A Roma torna a sfilare la comunità Lgbt+ e non solo. La pace declinata con il rispetto della diversità. «E ora subito una legge»
Alcuni momenti del Roma Pride 2022 - G.Mau
Contro il silente deserto dei diritti che solo qualcuno può chiamare pace, torna il rumore del Pride. Orgoglio del proprio orientamento sessuale, orgoglio della propria identità di genere, orgoglio del proprio corpo in transizione da esibire ancora con i cerotti della post chirurgia, orgoglio di vivere in un Paese – e soprattutto in un’Europa – dove ancora c’è o dovrebbe esserci spazio per reclamare i propri e gli altrui diritti. Orgoglio di portare i colori dell’arcobaleno, che mai come quest’anno diventano duplice simbolo di pace e di diritti civili. Inscindibili. Non c’è l’una senza gli altri. Dopo due anni di silenzio, torna a sfilare a Roma (ma anche a Genova, Bergamo e Dolo contemporaneamente, e da qui fino al 24 settembre l’Onda Pride 2022 investirà anche molte altre città italiane) il popolo Lgbtqia+. E non è solo.
«SIAMO TORNATI, siamo tanti, a fare rumore», urla la cantante Elodie, madrina di questa edizione, dal suo sound truck, uno dei quindici che hanno sfilato insieme a centinaia di migliaia di persone per le strade della capitale. È una festa e una manifestazione, c’è leggerezza e profondità, ma non c’è rabbia. Pura consapevolezza. Che a qualcuno non va giù, come quel tale che a bordo di un grosso suv percorre le vie che lambiscono la manifestazione sparando a tutto volume «Faccetta nera». Ma era lui la pecora nera; la gioia e l’orgoglio l’hanno seppellito vivo.
DIETRO LO STRISCIONE di apertura «Torniamo a fare Rumore» sfilano insieme a Vladimir Luxuria e per tutto il tragitto, da piazza della Repubblica fino a Piazza della Madonna di Loreto, il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri (a coprire un vuoto che durava da cinque anni), il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini e molti minisindaci, amministratori comunali e regionali, parlamentari. Ci sono rappresentanti del Pd e di +Europa, dei Radicali e perfino un cartello che rivendica il «Comunismo queer». Il serpentone rainbow si apre al grido: «Sempre orgogliosi e orgogliose, sempre antifascisti e antifasciste». Ma è in quei corpi – giovani e vecchi, di bambini e di malati, nelle carrozzine o sulle sedie a rotelle – che sembra abbiano atteso tutta la vita per esibirsi, per esibire i propri desideri, le proprie pulsioni e la propria identità, che si concretizza quell’essere antifascista.
«ESSERE QUI È DOVEROSO. Roma deve essere in prima fila per i diritti e contro ogni discriminazione», dice ai cronisti Gualtieri, che a proposito di pace aggiunge: «Dobbiamo oggi stare vicini a tutte le persone che sono vittime non solo di questa guerra di aggressione della Russia di Putin ma anche delle politiche di discriminazione contro i diritti e la comunità Lgbt in Russia. Oggi dobbiamo essere vicini anche a loro». E Zingaretti: «Il Pride è soprattutto un’esplosione di vita, di voglia di rapporto con gli altri. Non può che far bene a tutte e a tutti, anche a chi non è venuto. Il diritto alla differenza e all’essere se stessi è un sentimento positivo».
L’«AFFOLLATA presenza di politici nazionali e locali al Roma Pride» è ben vista dal portavoce del Partito Gay-Lgbt+, Solidale, Ambientalista e Liberale, Fabrizio Marrazzo, che però chiede «azioni concrete e non solo passerelle». Per questo, aggiunge, «dopo il fallimento della legge al Senato contro l’omotransfobia abbiamo chiesto ad oltre 100.000 consiglieri Regionali e Comunali, appartenenti a circa 8 mila enti, di fare un gesto concreto per la comunità Lgbt+.
