Il contro-contrordine è stato ufficializzato ieri dal presidente Joe Biden: gli Usa forniranno all’Ucraina non già il sistema a lunga gittata Mlrs (Multiple Launch Rocket System) annunciato e disannunciato nell’arco di poche ore, ma quello a media gittata (e ad alta precisione) Himars (High Mobility Artillery Rocket System). Che poi è quanto Zelensky chiedeva a gran voce fin dall’inizio: unità mobili capaci di sparare simultaneamente 6 razzi a guida Gps, che hanno bisogno di minima “manovalanza” e appena un minuto per la “ricarica”.
Secondo gli esperti non c’è paragone con quanto è nella disponibilità degli ucraini al momento. Per questo si tratta di «un aiuto tempestivo e fondamentale all’esercito ucraino» ha detto Biden, illustrando il nuovo pacchetto di aiuti militari reso possibile dal «finanziamento aggiuntivo per l’Ucraina» approvato dal Congresso». «Benzina sul fuoco», ha commentato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, evocando poi con una perifrasi il concetto di guerra americana per procura: «La loro linea resta quella di combattere la Russia fino all’ultimo ucraino».
E LA GERMANIA? Il nuovo corso senza oscillazioni prende ulteriore slancio con l’invio anche qui di armi più moderne e potenti annunciato ieri dal cancelliere Olaf Scholz, anche qui esaudendo il desiderio di Kiev (e dell’opposizione tedesca). In particolare Berlino fornirà il sistema missilistico Iris-T in chiave contraerea. Nonché un sistema radar che dovrebbe aiutare gli ucraini a localizzare le postazioni dell’artiglieria russa, vero flagello del momento per le città assediate del Donbass.
Non è un caso che un passaggio del discorso tenuto al Bundestag dalla ministra degli Esteri Annalena Baerbock ieri abbia insistito sul fatto che «città per città, villaggio per villaggio, i russi stanno distruggendo tutto tenendosi a distanza di sicurezza». Poi la pesante accusa rivolta a Mosca, che con l’offensiva di questi giorni mirerebbe a «spopolare i territori» e a «estinguere la civiltà».
DI INCIVILE e disumano prosegue anche la “guerra del grano”, con la catastrofe che s’annuncia in vaste aree del sud del mondo per il blocco delle esportazioni ucraine e russe. Il segretario generale dell’Onu Antonio Gutierres ha seri dubbi sulla possibilità che i porti vengano sbloccati rapidamente. Sulle trattative in corso pensa che ci siano stati dei progressi «ma ancora non ci siamo, ci sono aspetti complessi, tutti interconnessi tra loro, che ostacolano il negoziato».
Quali siano queste complicanze lo racconta il punto di vista del Cremlino, ribadito sempre da Peskov: la crisi alimentare è tutta colpa delle sanzioni occidentali – che colpiscono anche le esportazioni russe di cereali e fertilizzanti – e delle mine ucraine che infestano le acque. Su questo Mosca ha annunciato anche la disponibilità della Turchia – sempre più multiservizi – a sminare le rotte da e verso i porti ucraini.
MA L’ONU NON È SOLA nel pensare che anche questa del grano sarà una guerra lunga. La Polonia infatti si propone come una sorta di hub per trasferire, stoccare e finalmente distribuire i prodotti agricoli ucraini altrimenti bloccati. Lo ha confermato ieri visitando Borodianka il premier polacco Mateusz Morawiecki.
Resta infiammato anche il fronte “energetico”, soprattutto dopo la retromarcia dell’Ungheria (parziale o totale si vedrà) sul sesto pacchetto di sanzioni approvato con tanta fatica dall’Ue, e con tanto di “eccezione” riconosciuta a Budapest. Motivo, la presenza del patriarca della Chiesa ortodossa russa Kirill nella lista nera dei sanzionati. Gli ambasciatori dei 27 Stati membri si sono arresi all’evidenza, dovranno riconvocarsi. E le nuove sanzioni nel migliore dei casi slittano.
