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CRIMINALIZZAZIONE DELLA SOLIDARIETÀ. Ong e parlamentari europei con Lucano. Presentato un dossier sulla criminalizzazione di chi salva i migranti. Nonostante le difficoltà nel paese dell’accoglienza le porte sono sempre aperte

Due giorni a Riace: «In Europa 89 militanti della solidarietà sotto processo»

 

Riace, Lucano insieme a parlamentari Ue e Ong

La criminalizzazione della solidarietà interessa tutta Europa e vede in Riace uno dei luoghi simbolo. Proprio nel borgo calabrese è stata organizzata una due giorni a sostegno di Mimmo Lucano e del modello di accoglienza alla quale ha partecipato una delegazione di europarlamentari composta da Rosa D’Amato e Damien Careme del gruppo Greens-Efa e da Cornelia Ernst di Left (parte del gruppo a sostegno dell’ex sindaco di Riace che è formato da 60 parlamentari europei), oltre che da attivisti e rappresentanti di alcune ong e associazioni.

Secondo un dossier realizzato dal gruppo dei Verdi sono state 89 le persone perseguitate in Europa tra gennaio 2021 e marzo 2022. Tra questi 18 (quattro dei quali migranti) devono affrontare nuove accuse Nella stragrande maggioranza dei casi (l’88%) le persone sono accusate di «favoreggiamento dell’ingresso, del transito o del soggiorno di migranti». A questi casi si sommano poi le quasi 300 persone che tra agosto e settembre 2021 sono state arrestate per aver aiutato i migranti che attraversavano illegalmente le frontiere tra Bielorussia e Polonia. La criminalizzazione è passata e passa anche attraverso la denigrazione delle ong.

«La strategia europea – racconta Viviana Di Bartolo di Sos Mediteranee, soccorritrice da cinque anni sulle navi di salvataggio – è andata in due direzioni: da una parte si è esternalizzato il confine marittimo dando autorità a Paesi come Libia, Marocco e Turchia, dall’altra si è perseguitato chi fa soccorso. Noi ong siamo passate da essere gli ‘angeli del mare’ dopo la strage a largo di Lampedusa del 3 ottobre 2013 a ‘taxi del mare’, quando in realtà la nostra attività è rimasta sempre la stessa”. A conferma delle continue violazioni che avvengono sulle frontiere per proteggere la Fortezza Europea, Cornelia Ernst del gruppo Left ha portato a Riace il ‘Libro nero sui respingimenti’. Due volumi di 1500 pagine che documentano, tramite i dati forniti dal Border Violence Monitoring Network e testimonianze dirette, la violenza subìta da oltre 12mila persone per mano delle autorità alle frontiere esterne dell’Unione Europa, in particolare sulla rotta balcanica. Ma la criminalizzazione non riguardo solo chi aiuta i migranti. «Sono in aumento – ha spiegato Laura Renzi di Amnesty International – anche le vessazioni contro chi difende diritti lgbt o l’ambiente. In cinque anni è aumentato esponenzialmente l’incitamento dell’odio on line e le querele ‘temerarie’ o Slap (Strategic Lawsuit Against Public Participation) che mirano a censurare, intimidire e mettere a tacere voci critiche mediante azioni giudiziarie. Metodi che vengono sempre più utilizzati anche contro i giornalisti». Una criminalizzazione che incide sulla vita delle persone che subiscono i processi e sui progetti che questi portano avanti.

A Riace la vicenda giudiziaria che vede coinvolto Mimmo Lucano, condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere con una serie di accuse legate alla gestione dei progetti di accoglienza dei richiedenti asilo, ha prodotto molti effetti. Con la fine dei progetti Sprar molti beneficiari hanno lasciato il borgo, che si è nuovamente spopolato. Ma tra le conseguenze, secondo lo stesso Lucano, ce ne sono di positive: «La sentenza ha generato anche cose buone. Ho ricevuto premi in Italia e in Svizzera e si è attivata una forte rete di solidarietà con realtà e associazioni in tutta Italia che ci stanno permettendo di proseguire, seppur con tutte le difficoltà». «Riace è un posto di speranza – sottolinea Cornelia Ernst -. Si è scritto di Lucano sui media tedeschi come di un sindaco di un piccolo paese che è diventato la capitale dell’accoglienza. Qui a Riace si è riuscito a dare tanto con poco».