Come azione concreta chiediamo di approvare la nostra proposta di delibera che può sanzionare con una multa di 500 euro studenti, docenti, lavoratori e chiunque fa propaganda di odio o discrimina le persone Lgbt+, donne e persone con disabilità, come oggi già avviene per chi lo fa contro neri ed ebrei ad esempio, anche in assenza di una legge nazionale, grazie a delibere regionali e comunali valide nei territori di competenza». Un modo per superare «l’immobilismo del Parlamento».
Inoltre, dice, «il ricavato delle sanzioni andrà a costituire un fondo a disposizione degli Enti per pervenire l’odio contro le persone Lgbt+». Mentre la Casa Internazionale delle Donne chiede l’approvazione immediata del ddl Zan, per il segretario generale di Arcigay Gabriele Piazzoni, «i quasi cinquanta Pride italiani di quest’anno, un record in Europa, sono il contrappeso del nulla di fatto della politica. Esiste in Italia un’emergenza diritti che riguarda le persone lgbtqi+ e tutti i gruppi sociali discriminati. È un’emergenza, che provoca solitudine, fragilità, violenza, abbandono, ostacoli».
ERA IL LONTANO 1994 quando il Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, con l’Arcigay, diede vita al primo Gay Pride a Roma. Eppure quello che ha sfilato finalmente di nuovo nelle strade romane ieri sembrava animato da uno spirito rinnovato. Amore e politica. Peace and love. Stop the war. «Pride to be in Europe», «Fuori dal medioevo».
C’è per la prima volta il colorato e chiassoso carro della comunità Lgbt+ ebrea #proud&jews, c’è lo spezzone Cristiani Lgbt, ci sono gli «Anziani» gay e lesbiche, ci sono i trenini con i bambini delle famiglie arcobaleno, c’è l’Agedo (famiglie e amici di persone lgbt+), ci sono le rappresentanze delle federazioni di rugby e di volley. C’è – anche questa una primizia – il carro di rappresentanza del Regno unito firmato Great Love is for everyone con l’Ambasciatore britannico in Italia, Ed Llewellyn, da poco arrivato in Italia e già impegnato nella difesa dei diritti delle minoranze. Music made in Britain, of course.
E c’è il sound truck della Cgil: «Solo la pace», porta scritto. Perché? «Perché senza diritti la pace è un deserto».
CRISI UCRAINA. Dnipro è il nuovo crocevia di chi fugge dal Donbass. A processo nel Donetsk un altro combattente straniero
Soldato ucraino manovra un drone che mostra la posizione dei russi a Severodonetsk - Ap/Oleksandr Ratushniak
Mentre l’esercito ucraino e quello russo si contendono i territori del Donbass continua la fuga dei civili verso ovest. Ieri più di 300 persone sono state evacuate da un treno speciale partito da Pokrovks e diretto verso Dnipro. Se durante la prima fase della guerra Leopoli era diventata il principale centro di raccolta e partenza dei profughi di tutto il Paese, ora che stiamo per entrare nel quarto mese di ostilità Dnipro viene identificata sempre più come il crocevia obbligato di quanti cercano scampo dal tragico contesto del fronte orientale. Il treno partito da Pokrovks ospitava sfollati di Severodonetsk, Slovjiansk, Bakhmut e Popasna. Ovvero dai principali centri degli oblast di Donetsk e Lugansk interessati dagli scontri nelle ultime due settimane. A Severodonetsk, che al momento sarebbe per un terzo sotto il controllo ucraino, ieri è stato bombardato di nuovo l’impianto chimico “Azot”, ormai famoso per esser diventato il più grande rifugio della città. Secondo il governatore regionale, Serhiy Haidai, intervenuto alla televisione nazionale dopo l’attacco, gli ordigni avrebbero scatenato un «potente incendio» causato da una perdita di tonnellate di petrolio. Al momento non è chiaro se l’incendio sia stato domato e quale sia il numero delle vittime e dei feriti.
