La notizia era nell’aria già da mercoledì, quando è stata presentata a Palazzo Manfredi la prossima edizione di Argillà, in programma il 2, 3 e 4 settembre: questa potrebbe essere la prima volta della mostra-mercato internazionale della ceramica senza artisti e artigiani russi, tra i più presenti negli anni scorsi, e non solo nell’ambito del festival biennale.
Non si tratta di un veto da parte italiana, ma la guerra in Ucraina c’entra eccome.
I costi dei voli aerei diretti dalla Russia per l’Europa sono infatti schizzati a cifre esorbitanti e l’unica alternativa sarebbe fare scalo in Turchia o in Serbia, con orari scomodi e condizioni per il trasporto delle ceramiche che rendono il viaggio praticamente impossibile.
«I visti vengono concessi – conferma Simona Berardi, docente di russo all’Università di Bologna – e in tanti sarebbero interessati a venire ad Argillà».
Berardi è anche la coordinatrice di numerosi scambi culturali che sono intercorsi negli ultimi anni tra le città russe e Faenza: scambi avvenuti sempre nel segno dell’arte, e in particolare della ceramica, ma la pandemia prima e ora la guerra hanno congelato tutto.
«Con “Emozioni ceramiche” dal 2015 al 2020 abbiamo portato a Faenza circa una quarantina di ceramisti russi – prosegue la docente –. Si erano creati rapporti molto profondi, a dicembre 2019 eravamo anche andati con una delegazione a Gzel’, distretto ceramico vicino a Mosca, per una mostra. Si era parlato anche di gemellaggi».
Chi invece sarà con ogni probabilità a Faenza per Argillà è l’artista e ceramista Marina Kurukchi, di origini tataro-crimeane: anni fa viveva a Sinferopoli, capitale della Crimea, ma dopo l’annessione da parte della Russia, nel 2014, si era trasferita a Berezan, in Ucraina, e dallo scoppio della guerra nello scorso febbraio è profuga in Polonia, vicino a Cracovia, dove prosegue la propria attività. La ceramista sarà ospite del Mic e del comitato organizzatore di Argillà, che pagheranno per lei la quota di iscrizione.
«Marina – spiega Berardi – è profonda conoscitrice del decoro tataro di Crimea “Ornek”, incluso nella lista nazionale degli elementi del patrimonio culturale immateriale dell’Ucraina». A Faenza, nel 2020 Marina aveva seguito un percorso sul decoro ed aveva imparato la pratica del tornio nella bottega del compianto Gino Geminiani, frequentando inoltre un corso di smalti.
INVASIONE. Peskov: «il tenore della reazione dipenderà dalla vicinanza dell'Alleanza ai nostri confini»
Quella in Ucraina i russi continuano a chiamarla «operazione speciale», come ha stabilito il presidente, Vladimir Putin, il 24 febbraio, e come la Duma ha ribadito qualche giorno più tardi con una legge approvata all’unanimità che prevede quindici anni di carcere per i resoconti diversi da quelli ufficiali.
Ma quando si parla di Nato, sui giornali, nei dibattiti politici e anche nei programmi televisivi il termine più usato è «guerra», «guerra aperta», con tanto di dettagli sui piani che gli Stati Uniti e i paesi europei stanno preparando, e sulle armi di cui la Russia dispone per respingere la minaccia.
DUECENTODUE SECONDI per incenerire Londra con uno dei nuovi missili ipersonici Sarmat, è stato detto di recente sul primo canale. Duecento per Parigi. Centosessanta per Berlino. Quindi per la versione putinista in Ucraina l’esercito porta avanti una «operazione speciale», nel quadro ben più ampio della «guerra» in corso con l’occidente.
È una distinzione completamente artificiale. E mostra tutta l’ambiguità con cui il Cremlino affronta questa delicata fase. In questa traccia devono essere inserite le parole usate ieri nella cerchia di Putin di fronte al nuovo passo che la Finlandia ha compiuto verso la Nato. «Adotteremo tutte le misure necessarie per garantire la nostra sicurezza», ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, secondo il quale il tenore della reazione dipenderà «dalla vicinanza delle infrastrutture dell’Alleanza ai confini russi».