Riace continua infatti a essere «meta di un’accoglienza spontanea». Ad oggi, pur senza nessun progetto pubblico attivo, ci sono circa 50 persone provenienti da vari stati africani e dall’Afghanistan. «Chi ha bisogno – raccontano alcuni volontari del borgo – arriva tramite passaparola, c’è chi ha concluso i progetti di accoglienza e non sa dove andare e chi è arrivato dal Pakistan con un progetto gestito dall’associazione Jimuel onlus». Le porte del ‘Villaggio Globale’ (la zona di Riace in cui le case dei cittadini emigrati vengono affittate tramite un’associazione alle famiglie rifugiate), restano quindi aperte.

* Atlante delle guerre e dei conflitti nel mondo

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EFFETTO UCRAINA. Il segretario dem apre uno spiraglio in vista della votazione in Parlamento del 21 giugno 

 

 Giuseppe Conte ed Enrico Letta - Ansa

Nel giorno in cui Matteo Salvini annuncia di aver rinunciato definitivamente alla sua missione moscovita, Enrico Letta segnala un cambiamento di toni sulla guerra in Ucraina. Lo fa citando Alija Izetbegović, presidente della Bosnia Erzegovina ai tempi della guerra in ex Jugoslavia. «Crediamo sia importante sostenere con l’unità di tutti i paesi europei e con l’unità del paese lo sforzo per bloccare l’invasione russa – premette il segretario del Partito democratico – Ma dobbiamo cercare di far sì che si arrivi ad una pace, anche se non è proprio la pace completamente giusta».

DOPO UN PAIO d’ore. la precisazione via Twitter: Letta garantisce di voler continuare ad appoggiare l’Ucraina ma in qualche modo fa notare che anche che Izetbegović quando fece quella professione di pragmatismo si trovava alla testa di un paese aggredito. Il cambio di registro, insomma, sarebbe rilevante, anche perché il Pd fino a questo momento è stata la forza politica che con meno incertezza ha sostenuto la linea atlantista dell’appoggio militare

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CRISI UCRAINA. L’Onu condanna il conflitto giunto al 101esimo giorno. Peskov: avanti fino alla fine

Il Lugansk sta per cadere. Ma «la guerra non avrà vincitori»

 

Una donna cammina tra i resti di una casa demolita da un attacco missilistico russo sulla città ucraina di Sloviansk - Andriy Andriyenko/Ap

«Questa guerra non ha e non avrà vincitori». A dirlo non è stato un pacifista qualsiasi di quelli tanto invisi ai sostenitori della guerra «fino all’ultimo uomo», ma l’Onu. Ieri, Amin Awad, Segretario generale aggiunto e coordinatore Onu delle crisi per l’Ucraina, nel briefing di ieri sul conflitto in atto. «Abbiamo assistito per 100 giorni a ciò che è stato perso: vite, case, lavoro e prospettive», continua Awad nel suo comunicato, sottolineando che «abbiamo bisogno di pace; la guerra deve finire».