PROPRIO SU QUESTE CITTÀ si è soffermato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, nel suo consueto video-messaggio notturno alla nazione, dichiarando che «la Russia vuole distruggere ogni città del Donbass». «Non è un’esagerazione» ha spiegato Zelensky, «come Volnovakha e Mariupol che oggi sono rovine di città un tempo felici» dove si vedono solo «le tracce nere degli incendi e i crateri delle esplosioni». «Questo è tutto ciò che la Russia può dare ai suoi vicini, all’Europa e al mondo» ha concluso il presidente, insistendo ancora una volta sulla necessità di ricevere più armi Occidentali e, soprattutto, più in fretta.
SE È VERO, come affermano molti analisti internazionali, che il governo di Kiev e il suo stato maggiore iniziano a temere la disparità di potenza di fuoco rispetto agli invasori russi, bisogna anche sottolineare che le forniture di armamenti continuano ad arrivare e a essere annunciate senza sosta. Di contro, sembra che le riserve dell’esercito russo inizino a scarseggiare. Nelle scorse settimane abbiamo parlato più volte delle colonne corazzate individuate dai satelliti in direzione di Belgorod e dei depositi nei pressi della frontiera ucraina che continuavano a ricevere nuovi pezzi d’artiglieria e mezzi. Ebbene, questi mezzi ora sarebbero entrati nel Donbass ucraino attraverso le repubbliche separatiste e si sarebbero rivelati per quello che realmente sono: vecchi armamenti dell’epoca sovietica dislocati dai magazzini periferici della Federazione Russa e rimessi in sesto per la guerra in corso. Il problema, ed è questo il principale motivo di preoccupazione degli analisti, è che queste vecchie armi sono molto meno accurate di quelle contemporanee. Di conseguenza, ci si aspetta un aumento significativo dei danni collaterali in seguito a ogni attacco insieme a un numero di morti molto maggiore.
LE AUTORITÀ della repubblica separatista di Donetsk hanno poi annunciato che un altro combattente straniero catturato a Mariupol sarà sottoposto a un processo per «tentato sovvertimento dell’ordine repubblicano». L’uomo, un cittadino sudcoreano catturato insieme ad altri combattenti della legione straniera ucraina, sarà sottoposto a processo nella città di Donetsk nei prossimi giorni, come rivelato dall’agenzia russa Interfax, che non ne ha specificato il nome. Il 9 giugno i primi tre combattenti stranieri processati, due inglesi e un marocchino, erano stati giudicati dallo stesso tribunale e condannati alla pena capitale.
INTANTO, A POCA DISTANZA dal confine, nella regione di Kharkiv, continuano i bombardamenti. Il sindaco di Kharkiv, Igor Terekhov, ha dichiarato che la città, considerata un obiettivo militare fondamentale nelle prime fasi dell’invasione russa, continua a subire bombardamenti regolari. «L’intensità dei bombardamenti è diminuita» ha spiegato il sindaco, «ma in città vengono utilizzate bombe e razzi di maggiore potenza. La distruzione che vediamo oggi è molto, molto grave». Secondo Terekov la volontà di Mosca sarebbe quella di sabotare il «ritorno alla normalità di Kharkiv». In seguito agli ultimi bombardamenti, secondo i servizi di emergenza regionali, almeno due civili sono stati ricoverati in ospedale. Venerdì le squadre di emergenza hanno rinvenuto altre vittime a Derhachi, una città situata 12 chilometri a nord-ovest di Kharkiv, che è stata bersaglio di una serie di pesanti attacchi nelle ultime settimane. Anche Sumy è stata nuovamente colpita e il bollettino di sabato ha fatto registrare tre nuovi morti nei villaggi intorno al capoluogo regionale.
