GRANDE ATTESA PER LA VISITA ANNUNCIATA IERI DAL GOVERNO CINESE. Il "Dragone" primo partner commerciale del Brasile. E il presidente incontrerà Xi Jinping forte della sua posizione sulla guerra in Ucraina: né con Mosca né armi a Zelensky. La linea del «club della pace» resiste alle pressioni di Biden e al blocco Nato
Il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva - Ap
Avanza speditamente in Brasile il rilancio di quella politica estera indipendente e sovrana che era stato uno dei tratti distintivi dei governi del Pt, prima che venisse affossata da Bolsonaro. Dopo il successo della visita di Lula a Biden dello scorso febbraio, c’è molta attesa per il suo viaggio in Cina su invito del presidente Xi Jinping, di cui il Ministero degli Esteri cinese ha appena ufficializzato la data: dal 26 al 31 marzo, pochi giorni dopo l’incontro di Xi con Putin a Mosca, dal 20 al 22 marzo.
UNA VISITA, quella del presidente brasiliano, che, secondo il portavoce del Ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin, darà avvio a una nuova era nelle relazioni tra i due «principali paesi in via di sviluppo» e «partner strategici globali», contribuendo «alla promozione della stabilità e della prosperità a livello regionale e mondiale».
Ed è una visita fortemente voluta da Lula, deciso a riannodare, in contrasto con il suo predecessore, relazioni cordiali con quello che è, di gran lunga, il primo socio commerciale del Brasile: sono valsi oltre 152 miliardi di dollari, lo scorso anno, gli scambi con la Cina, rispetto ai quasi 89 miliardi di dollari di relazioni commerciali con gli Stati uniti.
Il doppio incontro, tra Xi e Putin e tra Lula e Xi, consolida indubbiamente un asse alternativo alla Nato, nel quadro del mondo multipolare a cui Lula si è sempre richiamato con forza, trovando oggi una sponda, in particolare, nei governi del messicano López Obrador e del colombiano Gustavo Petro: i due presidenti che, insieme a lui, si sono più esposti contro un coinvolgimento dei propri paesi nel conflitto tra Russia e Ucraina.
SE LULA HA RESPINTO con decisione le pressioni statunitensi ed europee per l’invio di armi a Kiev, è stato attento, tuttavia, anche a evitare qualsiasi allineamento a Mosca, mantenendosi fedele, piuttosto, alla proposta di creazione di un «club della pace» – un gruppo di paesi neutrali con le carte in regola per mediare tra Russia e Ucraina – di cui si suppone che parlerà approfonditamente con il presidente cinese.
Così, se da un lato la Russia ha elogiato la «posizione equilibrata» e la «scelta di sovranità» del governo Lula rispetto alle «misure coercitive unilaterali adottate dagli Stati uniti», dall’altro il governo Biden ha potuto incassare con soddisfazione il voto del Brasile a favore di una risoluzione contro la Russia all’Assemblea generale delle Nazioni Unite dello scorso 23 febbraio. Voto che in Brasile era stato accolto da non poche polemiche, tanto più dinanzi all’astensione degli altri paesi del Brics, cioè della Cina, dell’India e del Sudafrica, saldi nella loro posizione di neutralità, benché Lula in realtà non abbia mai nascosto la sua condanna dell’invasione russa.
L’invito rivolto da Zelensky a Lula a visitare l’Ucraina, magari approfittando del suo viaggio in Cina per fare tappa a Kiev, è tuttavia – almeno finora – caduto nel vuoto. «Deve vedere con i propri occhi il massacro compiuto dalla Russia. Per molti è stata un’esperienza trasformatrice», aveva dichiarato il diplomatico Igor Zhovkva, uno dei più influenti consiglieri politici del presidente.