SECONDO IL MINISTRO degli Esteri, Sergei Lavrov, «la Nato vuole creare un nuovo fronte contro la Russia». Ma il più severo è stato l’ex presidente ed ex premier Dmitri Medvedev, che ha collegato il caso Finlandia a quello Ucraina. Per Medvedev, «mandare armi a Kiev, attrezzare le truppe ucraine con equipaggiamento occidentale, inviare mercenari e organizzare esercitazioni vicino ai nostri confini aumenta la possibilità di un conflitto aperto tra la Nato e la Russia, dopo la guerra per procura che l’Alleanza già conduce».
Avverte, quindi, Medvedev: «Questo tipo di conflitto rischia sempre di trasformarsi in una guerra nucleare. Lo scenario è catastrofico per tutti».
MEDVEDEV È IL NUMERO due del Consiglio di sicurezza, l’organismo che comprende le massime figure istituzionali del paese. È la figura pubblica che negli ultimi mesi ha mostrato maggiore aggressività nei rapporti con i governi europei.
Nel 2008, quand’era salito al Cremlino, aveva alimentato le speranze di apertura della Russia, forse per il semplice fatto di non essere Putin. Oggi, dopo un lungo periodo non proprio alla ribalta, è fra gli uomini più in vista sulla scena politica, grazie anche ai numerosi attacchi a quello che a Mosca è definito oramai «occidente collettivo». Un mese fa si è rivolto al presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, chiamandola «zietta europea».
L’Unione, ha detto allora, non vuole ridurre in alcun modo le sofferenze del popolo ucraino: con le sanzioni cerca soltanto di spingere la Russia verso la catastrofe finanziaria, ma la catastrofe potrebbe avvenire in Europa, anziché nel nostro paese. Il ragionamento sull’ingresso della Finlandia nella Nato e sulle minacce al confine segue lo stesso schema. Voi cercate di danneggiarci, ma potreste diventare vittime delle vostre stesse azioni.
NEL CONCRETO, la prima contromisura i russi potrebbero adottarla sul piano energetico. Secondo il quotidiano finlandese Iltalehti il governo di Helsinki ha saputo che Gazprom potrebbe tagliare le forniture di gas a partire già da oggi, con un paio di settimane di anticipo rispetto alla scadenza del 23 maggio entro la quale il Cremlino ha fissato il pagamento in rubli per il suo combustibile. Gazprom ieri ha fatto peraltro sapere che smetterà di usare la sezione polacca del gasdotto Yamal, una infrastruttura strategica per la sicurezza europea.
Mercoledì era stata l’Ucraina a bloccare i trasferimenti sul suo territorio citando problemi di sicurezza in quella che è parsa, però, una decisione sostanzialmente politica, il cui obiettivo è ottenere maggiore impegno dall’Europa sulle questioni che legano Kiev e Bruxelles.
Così l’Unione perde rapidamente quote di gas per il suo fabbisogno. E i colloqui sul nuovo piano energetico europeo riprenderanno solamente mercoledì.
LA RISPOSTA DI MOSCA. Gazprom: stop all’export verso l’Ue attraverso la Polonia
La stazione di compressione del gas naturale russo a Mallnow, vicino al confine tedesco-polacco - Ap
Mentre i paesi Ue non riescono a mettersi d’accordo sul sesto pacchetto di sanzioni alla Russia che dovrebbe imporre un embargo sul petrolio, Mosca contrattacca sul gas. E crea il caos. È da due giorni che Gazprom diminuisce l’erogazione di gas attraverso le pipeline che arrivano in Europa. Ieri, attraverso un comunicato pubblicato su Telegram, Gazprom ha annunciato il blocco del gasdotto EuRoPolGaz che attraversa Bielorussia e Polonia (è la continuazione della pipeline Yamal-Europa). Mercoledì, ci sono state contro-sanzioni russe che hanno colpito 31 società europee, Usa e di Singapore, tra cui EuRoPolGaz, che è proprietario della parte polacca della pipeline Yamal. La maggior parte delle società europee colpite dalle contro-sanzioni russe operano nell’ambito di Gazprom Germania, che Berlino ha messo da qualche settimana sotto controllo per la loro importanza strategica.
