Reportage. In viaggio con gli Ospedalieri, l’unico battaglione di volontari ucraini che non combatte, sul bus-ambulanza utilizzato per trasferire nelle retrovie i soldati feriti in battaglia. Il loro motto è «per ogni vita»
L’interno dell’"austriaca", il pullman del Battaglione Ospedalieri, durante il tragitto effettuato ier - Vincenzo Circosta
Lo chiamano «l’austriaca», è un pullman di quelli da viaggio internazionale con lettini da ospedale al posto dei sedili, barelle nel vano dei bagagli e personale medico a bordo. Serve per evacuare i soldati feriti dal Donbass verso gli ospedali del centro dell’Ucraina, soprattutto a Dnipro, e fa il lavoro di 10 ambulanze.
L’HANNO CHIAMATA COSÌ in onore di una volontaria che aveva quel soprannome e che è morta in un’incidente qualche mese fa e dal fatto che l’hanno prodotto in Austria. Negli ultimi tempi percorre i 400 km di strada andata e ritorno quotidianamente, a volte anche due volte in un giorno solo.
L’equipe è composta da un dottore, da 4 o 5 paramedici e un autista-barelliere. Sono tutti volontari, nel senso che nessuno li paga e hanno altri lavori che tornano a svolgere dopo 15 giorni. Tanto dura una rotazione di quello che si è strutturato dal 2014 come il «Battaglione degli Ospedalieri».
«L’ospedale è pieno… e ogni giorno ne arrivano altri: mutilati, ragazzi con gli organi maciullati dalle bombe, altri senza un occhio» racconta Andriy, un capitano ucraino ferito al braccio che incontriamo nell’ospedale centrale di Dnipro. Il suo nome di battaglia era «l’italiano» perché ha lavorato 6 anni a Ischia e infatti parla con un forte accento campano, ma ci tiene a sottolineare che è ischitano, non napoletano. Il padrone del ristorante si chiamava Pasquale («lui sì che era napoletano», sottolinea) e quando ha raccontato ai suoi soldati quanto fosse cattivo con lui il padrone, i suoi sottoposti gli hanno detto che deve comportarsi con i russi peggio di come Pasquale faceva con lui. E quindi ora in trincea lo chiamano Pasquale. In ogni caso, Andriy-Pasquale ci racconta che molti dei suoi «ragazzi» aspettano ancora di essere trasferiti, «fuori da Pokrovsk è diventato un inferno».
SASHA, IL DOTTORE che domani finirà le sue due settimane, è un traumatologo di circa 35 anni che si è unito agli Ospedalieri perché cercava un modo di aiutare «la sua gente» senza dover entrare nell’esercito. La madrina di tutti è Natalia, una donna di 65 anni che è stata prima nell’esercito e poi, quando l’hanno mandata in pensione – e ci tiene a sottolineare che è stato contro la sua volontà – si è arruolata negli Ospedalieri per continuare a «fare la sua parte». Fino a quando? «Finché il fisico me lo permetterà, non voglio essere un peso per gli altri».
A bordo ci sono anche Tanja, tecnico informatico, Kristia, operatrice sociale, il giovane Vitja, studente, e Ruslan il conducente che forse non stacca mai e serpeggia tra i check-point come se avesse una Smart, ma la squadra si fida di lui e i malati non si lamentano. Hanno tutti una preparazione medica e sono in grado di prestare assistenza di base, ma è il dottore a decidere.
QUANDO ARRIVA LA CHIAMATA al centro operativo, che si coordina con il comando militare orientale per gli elenchi dei feriti, con l’amministrazione militare per le licenze e con gli ospedali di destinazione per i posti disponibili, si parte. Troviamo Vitja steso a riposare su uno dei lettini, le donne sedute a chiacchierare in fondo, nella parte che poi spetterà ai malati meno gravi, e Sasha ad accoglierci. «Gli Ospedalieri esistono dal 2014 grazie alle donazioni private dei nostri sostenitori ucraini e internazionali, senza quei soldi potremmo resistere solo per poco: la benzina, i medicinali, le attrezzature mediche sono molto costose».