DURANTE LA VIDEOCHIAMATA con il presidente ucraino, lo scorso 2 marzo, Lula era stato però decisamente evasivo: la sua visita, aveva detto, avverrà «quando sarà il momento migliore». Potrebbe essere già quest’anno, invece, il momento per il viaggio di Biden in Brasile: secondo quanto riportato dalla rivista Veja, il presidente Usa non attenderà il prossimo anno per ricambiare la visita di Lula a Washington
Commenta (0 Commenti)TERZO GIORNO DEL CONGRESSO CGIL. Un solo applauso: al ricordo dell’assalto della sede. «Ma ora tolga la fiamma dal simbolo». Dopo il comizio, incontro faccia a faccia con Landini che dura 40 minuti. Il segretario esce soddisfatto ma nessuna indicazione sul contenuto. Sarà il tempo a mostrare chi ha vinto
Giorgia Meloni al congresso della Cgil di Rimini
«Il primo presidente del consiglio in 27 anni a un congresso della Cgil». Nella frase con cui Giorgia Meloni sottolinea il carattere «storico» del suo discorso dal palco di Rimini sta tutta l’unicità politica e sindacale italiana. Da 27 anni la politica non si confronta con il sindacato. E, ancor più grave, sono stati i governi di centrosinistra a non farlo. Arrivando alla rottamazione e alla disintermediazione propugnata da Renzi.
IN QUESTO CONTESTO Giorgia Meloni ha avuto gioco facile. Fosse stata fischiata, avrebbe potuto fare la vittima. La gelida accoglienza dei 986 delegati Cgil invece le ha, sì, consentito di mostrare all’esterno il suo programma che cerca di convincere anche i ceti popolari della bontà della sua ricetta, ma ha mostrato come la stessa Cgil sia la sola capace di fare opposizione in questo disgraziato paese. E la prospettiva è che l’opposizione si intensificherà a breve con la mobilitazione contro la delega fiscale insieme alla Uil e (si spera) alla Cisl.
Maurizio Landini da parte sua aveva denunciato da settimane la sfida di Meloni: «Considerare il sindacato come una delle tante lobby corporative che difende interessi particolari». Ieri «ascoltando» Meloni, ha portato a casa la legittimazione a potersi «confrontare» con la presidente del Consiglio in un incontro faccia a faccia di oltre 40 minuti i cui contenuti sono sotto stretto riserbo ma da cui Landini esce soddisfatto. Il tempo mostrerà da che parte pende la bilancia dei vantaggi fra i due.
LA MEZZ’ORA DI DISCORSO di Meloni è stato un condensato di cosa sia la destra in economia con due gravi e volute omissioni: il tema dei migranti e l’autonomia differenziata.
Durante il comizio la platea Cgil mostra una freddezza glaciale. L’unico timido applauso arriva quando Meloni ricorda l’assalto alla sede nazionale del sindacato. Omettendo però
Leggi tutto: Meloni alla Cgil: il gelo oltre la demagogia - di Massimo Franchi
Commenta (0 Commenti)GUERRA UCRAINA. L’ad di Rheinmetall, Armin Papperberger: «Pronti a costruire una fabbrica di panzer in Ucraina, i nostri governi si stanno parlando»
Il quartier generale di Rheinmetall a Duesseldorf - Ansa
Il governo Meloni ha dato il via libera all’export dei Leopard italiani in Ucraina? Ufficialmente è impossibile saperlo: contrariamente a tutti gli altri Paesi occidentali a Roma la lista delle dotazioni belliche per l’esercito di Zelensky rimane un segreto custodito dal ministro Guido Crosetto e pochi altri addetti ai lavori. Questione di sicurezza, ripetono nell’esecutivo, si rischia di fornire informazioni nevralgiche all’intelligence di Mosca.
Eppure alle spie russe (come a chiunque altro) basta prendere nota delle parole di Armin Papperger, amministratore delegato di Rheinmetall, il colosso di Düsseldorf che costruisce i Leopard, incalzato così dai cronisti del Neue Zürchner Zeitung, il quotidiano di Zurigo .
«SEMBRA CHE Rheinmetall voglia acquistare 96 Leopard-1 dalla società svizzera Ruag che li aveva comprati in Italia. È vero?». Risposta di Papperger: «Sì, abbiamo comprato i Leopard-1, ma in Italia». Gli svizzeri non sono sicuri di avere capito bene, ripetono la domanda.