C’è anche l’ironia di Putin, che ha affermato che l’occidente soffre di più della Russia per le sanzioni imposte a Mosca: «L’occidente è guidato da ambizioni gonfiate e cieche» e da una «russofobia» che si sta traducendo in «maggiori danni ai loro interessi nazionali, alle loro economie e alla prosperità dei cittadini», ha detto.
La Ue cerca di correre ai ripari nella confusione, ieri Bruxelles ha messo allo studio un tetto ai prezzi del gas e un «razionamento coordinato». Il paese più colpito, per il momento, è la Germania, molto dipendente dal gas russo. Il ministro dell’Economia e del Clima, Robert Habeck, assicura che il Paese compensa con importazioni di Norvegia e Olanda. Da mercoledì, la pipeline Megal, che passa dall’Ucraina, ha diminuito l’erogazione del 40%. Habeck avverte: «Gli stock devono essere pieni prima dell’estate, in caso contrario il ricatto è facile» da parte di Mosca.
Per aumentare la confusione, Russia e Ucraina si accusano a vicenda. Il portavoce del Cremlino, Peskov, ha affermato ieri, imperturbabile, che la Russia «ha sempre onorato gli obblighi contrattuali e continua a farlo». Una ulteriore difficoltà per gli europei arriva dall’Ucraina, che non apre il transito Russia-Europa «se non abbiamo il controllo totale» del gasdotto Sokhranivka, da dove passa un terzo del gas verso l’Europa che transita dall’Ucraina. Ma questo gasdotto passa dal Lugansk, e Kyiv accusa la zona separatista di furti di gas. Mentre la Russia ha chiuso Sudja, che passa anch’esso dall’Ucraina, per «ragioni tecniche».
Oggi e domani, i ministri degli Esteri del G7 discutono del sostegno militare a Ucraina e Moldavia. La Finlandia, che approva l’entrata nella Nato, è già sotto minaccia della Russia, che annuncia una risposta «militare-tecnologica», che comprende anche il taglio del gas. Il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, chiede con insistenza agli europei di «tagliare l’ossigeno energetico» alla Russia. Ma, dopo la chiusura del gas a Polonia e Bulgaria, perché hanno rifiutato di sottomettersi al doppio conto da Gazprom e di pagare in rubli, molte società importatrici nella Ue continuano a navigare in una «zona grigia» (come ha ammesso Draghi) e chiedono a Bruxelles di chiarire.
La Ue rifiuta il doppio conto e sostiene che si può pagare in euro o dollari, come stabilito nei contratti, aggiungendo una dichiarazione che stabilisce la fine della transazione, così GazpromBank può poi fare la conversione in rubli. Ma le contro-sanzioni russe di queste ore rimettono tutto in discussione.
Commenta (0 Commenti)«Ci siamo resi visibili ai soldati. Siamo rimasti fermi per circa dieci minuti per assicurarci che sapessero che eravamo lì come giornalisti. Non ci sono stati colpi di avvertimento, così ci siamo spostati verso il campo profughi di Jenin». Shatha Hanaysha, giovane giornalista palestinese, racconta gli ultimi minuti di vita di Shireen Abu Akleh, sua collega e modello di donna e giornalista. In quel momento era in corso un’incursione dell’esercito israeliano a copertura dell’unità scelta Dovdovan entrata nel campo profughi per arrestare un presunto militante armato del Jihad Islami. «All’improvviso abbiamo sentito il primo sparo», prosegue Hanaysha «mi sono girata e ho visto il mio collega di Al Quds, Ali Sammoudi, a terra. Un proiettile lo aveva colpito alla schiena di striscio, non era grave ed è riuscito ad allontanarsi». Quindi, aggiunge, «un altro collega ci ha detto di raggiungerlo dietro un muretto ma eravamo dall’altra parte della strada ed era rischioso attraversarla. Shireen ha urlato ‘Samoudi è stato colpito’…Proprio in quel momento, un altro proiettile le ha trafitto il collo e lei è caduta a terra proprio accanto a me. Chiunque ci abbia sparato mirava per uccidere…è stato un cecchino israeliano a spararci. Non eravamo coinvolti nel fuoco incrociato tra soldati e combattenti palestinesi come sostiene l’esercito israeliano».