IL MINISTRO DEGLI ESTERI RUSSO Serguej Lavrov si trova intanto in Arabia saudita per resettare le relazioni con i paesi del Golfo. Ha partecipato alla riunione “esteri” dei Paesi riuniti nel Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati, Kuwait, Oman e Qatar). E si è detto certo, dopo una serie di incontri bilaterali, che questi non si uniranno al fronte occidentale delle sanzioni anti-russe. Ma il Wall Street Journal rivela che alcuni membri non meglio specificati dell’Opec, preoccupati dall’impatto delle sanzioni sulla capacità russa di pompare abbastanza petrolio per stabilizzare i prezzi, vorrebbero sospendere Mosca dai futuri accordi sulla produzione di greggio.
Lavrov ha poi risposto a domanda sul nuovo pacchetto di armi annunciato da Washington, dicendosi preoccupato che ciò finisca per coinvolgere nel conflitto «Paesi terzi».
Coinvolge le Nazioni unite invece il licenziamento deciso dal parlamento ucraino, ma attribuito a Zelensky, di Lyudmyla Denisova, la commissaria ai diritti umani colpevole di non aver saputo organizzare i corridoi umanitari e di non aver fornito le prove degli stupri sui bambini compiuti dalle forze russe. Una decisione che «mina l’indipendenza di un’importante istituzione», si legge in una nota della Missione Onu di monitoraggio dei diritti umani in Ucraina.
Frédéric Mousseau, economista francese, è policy director dell’Oakland Institute, osservatorio economico progressista, per cui coordina le ricerche su terre, agricoltura e sicurezza alimentare. Già consulente di ong come Medecins sans frontières e Oxfam, lavora in particolare su investimenti agricoli, volatilità dei prezzi e crisi globale alimentare.
Lei ha definito «senza precedenti» la scalata delle multinazionali al settore agricolo ucraino.
Nella storia recente direi proprio di sì, soprattutto per quanto riguarda la spinta alla privatizzazione e alla riforma agraria. Non vi sono precedenti per una spinta di questa portata da parte di paesi e istituzioni occidentali per imporre una simile privatizzazione.
Un vostro report paragona il rapporto dell’Ucraina con l’Occidente a quelli di paesi come Zambia, Myanmar, Brasile. Un classico esempio di neoliberismo post coloniale?
Quella relazione mostra che istituzioni internazionali, governi e interessi privati occidentali hanno promosso la privatizzazione in una serie di paesi nel mondo. L’Ucraina è un esempio paradigmatico dell’uso dell’assistenza economica come grimaldello per imporre riforme desiderabili. Ma l’Ucraina è anche un caso unico per la sua prossimità all’Europa e la quantità di terreni precedentemente collettivizzati dal sistema sovietico, disponibili quindi a essere privatizzati.
Gli interessi agroalimentari hanno ricoperto un ruolo importante nel conflitto descritto come scontro tra democrazia e corruzione autoritaria?
Non solo quelli. Era chiaro che erano in gioco interessi altrettanto importanti per quanto riguarda risorse naturali e minerarie e un’analoga spinta per privatizzare il settore bancario e pensionistico. In ogni caso i grandi conglomerati occidentali erano fortemente motivati ad acquisire quote in questi comparti economici nazionali.
Si tratta di interessi già in moto negli anni Novanta.
La spinta del Fondo monetario internazionale per la privatizzazione di terre pubbliche comincia non appena l’Ucraina acquisisce l’indipendenza, all’inizio degli anni ’90. Le grandi istituzioni finanziarie offrono ai primi governi ucraini «assistenza» per produrre rogiti e titoli di proprietà dei terreni. Ed è stato altrettanto evidente come i processi di privatizzazione beneficiassero ben precise e ristrette oligarchie piuttosto che il popolo ucraino. È la ragione per cui all’epoca fu imposta una moratoria sull’acquisto di terreni, rimasta in vigore fino all’anno scorso.
Ed emergono già all’epoca due progetti di influenza economica articolati da contrapposti piani di assistenza da Russia e da Occidente.
È stato così. Nel 2014 vennero prodotte due concorrenti offerte di assistenza economica; due «buste», una russa ed una occidentale. Dopo la rivolta di Maidan avrebbe prevalso il pacchetto occidentale.
Voi documentate come Fmi e Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo hanno condotto una intensa campagna per privatizzare la terra.
Da subito la promessa di aiuti da parte europea conteneva precise condizioni, prima tra tutte la fine della moratoria (sulla vendita di terreni a stranieri, ndr), una richiesta che ha accompagnato fin dall’inizio ogni offerta di assistenza. Era precondizione necessaria.