«Non è proprio uguale da chi ha acquistato i Leopard-1. Se il venditore è la società svizzera Ruag allora il loro utilizzo in Ucraina potrebbe diventare un problema legale, certamente politico. Quindi, di nuovo: i carri armati erano di proprietà di Ruag quando Rheinmetall li ha comprati?». L’ad replica: «Non so. Io li ho acquistati da una società («Firma», nell’originale in tedesco) in Italia».
Papperger non fa il nome dell’impresa né specifica se i tank ceduti a Rheinmetall per essere ricondizionati prima dell’invio a Kiev provenivano dalle riserve delle forze armate italiane. Di sicuro, a suo dire, solo che li ha comprati in Italia, ed è comunque sufficiente al quesito giornalistico. Il governo Meloni sapeva della vendita dei panzer? Quando è stata autorizzata la cessione? I Leopard-1 versione A-5 sono stati in servizio nei reparti corazzati italiani fino agli anni Novanta.
Certamente lo sblocco della licenza di esportazione dei Leopard-2 deciso dal cancelliere Olaf Scholz dopo il lungo braccio di ferro con l’amministrazione Biden riguarda anche il rilevante stock di Leopard-1 italiani. Come è pure certificato come l’export della tecnologia bellica made in Germany non riguardi solo singoli mezzi ma ormai intere catene di montaggio.
RHEINMETALL non si accontenta più dei diritti di costruzione del Leopard 2 (fino alla versione A-4) sviluppato in collaborazione con Krauss-Maffei; Papperger fa sapere di essere pronto ad aprire una nuova fabbrica in Ucraina per allestire il nuovo tank “Panther-Light” in materiale composito basato sullo scafo del Leopard-2.
«Dobbiamo mettere gli ucraini in condizione di difendersi da soli. Un impianto del genere non si costruisce da un giorno all’altro. Per questo motivo dobbiamo iniziare a pianificarlo fin da ora. Abbiamo già sviluppato il progetto e lo abbiamo presentato al governo tedesco. La decisione è attesa entro due mesi».
Non esattamente il segnale della pace che si avvicina, anche se per adesso non c’è alcuna autorizzazione del governo Scholz che in parallelo dovrà dare luce verde anche al nuovo impianto per le munizioni Rheinmetall in Sassonia.
«Abbiamo bisogno del sì da parte di Kiev. Non saremo noi a finanziare la fabbrica che dovrebbe essere realizzata dall’Ucraina o da un altro Paese sotto forma di aiuto all’Ucraina. In pratica la costruirebbero gli ucraini e poi noi pagheremmo l’affitto». Così è la prassi aziendale, come dimostra la fabbrica di Rheinmetall in Ungheria; così di fatto funziona il mercato delle armi nell’anno del record degli utili
Commenta (0 Commenti)FRANCIA. Il governo impone la riforma delle pensioni senza voto, ma dovrà affrontare la sfiducia. La piazza ribolle, sindacati sul piede di guerra
Francia, i banchi dell'opposizione durante il voto dell'Assemblea nazionale sulle pensioni - Ap
Una manifestazione spontanea, che ha rapidamente attirato sempre più partecipanti, è stata improvvisata di fronte all’Assemblée nationale verso place de la Concorde, subito dopo la decisione del governo di ricorrere all’articolo 49.3 – che permette di far passare una legge senza voto – per imporre la contestata riforma delle pensioni che alza l’età da 62 a 64 anni. Un corteo non organizzato si è unito alla protesta arrivando dalle rive della Senna.
Nel primo pomeriggio, mentre all’Assemblée nationale i deputati accoglievano con urla o intonando la Marsigliese e esibendo cartelli di protesta l’intervento della prima ministra, Elisabeth Borne, un corteo di studenti è partito dalla Sorbonne, mettendo in campo altre rivendicazioni. Manifestazioni anche in altre città, con lo slogan «Macron dimissioni».
L’INTERSINDACALE si è riunita ieri sera nella sede della Cgt. «Gli scioperi devono ampliarsi» ha affermato il segretario Cgt, Philippe Martinez. Laurent Berger della Cfdt parla di «nuove mobilitazioni, la riforma deve essere abbandonata». Per Force ouvrière il rifiuto del voto all’Assemblée nationale è «un’ammissione di fallimento del governo». La mobilitazione «non è finita» dicono i sindacati, «fino al ritiro della riforma».