A differenza degli altri battaglioni di combattenti creati a partire dalla guerra con le repubbliche separatiste, questo non è stato inquadrato nell’esercito e non combatte. Il loro motto è «per ogni vita».
Raggiungiamo una clinica a una trentina di chilometri da Pokrovsk e qui troviamo una folla di feriti ad attenderci. Molti hanno ancora indosso l’uniforme segnata dalla vita di trincea, alcuni invece portano pantaloncini di una taglia errata, la maggior parte è in ciabatte.
LE FERITE vanno da un arto rotto a emorragie dovute a schegge da estrarre, molti necessitano di chirurgia. I più gravi sono portati su 6 barelle: sono un ufficiale e il suo sottoposto di una compagnia di stanza in quel poco che resta del Lugansk, un ragazzo con un occhio bendato che continua a perdere sangue dalla ferita e ha dormito tutto il tempo, un uomo sulla 50ina che è scampato miracolosamente a un drone ma ha il corpo crivellato e un soldato appena arrivato da Pokrovsk più morto che vivo. «Non prendiamo casi disperati» spiega Sasha, «se c’è il rischio che qualcuno muoia a bordo non possiamo portarlo perché non abbiamo l’attrezzatura necessaria».
Dunque l’uomo forse non sta per morire ma non si muove, la testa è gonfia come un pallone e interamente fasciata, per chiedergli come sta gli portano un cartello plastificato con delle faccine che vanno da triste a sorridente e dei numeri da 1 a 10 e lui indica con gli occhi come si sente. Lo fanno bere da una cannuccia e per tutte le tre ore del viaggio lo controllano costantemente.
SEDUTI CI SONO DUE MILITARI con il collare. «Avevamo l’ordine di proteggere una postazione» spiega il soldato soprannominato Groot (come uno dei personaggi de I Guardiani della Galassia), «quando è arrivato un drone russo che evidentemente cercava altro perché all’inizio non ci ha considerato. Poi però hanno capito che eravamo gli unici lì e si rivolto verso di noi, gli abbiamo sparato con qualsiasi cosa avessimo, ma è riuscito comunque a sganciare una granata. Il mio compagno era grave, l’ho trascinato per quanto ho potuto, poi per fortuna ci sono venuti a prendere». Svat (il genero, ndr), ha una barra di metallo che esce dalla fasciatura, non muove più l’avambraccio e il polso, anche lui è stato ferito da un drone.
Garfield, un ufficiale, è svenuto dopo un bombardamento aereo, ha varie schegge di granata conficcate nel corpo, gli hanno installato il catetere perché non riesce a urinare ma la sacca di plastica a un certo punto si è bucata e il suo lettino è diventato una pozzanghera giallastra che i volontari hanno subito ripulito senza un gesto di disappunto. Il soldato che gli è steso accanto gli ha salvato la vita, dopo averlo portato in trincea ha ricevuto l’ordine di tornare in posizione ma ha messo il piede su una mina. Le sue gambe sono coperte e non sappiamo se ricomincerà a camminare, lui è ottimista. È l’unico che dice: «Se potessi non tornerei laggiù».
GLI ALTRI SI DICHIARANO PRONTI a tornare, Garfield addirittura dice che l’adrenalina che gli dà la guerra la usa per ammazzare i russi invasori e che ciò gli dà piacere. Anche Taras l’ischitano non vede l’ora di tornare, «però magari la convalescenza la faccio a casa con la famiglia».
Un soldato scampato a un bombardamento non sente più, si guarda intorno costantemente e fissa tutti. Sorride quando gli chiediamo se vuole dire qualcosa. «Un’intervista? Ci sarebbe da scrivere un romanzo qui». I feriti appena hanno un secondo fumano, gli infermieri degli ospedali gli fanno ombra sulla testa con la mano e gli tolgono la sigaretta prima che la cenere gli cada in faccia. Una vecchia babushka con un’uniforme da infermiera antica come la sua faccia di cuoio si arrabbia quando trasferiscono un soldato sul lettino del pronto soccorso: «Dovete essere delicati con loro»