Quale sarà l’effetto concreto ora che la moratoria è stata abolita?
Vi sono comunque limiti alla quantità di terreno che può essere acquisita da stranieri ma si tratta di un passo importante verso la privatizzazione e il consolidamento della proprietà terriera. La legge impone limiti alla proprietà straniera ma allo stesso tempo permette alle banche internazionali di diventare azioniste di aziende ucraine o investire in società locali, un meccanismo che permette a chiunque di investire nel settore. La porta è aperta per grandi fondi di investimento americani, ad esempio BlackRock o simili, a investire nel agrobusiness emergente attraverso società ucraine così da non risultare ufficialmente come proprietà straniera. Il paese rappresenta l’opportunità per enormi ritorni sull’investimento. La riforma inoltre è pensata per favorire i grandi proprietari terrieri e l’agricoltura industriale, estromettendo sempre di più i piccoli agricoltori meno produttivi, una dinamica esplicitamente auspicata dall’Fmi.
È vero quindi che vi sono multinazionali americane con importanti quote di controllo su terreni ucraini?
Sì, ma concentrarsi esclusivamente sulla proprietà dei terreni può essere fuorviante. Società come Monsanto, Cargill, Archer Daniels Midland e Dupont non hanno bisogno di possedere terreni. Il loro modello si concentra sulla gestione di impianti di allevamento, stabilimenti per fertilizzanti, infrastruttura commerciale, terminali per l’export. Traggono beneficio dall’industrializzazione del settore agricolo e dalla liberalizzazione del commercio (oltre a silos e frantoi, la Archer Daniels Midland, ad esempio, gestisce un terminal cereali al porto di Odessa, ndr).
Vi risulta che simili dinamiche siano in gioco anche in altre repubbliche post sovietiche?
Non abbiamo dati specifici su altri paesi. Date però l’estensione dell’Ucraina e la qualità delle sue infrastrutture, direi senz’altro che quel paese rappresenta (a parte forse la Russia stessa) il maggior terreno di conquista potenziale per l’agrobusiness privato.
È lecito supporre che uno scopo dell’aggressione russa sia contrastare tale dinamica?
Non mi sento di fare supposizioni sugli obiettivi russi. I nostri rapporti si limitano a verificare che da anni è in corso una lotta per il controllo delle risorse dell’Ucraina. Certo, nelle versioni ufficiali risaltano la democrazia o di contro gli storici legami culturali dell’Ucraina con la Russia, ma è chiaro che vi siano enormi interessi economici. Né sembra che la guerra abbia modificato la strategia occidentale in questo senso.
Attualmente è il blocco dei porti sul Mar Nero a preoccupare per le possibili ricadute sui mercati e su una crisi alimentare globale.
Renderemo pubblico a breve uno studio su questo argomento. La Fao all’inizio di maggio ha affermato che le scorte mondiali di cereali sono relativamente stabili. La Banca mondiale conferma che gli stock di cereali sono vicini a record storici e che tre quarti dei raccolti russi e ucraini erano già stati consegnati prima dell’inizio della guerra. Possiamo dire che non si prospetta una carenza imminente quanto piuttosto forti speculazioni sui mercati dei futures che scommettono sull’aumento dei prezzi e sulle carestie future per ottimizzare i guadagni. Si è per esempio parlato molto della decisione dell’India di bloccare l’esportazione di frumento, molto criticata dagli Stati uniti per la conseguente pressione sui prezzi globali. Ma se vediamo bene, l’India rappresenta appena il 2% degli export mondiali (10 milioni di tonnellate previsti per il 2022/23). In confronto, gli Usa al momento muovono 160 milioni di tonnellate di grano all’anno, pari al 35% del commercio globale. Le critiche all’India hanno meno a che vedere con un effettiva crisi alimentare che con il mantenimento dello stesso mercato globale che è nell’interesse dei giganti dell’agrobusiness e dei loro investitori. Chiaramente una crisi alimentare c’è, con milioni o centinaia di milioni di persone nel mondo in stato di insicurezza, senza accesso ad alimentazione adeguata o dipendenti dalle reti assistenziali, ma questo sussiste a prescindere dalla guerra. Esiste una crisi alimentare ma è una crisi senza effettiva carenza di alimenti.