Nuova giornata di scioperi giovedì 23. Per Berger la rinuncia al voto parlamentare è «un vizio democratico» di fronte a «una contestazione molto forte». Ieri, in 35 città, tra cui Parigi, è continuata la protesta dei netturbini, malgrado un intervento delle forze dell’ordine per sbloccare un deposito, “giornata morta” nei porti di Nantes-Saint-Nazaire, Le Havre e Brest, scioperi ancora nei trasporti, nei depositi di carburanti, tagli di corrente.
Con la scusa delle Olimpiadi la Francia rompe il tabù dell’IA come sorveglianza di massa
Al mattino, il testo della riforma, rivisto la vigilia dalla Commissione mista paritaria (un cenacolo di 14 parlamentari) è passato al Senato, con 193 voti a favore e 114 contrari. Il governo non ha invece voluto correre il rischio di una bocciatura all’Assemblée nationale, visto che la destra dei Républicain era divisa e c’erano persino dissidenze nei gruppi della maggioranza relativa.
Così, in un clima di tensione crescente, dopo 4 riunioni di crisi all’Eliseo, dalla sera di mercoledì fino a 5 minuti prima dell’inizio della seduta all’Assemblée nationale alle 15, con un veloce Consiglio dei ministri, alla fine Emmanuel Macron e Elisabeth Borne hanno deciso di ricorrere all’arma “nucleare” del 49.3, evitando un voto troppo incerto, ma ammettendo al tempo stesso un’enorme debolezza politica. «Il mio interesse politico e la mia volontà erano di andare al voto – ha spiegato Macron – ma i rischi finanziari e economici sono troppo grandi» per rischiare una bocciatura.
Per il presidente è una grossa sconfitta, che avrà ripercussioni anche sul peso della Francia nella politica internazionale. Nel MoDem, alleato di Macron, c’è chi parla di «crisi di regime». Molti nella maggioranza dichiarano di non capire il ricorso al 49.3, «dovevamo andare al voto, anche a rischio di perdere, lo dovevamo al parlamento».
AL PARLAMENTO L’ITER della legge non finisce con il 49.3: i gruppi parlamentari hanno 24 ore, cioè fino a oggi alle 15.20, per presentare, riunendo almeno il 10% dei deputati, una mozione di sfiducia (censura) contro il governo, che, se approvata, farebbe cadere Borne. Marine Le Pen ha già annunciato la sua: «È il fallimento di Macron, Borne deve dimettersi».
La coalizione di sinistra Nupes potrebbe unirsi dietro la mozione del gruppo Liot (Libertà Indipendenti oltre-mare e territori, 20 deputati di centro) per una “censura” transpartitica, nella speranza di raccogliere più voti. I Républicain hanno annunciato che non voteranno nessuna sfiducia, ma ci sono dei ribelli. Il voto delle mozioni deve avvenire dopo 48 ore, quindi sabato oppure lunedì.
L’opposizione ha poi altre armi: un ricorso al Consiglio costituzionale, che potrebbe contestare vari articoli della riforma e la raccolta di firme per arrivare a un Rip, referendum di iniziativa condivisa (un quinto dei parlamentari e un decimo degli elettori).
In città e in provincia, i figli a difesa dei genitori. Voci dal corteo di Parigi
Borne ha cercato di spiegare le ragioni della negazione del voto – l’undicesimo ricorso al 49.3 per il suo governo – con un discorso quasi inudibile, soffocato dalle urla e dalla Marsigliese della France Insoumise: ha citato il predecessore socialista Michel Rocard, altro governo senza maggioranza assoluta che ha usato 28 volte il 49.3, ha affermato che i deputati hanno espresso dubbi preventivi su un testo di legge che «non era quello del governo, ma era il vostro», uscito dalla Commissione mista la vigilia.
