Il Piano energetico del Mite (Pitesai) gela la protesta nazionale per le fonti rinnovabili
In Italia non si potranno più cercare gas e petrolio in Valle d’Aosta e nemmeno tra le cime del Trentino e dell’Alto Adige. Stop alle trivelle anche in Liguria, se mai qualcuno avesse pensato di perforare un pozzo in quella lingua di terra stretta tra gli Appennini e il mare. È per questo che il Pitesai (il Piano della transizione energetica sostenibile delle aree idonee), il piano regolatore dell’estrazione di idrocarburi pubblicato ieri dal ministero della Trandizione Ecologica, è una «finzione», come racconta al manifesto Alessandro Giannì, direttore scinetifico delle Campagne di Greenpeace Italia. «Sarebbe inutile progettare uno stabilimento balneare sulle Dolomiti, non trovi?, qui funziona allo stesso modo».
PUR A FRONTE DI UNA RIDUZIONE importante delle aree definite idonee, insomma, le uniche cancellate dalla mappa sono quelle in cui non c’è gas. «Se l’obiettivo è davvero decarbonizzare l’economia entro il 2050, per farlo devi partire da un punto A e muoversi verso un punto B, che non prevede l’estrazione e il consumo di gas metano. Oggi, l’Italia parte dal punto A per tornare al punto A. È finzion, non Transizione Ecologica» conclude Giannì. Il Pitesai rappresenta una fine alle moratoria sulle nuove concessioni: una situazione rischiosa.
NEL GIORNO SCELTO DA 44 SIGLE tra associazioni, movimenti e comitati per manifestare contro il gas in 20 città simbolo dal Friuli alla Sicilia, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha detto che «possiamo raddoppiare la produzione nazionale di gas in 12-15 mesi e destinare una quota all’industria, con contratti pluriennali a prezzi ragionevoli». A fare da eco a queste affermazioni, fra i tanti, ancheil govenatore emiliano Stefano Bonaccini. E il sindacodi Ravenna, anche lui Pd, Michele De Pascale, fresco di conferma per il secondo mandato, gongola: «Il Pitesai – ha detto – è un provvedimento che è stato fatto per diminuire la produzione di gas, non per aumentarla.
Cingolani ha fatto miracoli, ma l’impostazione di base rimane, ed è antistorica». Dal cui porto della città romagnola passa più della metà del metano che si estrae in Italia, e il sindaco chiede di più: di consentire un significativo aumento della produzione nazionale del gas. È surreale: in Italia sono 1.622 i pozzi attivi al 30 giugno 2021, di cui 673 in produzione (514 a gas e 159 ad olio, 437 ubicati in terra e 236 in mare). Complessivamente nel 2021 l’Italia ha prodotto circa 3,2 miliardi di metri cubi di gas in un Paese che ne ha usati poco più di 72. La ripresa delle estrazioni potrebbe portare a un raddoppio della produzione italiana, arrivando così a un 10% circa del fabbisogno nazionale. «Non sarà possibile prescindere da un mercato internazionale, estrarre più gas finirà solo per garantire maggiori ricavi alle imprese fossili» sottolinea Giannì. Che senso parlare, poi, a fronte di una produzione che al massimo sarà pari al 10 per cento del fabbisogno, di indipendenza energetica? L’Italia si vincolerà a una Finzione ecologica senza Transizione reale» conclude.
È D’ACCORDO CON LUI anche Andrea Minutolo, responsabile scientifico di Legambiente: «Il Piano è poco ambizioso, rappresenta un insieme di linea guida. Noi però ci aspettavamo una road map di uscita dal gas metano, con una deadline progressiva e definitiva alle estrazioni» spiega al manifesto. «Il Piano esprime l’idea che ha il ministero della transizione: lasciando invariate le zone dove si già estrae gas, in pratica indirettamente apre al raddoppio della produzione nazionale. Una scelta illogica, una sorta di fumo negli occhi, mercato internazionale. Andando al massimo al 10% del fabbisogno e importando il 90% saremo sempre dipendenti dall’estero».
IL COMPITINO REDATTO dal ministro e passato al vaglio della Conferenza unificata Stato-Regioni, «invece si limita a parlare di aree. Se è vero che prima si poteva far ricerca sul 100% del territorio e che oggi le superfici sono ridotte del 50%, la realtà è che il territorio che è stato escluso è quello dove non c’è mai stato interesse e quindi erano inutile tenerle aperte, “idonee”. A mare va un pochino meglio, perché la riduzione è dell’89%. Ma le “aree” salvate sono quelle dove si concentra la produzione. Sono state eliminate alcune zone come il Nord Ovest della Sardegna, il Golfo di Taranto o il Canale di Sicilia, ma nell’Adriatico potranno partire processi anche per nuove attività estrattive. E poi è rimasta idonea una zona dell’Alto Adriatico che in precedenza era sempre stata chiusa, quella del Golfo di Venezia». Il divieto totale in quell’area l’aveva rimosso lo Sblocca Italia di Matteo Renzi. Dopo otto anni, l’Italia non ha fatto passi in avanti.