QUASI contemporaneamente, il portavoce di Putin, Dmitrij Peskov, ha fatto sapere che da Mosca andranno avanti fino al raggiungimento di tutti gli obiettivi. In altri termini, la Russia non è affatto d’accordo con la visione delle Nazioni unite. Alla domanda su come il Cremlino consideri i progressi in Ucraina a 100 giorni dall’inizio della guerra, il portavoce del presidente ha risposto che le truppe russe sono riuscite nel loro compito principale di proteggere i civili nelle aree dell’Ucraina orientale controllate dai separatisti sostenuti da Mosca. Peskov, come riporta Reuters, ha detto che le forze russe hanno «liberato» molte aree in Ucraina dalle unità militari e nazionaliste ucraine «filonaziste», aggiungendo che «questo lavoro continuerà fino a quando non saranno raggiunti tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale». Nel corso della conferenza, Peskov si è dimostrato evasivo quando gli è stato chiesto se le autorità russe stiano pianificando di tenere dei referendum nelle aree occupate per proporre l’annessione alla Russia, dicendo che dipenderà dall’evolversi della situazione. Del resto, sia Peskov sia altri funzionari russi hanno ripetutamente affermato che spetterà ai residenti di queste regioni determinare il loro status. Il che, con un esercito invasore in casa, sembra una decisione tutt’altro che spontanea.

POCO DOPO, il ministro della difesa russo Shoigu ha incontrato il capo delle truppe cecene Kadyrov. Come sempre in questi contesti Kadyrov si è profuso in elogi dell’azione militare del suo esercito e in minacce più o meno esplicite all’Ucraina e all’Occidente. In altri termini, la retorica russa non si è mossa di una virgola. Stupisce solo che tutta questa ostentata sicurezza contrasti con l’effettivo andamento delle operazioni sul campo e con la decisione di rimuovere il generale Dvornikov dalla guida delle truppe russe in Ucraina. A inizio aprile Dvornikov era stato chiamato in virtù del suo curriculum in Siria e in Abkhazia a sostituire i tre comandanti responsabili delle operazioni. Il timore che il nuovo capo adottasse il cosiddetto “metodo Grozny”, ovvero la tabula rasa delle città ribelli, era alto. Ma ora, dopo neanche due mesi, Dvornikov è stato sostituito dal generale Gennady Zhidko, ex comandante del distretto militare orientale e vice-ministro della difesa russo per gli affari militari e politici. Al momento non si hanno altre informazioni sul perché Putin abbia deciso di rimpiazzare il generale ma risulta evidente che il presidente non dovesse essere contento del suo operato.

ANCHE PERCHÉ, persino a Severodonetsk, la situazione potrebbe rivelarsi non così rosea per le truppe dell’esercito invasore. Ieri Zelensky, dopo aver ringraziato gli Stati uniti per i nuovi sistemi “Himars” che presto saranno forniti al suo esercito, ha fatto sapere che, sebbene i combattimenti nelle aree orientali del Donbass siano «brutali», sarebbero stati fatti «alcuni progressi» nella città di Severodonetsk. Non ha atteso troppo a fargli eco il governatore dell’oblast di Lugansk, Segiy Haidai, il quale ha dichiarato che «i difensori ucraini hanno condotto con successo operazioni locali e catturato sei soldati russi il 1° giugno in una città strategica», arrivando addirittura a paventare «alte possibilità di liberazione rapida», nonostante poco prima avesse dichiarato all’Associated Press che la situazione è drammatica e che i circa 13 mila residenti rimasti in città ormai vivono costantemente nei seminterrati per sfuggire agli incessanti bombardamenti russi. Anche nella vicina Lysychansk, che potrebbe diventare la nuova roccaforte ucraina della zona, i bombardamenti sono stati intensi durante la giornata di venerdì e almeno altri due civili sono rimasti uccisi. Al momento a Lysychansk si trovano circa 20.000 residenti, ovvero un quinto della sua popolazione prima della guerra. Secondo Haidai «il 60% degli edifici residenziali e delle infrastrutture civili sono stati distrutti dai bombardamenti russi». Le due disamine sembrano, quantomeno, discordanti.

PER AGGIUNGERE un dato, stando al ministero della difesa britannico la Russia ormai controlla il 90% dell’oblast di Lugansk e, secondo l’ultimo aggiornamento dell’intelligence di Sua Maestà, «le forze russe stanno ottenendo successi tattici nel Donbass e sembrano avere successo sull’opposizione ucraina». «È probabile che la Russia raggiunga il controllo completo dell’oblast di Lugansk nelle prossime due settimane», ha dichiarato il ministero.

