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Scenari Inflazione, produzione e scambi. Le ultime proiezioni del Fondo mondiale internazionale disegnano un quadro mediocre. Che rischia di rivelarsi persino ottimistico

Vari simbole di valute monetarie su un marciapiede a Mosca, in Russia foto Maxim Shipenkov/Ansa Vari simboli di valute monetarie su un marciapiede a Mosca, in Russia – Maxim Shipenkov/Ansa

La proiezione di ottobre 2024 del Fondo monetario internazionale per l’economia mondiale nel 2025-2029 ruota attorno al numero tre: una dinamica sul 3% l’anno del Pil, degli scambi fra paesi, dei prezzi al consumo. Lo stesso Fmi definisce deludente la prospettiva della crescita.
Se il quadro è mediocre, non si deve escludere che risulti ottimistico.

Su scala mondiale l’inflazione potrebbe essere più alta, lo sviluppo della produzione e degli scambi inferiore, le tensioni geopolitiche esplosive. Ciò per il concorso di cinque possibili motivi: calo dell’offerta; espansione della domanda; banche centrali incerte; bassa produttività; crisi della cooperazione internazionale.
Autarchia, protezionismo, conflitti e tensioni geopolitiche stanno frantumando le relazioni commerciali e finanziarie internazionali.

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Comportano un generale aggravio dei costi, un restringimento dell’offerta aggregata di beni e servizi. Ceteris paribus uno shock d’offerta di tale segno contrae attività economica e occupazione, innalza il livello dei prezzi. L’autarchia assume la forma di sussidi statali ancora più cospicui degli attuali alle produzioni nazionali, anche alle imprese meno efficienti, incapaci di sostenere la concorrenza estera. È negativa e distorsiva più dello stesso protezionismo. La guerra non appena li utilizza consuma i beni militari, che è poi molto oneroso riprodurre, e spiazza i beni e i servizi civili, aumentando così i costi e i prezzi complessivi. Non a caso Keynes, pacifista, cento anni fa diceva (nella Fine del laissez-faire) che «le merci e i servizi ottenuti con le spese militari sono destinati a estinzione immediata e infruttifera».

ALLO SHOCK D’OFFERTA potrebbe unirsi uno shock di domanda: una espansione della domanda aggregata mondiale legata a due fattori. Ovunque si stanno pianificando e attuando spese militari aggiuntive, che moltiplicano la domanda globale. Inoltre negli Stati uniti la nuova amministrazione darebbe concreto seguito alla duplice promessa con cui Trump ha vinto le elezioni per «rendere di nuovo grande l’America»: effettuare nel medio termine maggiore spesa pubblica per almeno 7,5 trilioni di dollari (25% del Pil attuale!), bloccare l’immigrazione ed espellere immigrati sebbene vi siano pieno impiego e scarsità di manodopera. Già attraverso le aspettative l’effetto inflazionistico sarebbe molto forte. Date le dimensioni dell’economia americana, come è avvenuto nel 2021 e nel 2022 prima della guerra in Ucraina, dagli Usa l’inflazione si estenderebbe al resto del mondo

I TASSI D’INTERESSE, già calmierati in termini reali dall’attuale inflazione core, si stanno ulteriormente riducendo. Nell’abbassare i tassi nominali le banche centrali sono condizionate dalla pressione miope della politica e del mondo degli affari, in particolare di chi specula sui mercati finanziari. Ma se l’inflazione ripartisse il prezzo del danaro potrebbe bruscamente salire, sgonfiando le borse sopravvalutate e frenando direttamente gli investimenti. Lo shock d’offerta tenderebbe allora a risolversi nel peggiore degli scenari: inflazione e disoccupazione. Se invece le banche centrali lasciassero i tassi invariati o continuassero a ridurli e la domanda globale si dilatasse l’aumento della disoccupazione ne risulterebbe contenuto, ma l’inflazione sarebbe più alta. Si riproporrebbe comunque il dilemma della stagflation.

PARTICOLARMENTE INCERTA in questo quadro incerto è la produttività. Il suo incremento stabilizzerebbe i prezzi e favorirebbe la crescita più della stessa accumulazione di capitale. Ma nell’ultimo ventennio la dinamica della produttività totale dei fattori nei paesi dell’Ocse ha progredito solo dello zero virgola per cento l’anno. Ict e Intelligenza artificiale non hanno ancora dispiegato l’effetto sperato, di estendere la produttività agli altri settori.

CIÒ CHE È PIÙ GRAVE, la cooperazione economica internazionale e la stessa pace sono minate da autarchia, protezionismo, conflitti, ma anche dall’affermarsi di paesi nuovi. Vi si unisce la fragilità, economica e politico-istituzionale, degli Usa, dove la stessa democrazia è scossa dall’asprezza dello scontro fra i partiti, da tensioni sociali, da spinte centrifughe. Gli equilibri mondiali stanno quindi attraversando una fase di transizione confusa, imprevedibile negli sbocchi. Ai cinque originari Brics ( Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) si sono aggiunti dal Egitto, Emirati Arabi uniti, Etiopia, Iran. Decine di altre nazioni hanno deciso di candidarsi.

Se una parte venisse accolta il club supererebbe la metà dell’economia del globo. In questo molto variegato consesso anti-occidentale al di là delle motivazioni politiche v’è un intento economico comune, che ne riassume altri: sottrarsi al signoraggio del dollaro. L’accettazione del dollaro ha sinora consentito agli Usa di indebitarsi verso l’estero, di vivere per decenni al disopra delle proprie risorse col risparmio che i paesi creditori non impiegano al loro interno e trasferiscono all’economia americana.

Dal dopoguerra il mondo ha beneficiato di una pax americana, non solo economica. Ma le debolezze attuali degli Stati uniti suscitano dubbi sulla loro primazia. La finanza statale è dissestata, con un disavanzo superiore al 7% del Pil e un debito che travalica ormai il 120% del Pil sommandosi a un debito privato pur esso alto. Con buona pace del rapporto Draghi l’economia è ancor meno competitiva di quella europea. Per lo scemare della concorrenza interna la crescita della produttività totale dei fattori dall’1,9% l’anno del 1920-1970 si è ridotta nell’ultimo ventennio allo “zero virgola”, come in altri paesi.

Dal 2009 la competitività in termini sia di costo unitario del lavoro sia di prezzi è scemata di un terzo. La bilancia dei pagamenti correnti è afflitta da un passivo strutturale, giunto a sfiorare il trilione di dollari l’anno. La posizione debitoria netta verso l’estero è quindi in continua ascesa e già varca 23 trilioni, l’80% del Pil. Una vendita di dollari da parte della Cina e la sfiducia nella moneta di riserva alimenterebbero la stagflation. Le crepe nella cooperazione fra paesi la renderebbero più difficile da governare.

Come in passato, lo sbocco peggiore delle contraddizioni e dei contrasti interni al capitalismo è la guerra. Forse non è nell’interesse di una Cina tuttora bisognosa di progresso economico. Forse la Russia non ha la forza economica per sostenerla. L’Europa non ha il peso geopolitico. Gli Usa, consci di essere sfidati perché indeboliti, potrebbero far leva sullo strapotere militare. Come spesso accade, il verificarsi di un insieme di eventi sfavorevoli non è valutabile in termini di probabilità commensurabili. Tuttavia la logica – non dimostrativa – e l’analisi empirica invitano a non escludere lo scenario più negativo.

* Pierluigi Ciocca è un banchiere ed economista italiano, è stato vicedirettore generale della Banca d'Italia dal 1995 al 2006