Shatha Hanaysha non ha dubbi sui responsabili dell’uccisione ieri mattina a Jenin di Shireen Abu Akleh, storico volto della tv qatariota Al Jazeera nei Territori palestinesi occupati. E non ha dubbi neanche Ali Samoudi, sicuro che a far fuoco siano stati i militari israeliani nonostante i giornalisti avessero ben visibile la scritta Press sui giubbotti antiproiettili. Invece il premier israeliano Bennett, il ministro della difesa Gantz e altri rappresentanti del governo hanno subito attribuito a «miliziani palestinesi» l’uccisione della giornalista durante una «operazione antiterrorismo» a Jenin. E hanno comunicato questa versione ai governi arabi alleati. Israele ha anche diffuso video girati nel campo profughi che mostrano palestinesi che sparano ma non è chiaro a che ora o luogo siano stati fatti.
«Un salto troppo rapido alle conclusioni. Al di fuori di Israele sarà visto come il preludio a un insabbiamento» ha avvertito l’editorialista di Haaretz, Amos Harel. «Invece di diffondere accuse infondate – ha aggiunto – la cosa giusta sarebbe stata esprimere rammarico per la morte di Abu Akleh, dire che Israele sta prendendo sul serio l’accaduto e che intende condurre un’indagine approfondita». Così non è andata e l’uccisione di Shireen Abu Akleh ha il potenziale per innescare una ampia escalation. I suoi saranno domani funerali di Stato, alla presenza di migliaia di persone. E si terranno alla vigilia del settantaquattresimo anniversario della Nakba (Catastrofe) – l’esodo di 750 mila palestinesi, cacciati via o fuggiti dalla loro terra prima e dopo la fondazione di Israele – che rappresenta ogni anno un momento di mobilitazione, rabbia e dolore per milioni di persone.
La morte di Abu Akleh è già un simbolo della causa palestinese e parte della battaglia per la libertà di stampa sotto occupazione. I dirigenti israeliani non lo capiscono. Con ogni probabilità pensano a Shirin Abu Akleh come a una giornalista palestinese qualsiasi. In Israele non si segue al Jazeera e non solo perché è in lingua araba. Le tv e i media palestinesi sono considerati irrilevanti. E i giornalisti che vi lavorano «poco attendibili e poco professionali». Giudizio condiviso da una parte della pletora di inviati e corrispondenti occidentali che arrivano a Gerusalemme carichi di pregiudizi. Gli unici reporter palestinesi che ottengono un vero riconoscimento professionale sono quelli impiegati dai media israeliani. E invece Shireen Abu Akleh era una reporter preparata e coraggiosa, stimata e ammirata nei Territori occupati e in tutto il mondo arabo. Palestinese con passaporto statunitense – ecco perché (per una volta) l’ambasciata Usa ieri è intervenuta per chiedere una indagine rigorosa sulla sua morte – viveva a Gerusalemme est e per oltre venti anni ha raccontato i momenti più importanti e critici in Cisgiordania grazie alla potenza mediatica di al Jazeera, tv che nonostante la concorrenza di Internet conserva ancora uno status speciale. Ieri migliaia di post sui social hanno ricordato i suoi reportage, i suoi servizi durante sparatorie e combattimenti, le sue pacate spiegazioni degli avvenimenti quotidiani. Abu Akleh era nota ma non ha mai cercato la notorietà a tutti i costi e aveva costruito la sua credibilità con il lavoro.