EPPURE, per quanto sembri improbabile al momento, gli ucraini continuano a sostenere che i russi starebbero rallentando a causa delle ingenti perdite e della forte resistenza dell’esercito difensore. Secondo Mykola Sunhurovsky del Centro Razumkov, un think tank di studi militari con sede a Kiev, ad esempio, «il tempo sta giocando a favore dell’Ucraina, poiché le forniture di armi occidentali stanno aumentando, rendendo nervoso il Cremlino», ma ha aggiunto che i rifornimenti occidentali hanno richiesto tempo per raggiungere l’Ucraina, costringendo Kiev a «perdere tempo nell’est per accumulare forze per una controffensiva».

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IL SULTANO ATLANTICO. L’erdoganesimo si gioca la sopravvivenza, di nuovo sul popolo curdo e la sua idea radicale di democrazia. La Turchia ha annunciato l’arresto del nuovo leader dell’Isis, a dispetto di una storia di manipolazione delle forze jihadiste. Così conquista credito agli occhi indulgenti dell’Occidente
Il patto col diavolo dell’Europa: salvare un autocrate per tutelare se stessa
 
Il presidente turco Erdogan e il segretario della Nato Stoltenberg - Ap

Sulla frontiera europea c’è un paese che coltiva esplicite aspirazioni neo-imperiali, invadendo i propri vicini, e che negli ultimi anni ha vissuto una drammatica involuzione autoritaria. Questo paese è la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, con una presenza militare ben radicata in tutto il Mediterraneo, per non parlare del Caucaso. Silurata ogni forma di dialogo con i curdi, rinchiuso in carcere il popolare leader del partito Hdp Demirtas, Ankara si è prodigata in questi anni per ritagliarsi una propria fascia di sicurezza in territorio siriano.

DAL 2016, ANNO di insediamento di Donald Trump, i carri armati turchi per tre distinte volte hanno passato il confine siriano, avanzando sempre di più nel Rojava, occupando territori dove le strutture di autogoverno costruite dal confederalismo democratico curdo hanno combattuto e sconfitto i miliziani Isis. L’obiettivo, ancora oggi, è spazzare via i curdi in una fascia di Siria profonda 30 km, nella quale peraltro si trovano campi di detenzione dei ‘soldati del Califfato’ e delle loro famiglie. A questo obiettivo strategico si riferiscono, in questi giorni, le dichiarazioni della diplomazia turca circa una nuova operazione militare oltre confine, una quarta invasione per la quale Ankara ritiene di non dover chiedere il permesso a nessuno.

OLTRE A continuare a depredare i raccolti, reindirizzando i prodotti di questi fertili territori verso i nostri mercati, l’obiettivo dell’occupazione turca, sbandierata come operazione antiterrorismo nel nome della sicurezza nazionale, è procedere a ingegneria etnica del territorio, creando le condizioni di fatto che portino alla sostituzione della popolazione autoctona, in maggioranza curda, con altri siriani rifugiati di cui liberarsi.

DI CERTO c’è che la Turchia in questi anni ha potuto contare su una certa condiscendenza di Washington, ma anche di Mosca (come dimenticare come Mosca ritirò last-minute le proprie truppe consentendo la conquista del cantone di Afrin?) e degli altri governi della regione, a partire da quello di Baghdad e quello curdo-iracheno di Erbil, espressione di un notabilato etnocratico che si sente minacciato da un progetto di radicale ripensamento della democrazia e della società. Significativamente, a partire da marzo, dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, l’azione militare turca oltre confine si è notevolmente intensificata, con una serie di pesanti bombardamenti sulle montagne del Kurdistan iracheno.

BOMBE SOSTANZIALMENTE volte a spezzare le reti di solidarietà transfrontaliere. Nel silenzio dei governi della regione numerose testimonianze documentano attacchi sempre più frequenti e indiscriminati, che nelle ultime settimane hanno investito pesantemente attivisti curdi a Kobane e dintorni.