UCRAINA. Donbass a ferro e fuoco, i vertici ucraini chiedono i missili a lunga gittata per resistere. Zelensky ospite d’onore al summit Nato? C’è il timore che il protrarsi del conflitto, con il rischio di un calo di attenzione, giochi a favore del Cremlino
10 giugno, gli effetti dei bombardamenti russi a Avdiivka, nell’oblast di Donetsk -
Polizia ucraina/Ansa
«Ora è una guerra di artiglieria, tutto dipende da ciò che l’Occidente ci fornisce». Si è espresso così Vadym Skibitsky, vice-capo dell’intelligence militare ucraina, in un’intervista al quotidiano inglese The Guardian. Secondo Skibitsky, nonostante le ingenti forniture di armamenti ricevute dall’inizio della guerra, al momento l’esercito ucraino avrebbe a disposizione un pezzo di artiglieria a fronte di 10-15 pezzi russi.
Inoltre, sulla stessa linea del suo governo, il funzionario di Kiev ha insistito sull’importanza dei sistemi missilistici a lungo raggio che permetterebbero alle truppe ucraine di distruggere l’artiglieria russa da lontano senza rischiare uomini e mezzi.
LE DICHIARAZIONI di Skibitsky sembrano frutto di indicazioni programmatiche più che di un’elaborazione personale in quanto, sempre ieri, Associated Press ha riportato che alcuni funzionari governativi di Kiev hanno espresso il timore che lo spettro della «stanchezza da guerra» possa erodere la determinazione dell’Occidente ad aiutare il Paese a respingere l’aggressione di Mosca.
Fino a oggi i paesi della Nato con gli Usa in testa hanno rifornito gli arsenali ucraini per miliardi di dollari e anche dal punto di vista mediatico l’Occidente si è mosso con una voce quasi univoca. Alle soglie del quarto mese di guerra, tuttavia, si fa spazio la possibilità che Mosca possa scegliere di prolungare intenzionalmente il conflitto per approfittare del probabile calo di interesse da parte degli alleati di Kiev e riuscire a imporre un “cessate il fuoco” alle proprie condizioni.
Vadym Skibitsky, intelligence militare
Ora la guerra è diventata una questione di artiglieria, tutto dipende da ciò che l’Occidente ci fornisce
L’Ucraina non può d’altro canto continuare a perdere un numero così alto di soldati per molto tempo, così come hanno confermato lo stato maggiore di Kiev e il presidente Zelensky stesso. La difesa del Donbass sta costando molto cara in termini di vite umane e, sebbene i russi abbiano dimostrato ancora una volta di avere seri problemi tattici, in un conflitto prolungato i numeri contano eccome.
LA POSSIBILITÀ DI FAR RUOTARE le truppe al fronte e di stanziare continuamente uomini freschi è un’arma in più del Cremlino e, forse anche per questo, Putin sembra non avere nessuna fretta di sedersi al tavolo dei negoziati. Anche perché nell’est dell’Ucraina il suo esercito continua ad avanzare. Lentamente, certo, ma senza concedere riposo ai difensori. Ieri, secondo lo stato maggiore ucraino, le forze russe sarebbero riuscite a occupare nuovi territori nei pressi di Komyshuvakha, un villaggio vicino alla città di Popasna (Lugansk), e nel villaggio di Roty (Donetsk).
Inoltre, i tentativi di oltrepassare il fiume Seversky Donets non sono affatto cessati. Si consideri che, per insidiare via terra la città di Slovjansk, riuscire a stabilire una testa di ponte oltre il fiume è una condizione indispensabile, a meno che non si voglia aggirare l’ostacolo e risalire da sud.
Per questo, stando all’informativa del ministero della Difesa ucraina e ad alcuni analisti internazionali, a breve si potrebbe assistere a nuovi assalti nella zona di Raihorodok o nei villaggi limitrofi alla periferia nord-orientale di Slovjansk. Nelle ultime 24 ore la cittadina di Avdiivka, a pochi chilometri dalla linea del fronte, ha subito nuovi pesanti bombardamenti e almeno 2 persone sono rimaste uccise.