«In qualità di Relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati» diceva ieri sera Francesca Albanese al manifesto «non posso che esprimere parole di ferma condanna e rammarico per l’uccisione della giornalista Abu Akleh, l’ennesima morte di un giornalista (palestinese). Il bilancio è salito a venti e a oltre cento i feriti durante l’occupazione israeliana dei territori palestinesi. Serve giustizia e una inchiesta rigorosa e trasparente che assicuri alla giustizia i responsabili di questa e delle uccisioni precedenti». Inchiesta che i palestinesi vorrebbero svolta dalla procura della Corte penale internazionale. Israele ne propone una con l’Autorità nazionale palestinese.
RITRATTI. La scomparsa dello storico all'età di 76 anni. Raccontò il Novecento e l'attualità politica italiana nei suoi numerosi libri e anche dalle pagine de «il manifesto»
Lo storico Paul Ginsborg
Con la silenziosa eleganza che ne ha contraddistinto l’intera esistenza se ne è andato, dopo una malattia tanto insidiosa quanto repentina nei suoi esiti fatali, Paul Ginsborg. La sua traiettoria intellettuale si è articolata tra il Regno Unito e l’Italia, le sue due patrie, la prima di origine, l’altra di appartenenza.
Nato a Londra nel luglio del 1945, quando il paese stava uscendo da una guerra pressoché totale, aveva studiato al prestigioso Queens’ College di Cambridge, proseguendo successivamente come Fellow al Churchill College. Il suo insegnamento è sempre stato sospeso tra la passione per la storia moderna e contemporanea e l’afflato sociologico.
A PARTIRE dagli anni Ottanta si era trasferito in Italia, dove aveva svolto attività di docenza a Siena, Torino e poi a Firenze. Nell’ateneo di quest’ultima città aveva quindi insegnato storia dell’Europa contemporanea dal 1992 fino al pensionamento, avvenuto nel 2015. L’attenzione per le dinamiche continentali e per quelle italiane hanno costituito il fuoco del suo lavoro. Così come l’identificazione con il nostro Paese, del quale era diventato cittadino nel 2010. Le sue opere «italiane» risalgono al 1978, con uno studio su Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49.
Tuttavia, i testi più importanti sono quelli che l’hanno reso noto al di là del tradizionale pubblico accademico. Si tratta di una serie di volumi, itineranti tra il rigore dell’analisi scientifica e l’urgenza dell’intervento civile, con i quali ha cercato di mettere a fuoco i caratteri più recenti della società italiana. In particolare i lavori pubblicati da Einaudi, a partire dalla Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, uscito nel 1989 e più volte ristampato nonché aggiornato, passando per L’Italia del tempo presente e la curatela dell’Annale einaudiano dedicato al Risorgimento. Insieme, infine, all’ultima opera di maggiore impatto analitico, Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950.
A QUESTE OPERE, di maggiore densità analitica, si erano accompagnati e poi aggiunti i libri che ne qualificavano l’intervento nell’attualità. Critico severo e implacabile di Berlusconi, letto come un fenomeno di dissoluzione dei quadri repubblicani e costituzionalistici (ad esempio con il suo Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica oppure nel lavoro collettaneo, coordinato con Enrica Asquer, sul Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere), si era ripetutamente dedicato alla riflessione sul rapporto tra istituzioni, società e cultura civile.
Il timbro britannico, e con esso la necessità di mantenere un profilo che non fosse totalmente travolto dalle passioni politiche, nei fatti si era notevolmente stemperato con l’adesione alla stagione dei movimenti, quella che a partire dalla dissoluzione dei partiti della Prima repubblica, dall’emergere del populismo e dal ritorno di politiche di impronta patrimonialista e autocratica, rivendicava l’impossibilità di rispettare il distacco tra impianto teoretico e impegno civile.
A tale riguardo, Ginsborg coglieva lo smarrimento di quel composito aggregato sociale che anch’egli era andato definendo come «ceto medio riflessivo», dinanzi alle fratture e alle lacerazioni prodotte dalla transizione da un’organizzazione industriale a società dove l’immaterialità era un campo di costruzione non solo di egemonie ma anche di domini.