LA CRISI. Il caro energia colpisce ancora. E crescono anche i prezzi dei beni alimentari
Continua la corsa dell’inflazione, spinta dal caro-energia. Per l’Istat ha segnato a maggio 2022 il record dai tempi della lira, dal marzo 1986, quando era a +7%, rileva l’Istat. L’indice nazionale dei prezzi al consumo, al lordo dei tabacchi, è aumentato dello 0,9% su base mensile e del 6,9% su base annua, contro il +6% di aprile. Pesano i beni energetici (+42,2%, contro il +39,5% del mese precedente); i beni ad alta frequenza di acquisto come quelli alimentari. «Gli elevati aumenti dei prezzi dei beni energetici – sottolinea l’Istat – continuano a essere il traino dell’inflazione e le loro conseguenze si propagano sempre più agli altri comparti merceologici, i cui accresciuti costi di produzione si riverberano sulla fase finale della commercializzazione».
La crescita acquisita del prodotto interno lordo (Pil) si attesterebbe al 2,6%, contro il precedente 2,2%. Dunque si registra un aumento. La revisione, sostiene l’Istat è «in linea con le più recenti stime del ministero dell’Economia e delle Finanze e porta al 2,6% la crescita acquisita per il 2022, ovvero quella che si realizzerebbe se il pil restasse invariato da qui a fine anno», ha commentato il ministero dell’economia e delle finanze (Mef) secondo il quale è previsto entro giugno «un significativo aumento del Pil sul primo trimestre che metterebbe il percorso di crescita annua in linea con la previsione del Documento di economia e finanza (Def) o quantomeno prossimo ad essa». Per i trimestri successivi, ha sottolineato via XX settembre, «sarà fondamentale dare piena attuazione alle misure predisposte con i recenti decreti e proseguire nel percorso di realizzazione delle riforme e degli investimenti previsti dal Pnrr».
A trainare la crescita non sono i consumi ma gli investimenti. l’Istat rileva una diminuzione dello 0,6% dei consumi finali nazionali, a fronte di un aumento del 3,9% degli investimenti fissi lordi; le importazioni e le esportazioni sono cresciute, rispettivamente, del 4,3% e del 3,5%.
Commenta (0 Commenti)Contrordine. «Non invieremo all’Ucraina sistemi missilistici che possono colpire la Russia» ha dichiarato il presidente americano Joe Biden ai giornalisti uscendo dalla Casa Bianca ieri pomeriggio. Ne consegue che l’invio dei sistemi lanciarazzi multipli (Mlrs) che secondo Zelensky dovevano contribuire a sbarrare l’avanzata russa nell’est, per il momento non ci sarà, nonostante le ultime notizie l’indicassero come una decisione già presa dal consiglio di sicurezza Usa.
Per Dmitry Medvedev, vice capo del Consiglio di sicurezza russo ed ex-presidente, si tratta di una decisione «ragionevole», aggiungendo che «in caso contrario, se le nostre città venissero attaccate, le forze armate russe dovrebbero prendere atto della minaccia e colpirebbero i centri dove
Leggi tutto: Biden cambia idea sui missili Porti, Putin rilancia il «ricatto» - di Sabato Angieri
Commenta (0 Commenti)GIUSTIZIA. Quesiti marginali o che confondono: anche per questo il quorum è lontano. Non funziona il traino delle amministrative, ormai piegate dal calo dell’affluenza. Ma sulla custodia cautelare l’Italia deve cambiare: ha i dati peggiori nel Consiglio d’Europa
Qualcuno tra i quasi cinque milioni di elettori italiani residenti all’estero ha già votato (le schede sono arrivate nelle case e devono tornare nei consolati entro il 9 giugno), gli oltre 46 milioni di elettori che invece sono in Italia devono andare ai seggi domenica 12 giugno in un giorno solo. Lo faranno in misura sufficiente perché i referendum siano validi, vale a dire la metà degli aventi diritto più uno?
L’ultima volta che si sono tenuti dei referendum il 12 giugno (ma in quel caso si votava anche lunedì 13) il quorum è stato raggiunto. Quella del 2011 è stata però un’eccezione: prima di allora e dopo, negli ultimi 25 anni, il quorum di validità dei referendum abrogativi non è mai stato raggiunto.