ANCHE NELLE REGIONI di Dnipro e Kharkiv gli attacchi non sono cessati e nella sola giornata di ieri si registrano almeno 8 morti, tra cui un bambino di 12 anni, e oltre 25 feriti. In particolare, il distretto di Kryvyi Rih sarebbe diventato oggetto di bombardamenti costanti, come riportato dal governatore dell’oblast di Dnipropetrovsk, Valentyn Reznichenko. Non è ancora chiaro se i russi tenteranno effettivamente un’avanzata in direzione della città natale del presidente Zelensky, ma i funzionari ucraini della zona ne sembrano convinti.
Nelle regioni di Kherson e Zaporizhzhia, secondo quanto dichiarato alla testata Suspilne dalla vice-premier ucraina Iryna Vereshchuk, le forze russe starebbero bloccando i civili che intendono abbandonare i territori occupati, «mentendo vergognosamente» sul fatto che in realtà questi non vogliano fuggire.
AL PROSSIMO SUMMIT della Nato il 28 e 29 giugno ad ogni modo si parlerà proprio di Ucraina e, molto probabilmente, Volodymyr Zelensky sarà l’ospite d’onore. A tale proposito, il vice-segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Mircea Geoana, ha dichiarato che in quella sede «ci si aspetta che la Nato prenda una decisione sull’Ucraina».
SEMPRE PIÙ POVERI. Un lavoratore italiano guadagna in media 15 mila euro in meno di un tedesco, 10 mila di un francese. Il tasso di part time involontario è del 62% contro il 7% della Germania: «Una vera piaga»
Operai allo stabilimento di Melfi - Foto LaPresse
Un lavoratore in Italia guadagna in media in un anno ben 15 mila euro in meno di un omologo tedesco e 10.700 in meno di uno francese. La stima è della Fondazione Di Vittorio nella sua analisi sui salari da cui si evince che la ragione principale di questo spread in busta paga è l’altissimo livello di precarietà.
La ricerca condotta dal ricercatore Nicolò Giangrande sottolinea come «pur osservando un recupero dei salari italiani rispetto al 2020 – primo anno di pandemia – , se si confronta il salario lordo annuale medio del 2021 con quello del 2019 risulta come il divario salariale tra Italia, da una parte, e Francia e Germania, dall’altra, si sia ulteriormente ampliato: la differenza con il salario francese è aumentata da -9,8 mila a -10,7 mila e con quello tedesco è cresciuta da -13,9 mila a -15,0 mila euro».
DUNQUE LA PANDEMIA ha peggiorato la situazione salariale in Italia rispetto al resto d’Europa. «Confrontando il 2021 con il 2019 si può osservare come la Spagna e l’Italia non abbiano ancora recuperato il livello salariale medio precedente l’emergenza pandemica mentre in Francia, in Germania e nella media dell’Eurozona l’aumento sia stato del +2,0% e più».
Le ragioni di quello che Giangrande definisce «la stagnazione dei salari reali che affligge l’Italia da decenni» è riassumibile con due dati nei quali l’Italia ha il record in Europa: la maggiore partecipazione dei segmenti meno qualificati al mondo del lavoro con una percentuale relativa alle professioni non qualificate che è pari a 13,0%, nettamente sopra la stessa quota registrata in Germania (7,7%), in Francia (9,8%) e nell’Eurozona (9,9%).
IN PIÙ LA QUOTA DI DIPENDENTI a termine – che ad aprile ha toccato la drammatica quota di quasi 3,2 milioni, la più alta mai registrata dal 1977 – sul totale dipendenti ha raggiunto il 16,6% (in Germania è all’11%) ma ancor di più è la percentuale di occupati a part-time involontario sul totale degli occupati a tempo parziale si è attestata al 62,8%, un livello impressionante rispetto al 7,1% della Germania, al 28,3% della Francia e 23,3% della media dell’Eurozona. Insomma, il part time involontario è la vera vergogna dell’Italia ma nessun provvedimento è previsto per combatterla.
