperarli.
«I QUADRICOTTERI si librano a bassa quota sopra le strade, sparando a tutto ciò che si muove – ha raccontato Mohammed Shehab, un residente di 27 anni, a +972mag – I cecchini sono posizionati sui tetti e prendono di mira chiunque esca. Allo stesso tempo, soldati e carri armati si sono spinti all’interno del campo, demolendo case e spianando strade e campi».
L’esercito israeliano, che ha avuto uno scambio di fuoco con le forze di Hamas nell’area e ha subito diverse perdite, ha dichiarato che la nuova operazione è stata progettata per stroncare i tentativi del gruppo di ricostruire le proprie capacità operative nel nord della Striscia. Ma l’offensiva arriva solo poche settimane dopo la notizia secondo cui il primo ministro Benyamin Netanyahu sta prendendo in considerazione una proposta, nota come Piano dei Generali, per ripulire l’intero nord di Gaza attraverso una campagna di fame e sterminio. Per questo motivo, vi è una diffusa preoccupazione – anche tra i gazawi che hanno parlato con +972 – che Israele possa ora mettere in atto quel piano.
«I pesanti bombardamenti sono iniziati all’improvviso domenica pomeriggio», ha raccontato Shehab. In quel momento era a casa con il suo amico Abdel Rahman Bahr e il fratello di Bahr, Mohammed. «Abdel Rahman è uscito per vedere cosa fosse successo: pensava che avessero bombardato una scuola o un rifugio. Non è più tornato. Ore dopo, Mohammed e io siamo usciti a cercarlo – ha continuato Shehab – All’improvviso, i droni hanno iniziato a sparare contro di noi. Mohammed è stato colpito e io sono riuscito a scappare. Non so ancora cosa sia successo a Mohammed o ad Abdel Rahman».
Le forze israeliane hanno preso di mira anche giornalisti palestinesi che riferivano dell’incursione dell’esercito a Jabaliya. Mercoledì, un attacco aereo ha ucciso il giornalista di Al-Aqsa TV Mohammad Al-Tanani e ferito il suo collega Tamer Lubbad. Un cecchino israeliano ha anche colpito al collo il fotoreporter di al Jazeera Fadi Al-Wahidi; i suoi colleghi sono riusciti a portarlo in ospedale, dove rimane in condizioni critiche. Solo pochi giorni prima un altro giornalista, Hassan Hamad, 19 anni, è stato ucciso da un attacco aereo che ha preso di mira la sua casa nel campo profughi di Jabaliya, portando a 168 il numero totale di giornalisti uccisi a Gaza dal 7 ottobre, secondo il
Commenta (0 Commenti)La protesta Greta Thunberg nel corteo di Milano: «Nessuno sarà libero finché tutti non lo saranno». Manifestazioni da Nord a Sud
Milano, Greta Thunberg al corteo dei Fridays for future – Ansa
«Nessuno sarà libero finché tutti non lo saranno. Di fronte a un genocidio non si può restare neutrali». Kefiah sulle spalle, microfono in mano, Greta Thunberg ha chiuso così, applauditissima, la manifestazione milanese dei Fridays for Future. Si è fatta tutto il corteo in mezzo agli attivisti, dietro lo striscione «Stop Ecocide, Stop Genocide». Poi, sul finale, prende la parola. I manifestanti, la stragrande maggioranza studenti e studentesse delle superiori, accorrono sotto il pulmino, improvvisato palco da cui parla. Scattano foto, fanno video. Pochi minuti e il discorso di Greta è già su tik tok.
RIMBALZA di piazza in piazza, le decine di piazze italiane dove i Fridays hanno manifestato. Ognuna con la sua specificità: a Taranto c’è l’Ilva; a Torino lo striscione «giù le mani dal Meisino» contro la realizzazione di un centro per l’educazione sportiva all’interno di un parco alla periferia nord della città voluta dalla giunta di centrosinistra; a Roma si prende di mira il ministero dell’Istruzione per dire No a una scuola repressiva e lontana dalle esigenze degli studenti. E ancora, in Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, dove i segni delle ultime alluvioni ci sono ancora.
IL CORTEO milanese, partito da largo Cairoli, appuntamento classico per le manifestazioni studentesche della città, si è concluso al parco Baden Powell, vicino a ripa di porta Ticinese. Simbolico, per chi è sceso in piazza per un’istanza ambientalista. È ancora tempo di cambiamenti, lo slogan con cui è stata convocata la manifestazione. Non sono stati moltissimi i partecipanti (sono lontani i tempi in cui a sfilare dietro le bandiere dei Fridays c’erano decine di migliaia di persone) per un corteo che, oltre alle tradizionali parole d’ordine del movimento ambientalista ha voluto portare in piazza anche altre istanze.
LA REPRESSIONE del popolo palestinese, come ricordato da Greta, ma anche la protesta contro il ddl Sicurezza. Giustizia climatica e giustizia sociale sono strettamente legate, dicono gli organizzatori. Dal pulmino che apriva il corteo, parole contro le multinazionali del petrolio, ma anche contro patriarcato, repressione e colonialismo. Il coro più ripetuto «Free free Palestine». Quando i manifestanti passano davanti al museo della scienza e della tecnica, finanziato da Leonardo, appare un missile di cartone, a cui viene subito dato fuoco. Così come, poco più avanti, di fronte a un distributore dell’Eni, compare la sagoma di un cane a sei zampe insanguinato.
VIA CRISTOFORO COLOMBO diventa «via degli indigeni resistenti», contro vecchi e nuovi colonialismi. Al fondo del corteo, ci sono i militanti di Extinction Rebellion e i sindacati di base. Dal furgone che apre la manifestazione si parla di cambiamenti climatici, di Palestina, di antifascismo e patriarcato. Una ragazza tiene tra le mani un cartello con scritto: «Non sono di proprietà di nessuno». Si urla contro il ddl Sicurezza, che sanziona anche le azioni non violente dei movimenti giovanili. A poca distanza, carabinieri e poliziotti osservano indifferenti. Quello che sta succedendo in Medio Oriente in certi momenti sembra sovrastare i «classici» slogan del movimento ambientalista. La global strike contro i cambiamenti climatici appare quasi una lotta globale contro il sistema, che sia capitalista, coloniale, patriarcale, repressivo.
GRETA, che percorre tutto il corteo in mezzo agli attivisti, sembra incarnare questa trasformazione. Parla di oppressione dei popoli, di sfruttamento delle persone, di impossibilità a tacere di fronte a quanto nel mondo succede. «Non si può pretendere di lottare per la giustizia climatica – dice – se si ignora la sofferenza dei popoli colonizzati ed emarginati di oggi». Tutto si lega. Applausi, foto di rito e il corteo si scioglie
Commenta (0 Commenti)