LA CRISI IN UCRAINA gioca in favore di Erdogan nelle partite di stretto e immediato interesse, sullo sfondo dell’apprensione circa l’esito dell’elezione presidenziale turca, prevista il prossimo anno. Quest’ultima preoccupa l’autocrate neo-ottomano, considerate le difficoltà della moneta, la spinta inflattiva e le sconfitte elettorali registrate nelle principali città, Istanbul e Ankara incluse. Sul versante della guerra in Ucraina abbiamo visto la Turchia – fino a prova contraria il secondo esercito della Nato – recitare diversi copioni, da cliente di sistemi d’arma russi alla fornitura di droni da combattimento a Kyiv, fino ai buoni uffici della diplomazia nell’ospitare negoziati faccia a faccia fra russi e ucraini. Da ultimo, dopo aver lasciato passare per Bosforo e Dardanelli navi-cargo russe cariche di grano ucraino trafugato e caricato nel porto di Sebastopoli, oggi vediamo i turchi offrirsi a facilitare l’apertura di una via d’uscita del grano ucraino dai porti.

IL PROTAGONISMO turco nel dossier della guerra in Ucraina va dunque letto come un tentativo di Erdogan di giocare l’anticipo e forzare la mano in vista di un recupero di consensi domestici. Così, nel momento in cui la Nato si riprende dal trauma dell’era-Trump e si appresta a incorporare Finlandia e Svezia all’imminente summit di Madrid, vediamo Erdogan minacciare sfrontatamente il veto, qualora le democrazie nordiche, come ha tuonato il ministero degli esteri turco, non riscrivano le proprie leggi, quelle leggi in base alle quali viene data ospitalità, voce e riconoscimento, ad attivisti curdi e fuoriusciti gulenisti.

A CONSACRARE la propria immagine di specchiata democrazia efficiente ed efficace nel combattere il terrore, qualche giorno fa la Turchia ha annunciato di aver arrestato il nuovo leader dell’Isis, stanato in un appartamento di Istanbul. Così, a dispetto di una lunga e documentata storia di manipolazione e tolleranza delle forze jihadiste, ampiamente ricondizionate nelle formazioni armate filo-turche che, spesso sparandosi fra loro, si rendono protagoniste delle vessazioni nei territori occupati della Siria, Ankara conquista credito oggi agli occhi di alcuni osservatori occidentali di marca realista.

«BISOGNA ANDARE in guerra con la Turchia che c’è, non con quella che si vorrebbe» – scrivono gli apologeti, che chiedono all’Occidente di comprendere e far proprie le «legittime preoccupazioni di Ankara in materia di sicurezza». Un po’ come quando il premier Draghi, davanti all’umiliazione di protocollo riservata alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen durante una visita ad Ankara, parlò di dittatori con cui occorre essere franchi, ma di cui le democrazie hanno altrettanto francamente bisogno. Tra Ucraina e Siria l’erdoganesimo si gioca oggi la propria sopravvivenza, e intende farlo – potevamo aspettarci diversamente? – a partire dalla vita del popolo curdo e dell’idea radicale e partecipata di democrazia che ha saputo costruire nel momento più buio.

ANCORA una volta la difesa della democrazia nel mondo nordico, così come in Europa e in Medio Oriente, passa anche per il destino e la lotta dei curdi. Il ricatto di Erdogan cerca una blindatura autoritaria sotto l’occhio indulgente dell’Occidente in guerra, e solo la democrazia può sconfiggerlo.

 
 
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CRISI UCRAINA. Biden invierà solo «armi di difesa» a medio raggio, ma Londra promette a Kiev missili M270. Nonostante l’avanzata, anche il Donbass sembra essersi trasformato nell’ennesimo pantano per Mosca

Conflitto senza fine. «In mano ai russi il 20% dell’Ucraina»

 

Le macerie di un palazzo a Lysytsansk - Ap/Aris Messinis

Cento giorni di guerra tra Russia e Ucraina. Più di tre mesi dal giorno in cui le truppe di Mosca hanno oltrepassato il confine e iniziato quella che i vertici del Cremlino si ostinano a chiamare «operazione militare speciale» con il pretesto di «de-nazificare» l’Ucraina e «prevenire le minacce strategiche» ai confini della Federazione Russa.