Quest’anno per la prima volta nella storia i referendum sono abbinati al primo turno delle elezioni amministrative (era accaduto solo con il turno di ballottaggio) come chiesto da Lega e radicali – partiti che sarebbero stati i promotori se avessero consegnato le firme, invece hanno lasciato che a chiedere i referendum fossero i consigli regionali di centrodestra.
L’abbinamento però non è garanzia di affluenza alta, la partecipazione nel nostro paese è in costante calo a prescindere dal tipo di elezione. Negli ultimi tre anni tra europee, regionali, referendum costituzionale e comunali l’affluenza media è rimasta tra il 50 e il 54 per cento. Le amministrative di quest’anno coinvolgono appena il 20% dell’elettorato, guardando ai precedenti città per città (2017) in diversi casi l’affluenza è stata bassa anche al primo turno. A Genova e Como addirittura sotto il 50%, a Monza e Palermo di poco sopra.
I referendum sono cinque. Il primo (scheda rossa) chiede di abrogare l’intero decreto legislativo 31 dicembre 2012 n° 235 noto come decreto Severino. Legge controversa a partire dal titolo, perché dichiara di occuparsi di «incandidabilità e divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna» ma poi stabilisce la sospensione dall’incarico degli amministratori regionali e comunali anche solo dopo una condanna in primo grado per reati gravissimi (mafia e terrorismo) o contro la pubblica amministrazione.
La Corte costituzionale in passato ha salvato questa che sembra una palese violazione della presunzione di non colpevolezza (fino a sentenza definitiva) proprio perché la legge parla di «sospensione». Nella pratica, però, la legge ha messo fine al lavoro di tanti sindaci che successivamente sono risultati innocenti. Per questo anche il Pd, che pure prevalentemente è per il No, ha presentato una proposta per modificare la legge Severino. Il referendum cancella l’intero testo unico, anche le parti che prevedono la decadenza e l’incandidabilità in parlamento dei condannati con sentenza definitiva (le norme che sono costate il seggio a Berlusconi e Galan, ma non a Minzolini). Questo non vuol dire che corrotti e corruttori avrebbero la strada del parlamento spianata, solo che tornerebbe a essere i giudici a stabilire – eventualmente – la pena accessoria dell’interdizione.
Il secondo referendum (scheda arancione) vuole abolire una delle tre possibilità per le quali i giudici possono oggi disporre la custodia cautelare, cioè la detenzione (in carcere o ai domiciliari) prima della sentenza. In caso di vittoria del Sì, i giudici potrebbero continuare a disporre l’arresto preventivo per pericolo di fuga o pericolo di inquinamento delle prove, ma non più per il rischio di reiterazione di un reato grave uguale a quello per cui si procede. Una novità che, intervenendo sulla fattispecie più usata, potrebbe correggere un problema molto serio della nostra giustizia: siamo il paese tra tutti quelli del Consiglio d’Europa che ha la percentuale più alta di detenuti in attesa di giudizio. Un detenuto straniero su due da noi è agli arresti da presunto innocente.
Il terzo quesito (scheda gialla) è il più difficile da capire dalla lettura del testo stampato che è lungo 7.515 caratteri (cioè di più dell’articolo che state leggendo). Ma se approvato avrebbe una conseguenza netta e chiara: la definitiva separazione delle funzioni tra magistrati dell’accusa e magistrati giudicanti. La carriera delle toghe resterebbe la stessa, perché per dividerla in due servirebbe una riforma costituzionale, ma dall’eventuale successo del referendum in avanti chi scegliesse di fare il pubblico ministero non potrebbe mai più fare esperienza come giudice e viceversa. La vittoria del sì sarebbe chiaramente il primo passo verso un diverso inquadramento dei magistrati requirenti, che a quel punto avrebbe senso si specializzassero nella ricerca delle prove di accusa entrando nell’orbita della polizia giudiziaria (e del potere esecutivo).