Per il presidente della Fondazione Di Vittorio Fulvio Fammoni «quando in Europa salari e occupazione diminuiscono, in Italia calano di più, quando invece aumentano, in Italia crescono meno. Sulla media salariale – sottolinea Fammoni – incidono moltissimo i 5,2 milioini di lavoratori dipendenti (26,7%) che nella dichiarazione dei redditi del 2021 denunciano meno di 10 mila euro annui. Se nessun dipendente ricevesse un salario annuo inferiore a 10 mila euro lordi si otterrebbe immediatamente un recupero significativo rispetto alle medie salariali di altri paesi».
SECONDO LA NEO SEGRETARIA confederale della Cgil Francesca Re David «la piaga dei bassi salari può essere sconfitta solo attraverso il lavoro di qualità che vuol dire innanzitutto combattere il lavoro precario, purtroppo da anni in costante crescita con il record dei contratti a tempo determinato. Significa inoltre contrastare il part-time involontario, che fra l’altro in alcuni settori prevede un numero bassissimo di ore. Occorre poi – prosegue la segretaria confederale Cgil – rinnovare i contratti collettivi nazionali e recepire la direttiva europea sul salario minimo da definire attraverso il trattamento economico complessivo dei Ccnl firmati dalle organizzazioni maggiormente rappresentative».
INTERVISTA AL PRESIDENTE DI LEGAMBIENTE, STEFANO CIAFANI. «Il governo dovrebbe investire su tutta la filiera: centraline, software, batterie per auto, bus e tir, impianti di riciclo. Di questo non sentiamo mai parlare il ministro Cingolani»
«La presa di posizione del ministro della Transizione ecologica Cingolani, rispetto al voto in Ue sullo stop della vendita dei motori endotermici entro il 2035, è incomprensibile e fa il paio con quello che disse un anno fa quando affermò che la transizione ecologica sarebbe stata un bagno di sangue per l’automotive»: a Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, le parole del ministro non sono piaciute.
Perché la via «gradualista» del Mite non vi convince? Cingolani dovrebbe avere il coraggio di affrontare un’onda che sta montando: le grandi aziende stanno decidendo da sole quando smettere di produrre i motori endotermici, i cittadini in giro per il mondo si stanno orientando verso le auto a minori emissioni. Se stiamo fermi saremo travolti, se prendiamo coraggio proviamo a cavalcarla. Siamo un paese che, con altri, ha fatto la storia del settore nel secolo scorso, non si capisce perché il ministro
INTERVISTA AL SEGRETARIO FIOM. Il leader dei metalmeccanici Cgil: siamo l’unico paese che non affronta il passaggio all’elettrico: da Giorgetti solo incentivi all’acquisto. Noi sindacati siamo uniti: presto un’assemblea continentale dei delegati. Siamo un sindacato ambientalista, i lavoratori sono consapevoli di essere dentro un cambio storico
Un taxi della Tesla a Milano - Foto LaPresse
Michele De Palma, da due mesi segretario generale della Fiom, il voto del parlamento europeo sullo stop ai motori endotermici dal 2035 ha provocato molte reazioni negative in Italia, sia da Confindustria che da Fim e Uilm. Voi siete il sindacato più ecologista fra i metalmeccanici: quale giudizio date? Siamo sicuramente il sindacato che punta di più sull’equilibrio ambiente-innovazione ma dobbiamo dirci la verità: il voto di mercoledì non cambia il quadro. Non ha senso imprecare contro l’Ue. È esattamente il contrario: noi in Italia avevamo già 67 milioni di ore di cassa integrazione nel 2021 e anche le grandi multinazionali (Volkswagen e Stellantis) avevano già deciso autonomamente di bloccare le produzioni con motori endotermici. Il problema è che l’Italia arriva tardi: nel passato la Fiat, nel presente il governo hanno rallentato la transizione verso l’elettrico. E l’Italia è l’unico paese europeo a non avere un piano per la gestire la transizione verso l’elettrico.