A oggi non è ancora chiaro quali siano i veri obiettivi della guerra di Putin a Kiev, almeno dal punto di vista territoriale, visto che le truppe russe si sono mosse su talmente tante direttrici da far spesso pensare che il proprio stato maggiore a volte non avesse nessun piano.

Eppure, non è possibile che un paese come la Russia mandi migliaia di soldati a morire (30 mila secondo le stime ucraine, poco più della metà secondo gli analisti internazionali) senza avere chiaro cosa voglia ottenere. Almeno questo è ciò che pensano la maggior parte delle persone che non passano le

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MIGRANTI. Ieri il «digiuno di giustizia» in solidarietà ai profughi di ogni guerra

Zanotelli: «Accogliere tutti, non solo gli ucraini»

 

Padre Alex Zanotelli in digiuno al Pantheon - Giansandro Merli

«Giuste le inchieste sui crimini di guerra in Ucraina, anche se andrebbero fatte dopo, ma bisogna aprirne altrettante per ciò che accade nel Mediterraneo, in Libia e lungo le rotte africane. Anche i finanziamenti alle milizie e ai centri di prigionia sono crimini contro l’umanità». Padre Alex Zanotelli siede ai piedi del Pantheon davanti allo striscione «Digiuno di giustizia in solidarietà ai migranti».

È venuto da Napoli per portarlo a Montecitorio, ma al piccolo presidio non è stata data l’autorizzazione. «Non è giusto negarci il diritto costituzionale di manifestare sotto il parlamento italiano contro le criminali politiche migratorie del nostro governo e della Ue», dice Zanotelli. Intorno a lui e alle altre digiunanti scorre l’ordinaria quotidianità del centro capitolino: selfie e turisti a passeggio. Fa caldo nel mezzo del secondo anticiclone subtropicale: «Scipione l’Africano» sta battendo «Hannibal» a colpi di gradi centigradi.

Più che il sole, però, è il cambiamento climatico a preoccupare il padre comboniano. «Nel Sahel la desertificazione ha trasformato la terra in sabbia. Il pericolo più grande viene da questa crisi, maggiore di quella del grano. Molta gente non può coltivare più nulla. In quell’area, poi, c’è un grosso problema politico: si stanno creando le condizioni per un altro stato islamico», continua.

Il digiuno del primo mercoledì del mese è praticato contemporaneamente da laici e religiosi, nei monasteri e nelle famiglie. «È un atto di protesta contro le politiche criminali e discriminatorie nei confronti dei profughi provenienti dall’Asia e dall’Africa, che fuggono da guerre spaventose come in Iraq, Siria, Afghanistan, Yemen, ma anche da Etiopia, Sud Sudan, Sudan mentre la Ue e l’Italia hanno subito aperto i confini per chi fugge dalla guerra in Ucraina», dicono gli organizzatori.

Chiedono di investire in cooperazione, «quella vera», e non in armi. Di smettere di finanziare milizie e governi per fermare i flussi migratori. Di soccorrere nel Mediterraneo e assegnare subito i porti, facendola finita con le inutili attese sulle navi delle Ong. «Quello che è successo con i profughi ucraini mostra che ci sono due umanità. Al confine polacco passavano i biondi con gli occhi azzurri e venivano fermati quelli con la pelle scura. In Italia nello stesso momento c’era chi veniva accolto a braccia aperte e chi tenuto sulle navi quarantena. Sono veramente fiero delle famiglie italiane che hanno dato ospitalità ai profughi ucraini, ma va fatto con tutti. Altrimenti è una forma di riconoscimento interna alla “tribù bianca”. Solo per chi ci assomiglia».

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