LA SUA INTERPRETAZIONE della lunga età di Berlusconi, dal 1994 fino agli anni più recenti, si inserisce infatti dentro una tale cornice, nella quale ritornano anche gli echi, emendati tuttavia dell’ideologismo originario, di una riflessione a tutto campo sulle fragilità civili del nostro Paese. Lo studioso era infatti molto attento, posta la sua sensibilità sociologica, ad evitare le trappole di un discorso declinato meramente sul piano dell’antropologia negativa, dove invece prevalgono le caratterizzazioni stereotipate sui presunti «caratteri» nazionali.
È difficile iniziare a parlare da subito di un’eredità di Paul Ginsborg qualora il suo magistero intellettuale, e la sua attività politica, non vengano messe in relazione con l’affermarsi, nello stesso arco di tempo, delle suggestive ma inconsistenti ipotesi di una «terza via», quella propugnata da Anthony Giddens e fatta propria da Tony Blair. Nel mentre quest’ultima attraversava una buona parte di ciò che era rimasto dei partiti socialisti e della sinistra europea, di fatto svuotandone completamente la residua identità, Paul Ginsborg si stava scoprendo animatore intellettuale dei gruppi dei girotondini, divenendo poi uno dei fondatori di Libertà e Giustizia.
L’intero suo lavoro culturale ci restituisce una serie di intensi fotogrammi su un lunghissimo tempo, quello della transizione e dell’impotenza, avviatosi già con la fine degli anni Settanta e per nulla conclusosi nel nostro Paese.
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INTERVISTA. Secondo Fabio Musumeci, presidente dell’Aic, la soluzione più semplice per risolvere il problema dei rigiuti, anche a Roma, è il compostaggio: «Diffuso e di comunità è un omaggio alla ragione e all’ecologia»
A Roma l’eterna crisi dei rifiuti ha finito per alimentare l’emergenza cinghiali, attirati dagli scarti organici – come se non bastassero topi e gabbiani. In un dettagliato articolo (pubblicato dal Centro per la riforma dello Stato e nello studio realizzato dall’Associazione italiana compostaggio, dall’Isde e dal Movimento Legge rifiuti zero), il ricercatore Fabio Musmeci, che dell’Aic è presidente, ha invocato l’applicazione di «un principio base della scienza moderna, noto come rasoio di Occam: ovvero non vi è motivo per complicare ciò che è semplice». La soluzione più semplice – ed economica – è il compostaggio, la tecnica per controllare, accelerare e migliorare il processo naturale aerobico (in presenza d’ossigeno) a cui va incontro qualsiasi sostanza organica in natura.
Musumeci, come riassume la non-gestione degli scarti organici nella capitale?
Da Roma, camion essenzialmente pieni d’acqua (il 70% dei rifiuti organici) viaggiano verso il nord per raggiungere impianti di trattamento. Attuali destinazioni, per quanto si riesce a sapere: Bioman (Pordenone), Sesa e Herambiente (Emila Romagna). L’impianto Ama di Maccarese (Fiumicino) funziona essenzialmente solo come «trasferenza» verso questi siti.
E come soluzione, il comune di Roma chiede i soldi del famoso Pnrr per costruire due grandi biodigestori: mega-opere per l’estrazione di gas a scopi energetici.