Il neo segretario generale della Fiom Michele De Palma
A febbraio con Fim e Uilm e addirittura Federmeccanica formaste un’inedita alleanza per chiedere interventi al governo. Sono passati tre mesi ma i problemi sono rimasti. Sì, a quel grido di dolore il governo con i ministri Giorgetti e Cingolani ha risposto solamente prevedendo degli incentivi all’acquisto di auto. Nessun piano per la transizione: qualcuno evidentemente è rimasto sotto vuoto. Per questo ribadiamo la richiesta che ora sia palazzo Chigi, sia Draghi a convocare un tavolo sull’automotive per recuperare il ritardo accumulato e dare risposte ai lavoratori e alle imprese e gestire la transizione.
Ma, chiarito che la crisi dell’auto in Italia va avanti da tempo, quando fa le assemblee nelle fabbriche i lavoratori non le chiedono di impegnarsi per allungare le attuali produzioni a motore e diesel e mantenere il posto? I lavoratori sono consapevoli da tempo di essere dentro un cambiamento storico. Da 10 anni come Fiom chiediamo piani di conversione per chi produce motori diesel a Pratola Serra e Cento. Alla Bosch di Bari, alla Vitesco di Pisa, alla Magneti Marelli l’assenza riconversioni sta mettendo a rischio l’occupazione. Solo a Termoli abbiamo avuto una riconversione per produrre batterie con Stellantis come socio. E nel frattempo a Pomigliano e a Mirafiori si sciopera perché quel poco di produzione che si fa avviene in condizioni climatiche inaccettabili. Il tempo lasciato all’endotermico va usato per costruire il futuro. I lavoratori non vogliono morire di morte lenta, come cantava De Andrè. In Italia abbiamo una capacità installata per produrre 2 milioni di auto e ne produciamo da anni solo 400 mila.
Se il governo italiano è il più in ritardo, come sindacati siete riusciti a essere al passo con i cugini esteri? Stiamo studiando comparativamente i piani degli altri paesi e proprio qualche settimana fa a Wolfsburg nell’incontro con l’Ig Metall ho proposto una assemblea europea dei delegati: dobbiamo evitare la competizione e invece costruire cooperazione per gestire insieme l’innovazione tecnologica e salvare l’occupazione. Chiediamo un ammortizzatore sociale specifico per la transizione e investimenti su base europea per salvaguardare le fabbriche in tutti gli stati. Altrimenti il risultato negativo della transizione lo pagano solo i lavoratori mentre i bilanci anche di Stellantis dimostrano che le multinazionali continuano a guadagnare. Di questo mi auguro che Draghi abbia parlato con Macron l’altra sera.
Lo scontro lavoro-ambiente all’ex Ilva di Taranto va avanti da ben 15 anni. Sarà così anche per l’auto? Noi abbiamo sempre pensato che ambiente e lavoro possono e devono essere dalla stessa parte. Sull’ex Ilva l’accordo fra governo e Mittal che sospende per due anni l’acquisizione della maggioranza pubblica – e di cui noi sindacati non abbiamo avuto il testo – è un prender tempo che è solo perder tempo sia per l’acciaio che per l’occupazione che per l’ambiente. Per questo il 15 riuniamo tutti i delegati Fim, Fiom e Uilm per decidere come mobilitarci anche perché il 22 abbiamo ricevuto una convocazione da un dirigente del Mise, non da Giorgetti.
Ieri come Fiom eravate in piazza Vittorio a Roma per chiedere pace, lavoro e diritti. In qualche modo anticipate la manifestazione nazionale della Cgil di sabato 18 a piazza del Popolo. Per noi la pace è un obiettivo decisivo. Abbiamo fatto diverse iniziative in varie parti d’Italia insieme ad associazioni e movimenti: la Fiom e la Cgil vogliono essere protagonisti per riportare la pace al centro del dibattito assieme a lavoro e diritti. Non ce n’è mai stato così tanto bisogno.