Il quarto quesito (scheda grigia) anticipa e allarga una riforma prevista dal disegno di legge sull’ordinamento giudiziario che è stato già approvato alla camera ed è in discussione al senato. Punta a dare diritto di voto nei consigli giudiziari distrettuali e nel consiglio direttivo della Cassazione non solo ai magistrati, ma anche agli avvocati e ai professori universitari di giurisprudenza quando si tratta di fare le valutazioni di professionalità delle toghe. Secondo la legge in discussione in parlamento, questo diritto andrebbe dato solo a un rappresentante degli avvocati e anche in questo caso i magistrati temono quella che considerano un’interferenza. Il testo di legge però è una delega, per cui il governo avrebbe comunque margini di interpretazione mentre il quesito referendario è certo.
Il quinto quesito (scheda verde), pomposamente chiamato dai sostenitori «riforma del Csm», vuole abrogare in realtà una norma assai marginale, quella che prevede chele candidature dei magistrati per il Csm debbano essere sostenute da almeno 25 firme di colleghi. Modifica troppo modesta perché si possa parlare di «scacco alle correnti», peraltro già prevista con una norma di immediata applicazione nella legge in discussione al senato. Non è certo con referendum di poco impatto come questo che si richiamano gli elettori e si combatte l’astensionismo.
Commenta (0 Commenti)CAMPO LARGO. Domani (domenica 29) «Alternativa comune» con esponenti del centrosinistra, amministratori locali, candidati
Amedeo Ciaccheri
Il laboratorio rossoverde della sinistra del centrosinistra prova a ripartire da Roma. Domani mattina nasce «Alternativa Comune». Si aprono le danze con una discussione collettiva a Largo Venue, locale lungo la via Prenestina: a ridosso del lago dell’Ex Snia, luogo simbolo della lotta alla speculazione e della natura che si riprende lo spazio vitale in forme inaspettate. «Sarà una vera e propria assemblea costituente di una rete rossoverde su scala regionale», dice Amedeo Ciaccheri, presidente del municipio Roma VIII e assieme all’europarlamentare Massimiliano Smeriglio uno dei promotori dell’iniziativa.
Si riparte dell’esperienza di Sinistra civica ecologista, che alle elezioni romane dello scorso ottobre ha strappato due consiglieri comunali. «Assieme a Sce ci saranno le altre realtà che vogliono occupare uno spazio a sinistra del Pd – prosegue Ciaccheri – Sarà uno spazio municipalista, dedito alla transizione ecologica e alla pace». Aderiscono liste che già stanno affrontando la sfida delle elezioni municipali del prossimo 12 giugno, a partire da quella di Simone Petrangeli che alle primarie del centrosinistra a Rieti ha battuto, da sinistra, il candidato del Pd. Con un occhio alle prossime elezioni regionali, per le quali giusto ieri Enrico Letta ha prospettato primarie di coalizione. L’idea è però quella di confrontarsi con esperienze analoghe che vengono da altre regioni. Arriveranno dunque Elly Schlein, Emily Clancy e Massimo Zedda, Ivo Pirovano e altri esponenti delle coalizioni civiche e di liste di sinistra provenienti da Bologna, Napoli, Torino e Milano. «Questa distribuzione territoriale manifesta la potenzialità di costruire un processo di confederazione municipalista», riflette ancora Ciaccheri.
E poi ci sarà spazio per esponenti di diverse forze politiche del campo largo del centrosinistra. Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, l’assessora alla trasizione ecologica del Movimento 5 Stelle Roberta Lombardi, il segretario di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, il portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli, la capogruppo al Senato di Leu Loredana De Petris. L’idea è che nel Lazio, ma anche altrove, per battere le destre serva una coalizione che si allarghi ai 5 Stelle e che non faccia scelte che vengano approvate proprio dalla destra. Come è successo a Roma nel caso del mega-inceneritore proposto dal sindaco Roberto Gualtieri. L’orizzonte del centrosinistra, sintetizza Ciaccheri, implica l’ambizione di costruire «un soggetto che sta dentro la coalizione progressista che sia in grado di esprimere un punto di vista autonomo».
Un dibattito in corso su questo giornale segnala il rischio che ci si limiti a una «sinistra per procura», che agisce dentro un contesto che non gli è proprio confidando nell’azione di forze che di sinistra non sono. Ciaccheri ritiene che si debba stare ai temi. Nel caso di Roma e del Lazio, ad esempio, segnala proprio la divaricazione apertasi sull’inceneritore: «La sinistra rossoverde deve costruire l’alternativa a politiche come quelle del termovalorizzatore: la sfida è essere credibili su questo terreno».
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