Fra le soluzioni possibili, compostaggio o biogas, preferisco di gran lunga la prima, che oltretutto è più economica. Ecco perché. Un digestore produce, oltre al biogas (per il 50% – in volume – si tratta di metano), il digestato: il residuo della digestione. Alcuni impianti, denominati integrati, fanno seguire alla digestione anaerobica un trattamento del digestato in modo da recuperare anche un po’ di materia. Nella scala gerarchica delle priorità nella gestione dei rifiuti, il recupero di materia viene prima del recupero energetico. Dunque, per essere preferibili, gli impianti di digestione devono essere accompagnati dalla successiva fase di compostaggio. Esistono infatti gli impianti integrati anaerobico-aerobico. Ma il loro recupero di materia è intorno al 16%: molto meno della metà di quanto ottenibile dagli impianti di solo compostaggio (per i quali il rapporto rifiuti dell’Ispra stima una resa media in ammendante pari al 43,7% di quello che entra). Se guardiamo a strutture reali, in quella di Sant’Agata Bolognese che l’amministrazione capitolina cita come esempio da imitare, la produzione di «ammendante compostato misto» (Acm) è inferiore al 14% di quanto ricevuto in input, secondo il Rapporto Rifiuti Ispra 2021. E non viene indicato, nel succitato rapporto, il destino del 44% (58.761 t/anno su 132.214 t/anno di rifiuto in entrata) classificato come scarto: probabilmente discarica o inceneritore. In altri termini, un impianto di biodigestione è il prodromo di destinazioni ormai inaccettabili. E non finisce qui. Naturalmente il sistema di raccolta è basato su grandi cassonetti stradali. Inoltre, le cifre dichiarate di produzione di metano sono ridicole rispetto ai fabbisogni presenti in un sistema (quello del gas) dal quale sarebbe il caso di uscire prima possibile. Sant’Agata Bolognese produce gas per poco più di 7.000 famiglie. Vi è poi la questione delle grandi dimensioni di questi impianti e dei relativi impatti. Infine, senza sovvenzioni i biodigestori non avrebbero una sostenibilità economica.
In omaggio alla prevenzione dei rifiuti, oltre a evitare gli sprechi alimentari si possono intercettare gli scarti organici senza che arrivino ai sistemi di gestione. Ci sono esempi virtuosi in grandi comuni?
Purtroppo non abbiamo visto recenti adozioni di piani per la riduzione del conferimento rifiuti. I sistemi di autocompostaggio (non solo il domestico ma anche quello adottabile da grandi produttori privati) non sono supportati. A Roma, l’Ama non distribuisce più (da qualche anno) le compostiere domestiche. Lo scarto organico può essere trattato localmente, presso lo stesso produttore (anche utenze non domestiche); oppure a livello di condominio, consorzio ecc. (compostaggio di comunità); oppure può essere raccolto e conferito a un piccolo impianto locale dallo stesso furgone di raccolta, evitando comunque il trasporto a un impianto remoto. Grandi comuni come Tivoli hanno coraggiosamente avviato il cammino virtuoso del compostaggio diffuso e di comunità. Invece le compostiere elettromeccaniche acquistate da Ama con il bando regionale del 2017 non sono state ancora poste in opera!
Il compostaggio è l’unico futuro eco-logico per gli scarti organici?
Sì. L’uso del bene che ne deriva, il compost, è importante non solo in agricoltura e nella florovivaistica, ma anche nella strategia complessiva di lotta al cambiamento climatico, nella sostituzione di materiale non rinnovabile (come la torba) o di prodotti agrochimici, nei sistemi di riduzione alla fonte dei rifiuti prodotti, nell’aumento della ritenzione idrica del suolo e nella lavorabilità dei terreni. La sfida è interna all’uscita dalla società della combustione (anche la combustione di risorse ritenute rinnovabili) e dell’usa e getta.
Ha spiegato molte volte che il piano nazionale di prevenzione dei rifiuti è vago e privo di obiettivi, e che le aziende leader fanno una politica basata su grandi impianti. Un comune come Roma, se volesse uscire dalla crisi, come dovrebbe fare?
Bisognerebbe insistere sulla raccolta «porta a porta» passando anche a una tariffa puntuale estesa all’organico. In questo modo, ognuno pagherebbe il servizio (numero di svuotamenti) che viene richiesto e si supporterebbe l’adozione dell’autocompostaggio e dei sistemi di essiccazione volti a diminuire la frequenza e i volumi da conferire. Per fortuna Acea si sta muovendo con il proprio progetto di compostaggio diffuso, intercettando il fabbisogno di grandi produttori. La principale difficoltà che si incontra è quella di accettare una visione moderna del servizio fatta essenzialmente della personalizzazione dell’offerta utilizzando una miriade di strumenti. Occorre un cambio di mentalità, un passaggio da un approccio capital intensive (pochi impianti con pochi operai) a uno labor intensive (molto lavoro di «cura» diffuso). Un confronto con il tema del lavoro che le grandi aziende faticano ad approcciare.
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