Ha accusato l’ostruzionismo della sinistra, il silenzio sornione dell’estrema destra, l’incoerenza dei repubblicani di fronte a un testo che ha accolto tutte le loro proposte. «La riforma è necessaria», ha insistito. «Schiacciano la democrazia, schiacciano la Francia che lavora, due terzi dei francesi sono contrari, 4 lavoratori su 5, Macron è un estremista, un vero pericolo per la democrazia», ha commentato François Ruffin, deputato della France Insoumise, che parla di «svolta autoritaria»
Commenta (0 Commenti)«Questa volta non ci fermano»: il primo a intonare il peana è Silvio Berlusconi, che il super ponte lo sognava già vent’anni fa. Molto più sobria la premier, che allude però soprattutto alla riforma fiscale: «Lo avevamo promesso e oggi manteniamo l’impegno». Ma il più giubilante è Matteo Salvini che segue a ruota con un video all’insegna dell’iperbole.
Annuncia «la costruzione del ponte più bello, più sicuro e più green di tutto il mondo, che darà lavoro a decine di migliaia di persone per molto tempo». Il decreto che segna lo sparo d’inizio per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina è stato approvato «salvo intese»: clausola che riflette la diversità di vedute registrata nella riunione del governo tra Salvini, che mira all’opera più faraonica dai tempi delle piramidi e i Fratelli, più morigerati.
NESSUN DISTINGUO invece sull’altra «decisione di portata storica» varata dal governo ieri: l’approvazione della delega fiscale che dovrebbe portare, nel giro di due anni, a riscrivere completamente il sistema del fisco italiano. Qui la festa più rumorosa è in casa azzurra, con la capogruppo Ronzulli che palpita: «Aspettavamo questa riforma da cinquant’anni». Ma si frega le mani anche Salvini perché alla fine del lungo percorso c’è, almeno nel progetto, il suo sogno di sempre: la Flat Tax.
La clausola di protezione del «salvo intese» comunque dovrebbe figurare anche qui: la delega è in buona misura un testo in bianco e di intese nei prossimi 24 mesi se ne dovranno trovare parecchie. Il primo scoglio si è presentato già ieri, con un passaggio sulla fiscalità regionale del quale Calderoli ha chiesto e ottenuto lo stralcio perché in collisione con l’autonomia differenziata, la cui approvazione è stata confermata ieri nella medesima riunione.
LA RIFORMA FISCALE prevede il passaggio immediato da 4 a 3 aliquote Irpef, ma l’approdo della Flat Tax entro la legislatura è già nero su bianco. L’Ires dovrebbe essere drasticamente abbassata per chi investe o assume, l’Irap tagliata progressivamente sino alla cancellazione, l’Iva «razionalizzata»: aumenterà per alcuni prodotti, calerà per altri. Le coperture sono il salto nel buio ma se ne discuterà al momento di varare i decreti delegati.
Nelle intenzioni del governo l’iter parlamentare del decreto dovrebbe chiudersi a maggio. Il peccato di ottimismo è quasi certo: una tempistica più affidabile prevede l’approvazione prima della pausa estiva. Ad allungare i tempi sono i due passaggi istituzionali necessari prima di avviare la corsa in parlamento: il vaglio della conferenza Stato-Regioni e quello del Colle. I dettagli reali arriveranno però solo nei due anni seguenti: con i decreti delegati che fisseranno le nuove aliquote, i tagli e le razionalizzazioni e metteranno anche sul tavolo i conti, le coperture al momento fantasmatiche.
SARANNO RISCRITTE infine anche le regole del sistema sanzionatorio sui piani sia amministrativo che penale, tenendo conto della eventuale «sopraggiunta impossibilità di far fronte al pagamento» e dei concordati amministrativi. Si tratta, secondo la formula del ministro Giorgetti, del «passaggio da una lotta all’evasione che diventa preventiva e non più repressiva».
E I TEMPI DEL PONTE, opera costata già miliardi senza che si sia posata una sola pietra? Salvini punta all’approvazione del progetto esecutivo entro il 31 luglio dell’anno prossimo, basandosi sul progetto berlusconiano del 2011 riveduto e corretto. Il decreto, che conta 7 articoli, resuscita la Stretto di Messina s.p.a., controllata alla quale parteciperanno le due regioni interessate e, con quota non inferiore al 51% il Mef.
Nel cda composto da 5 membri due, presidente e amministratore delegato, saranno indicati dal Ministero dell’Economia, due da Calabria e Sicilia, uno da Rfi e Anas. L’azionista di maggioranza è però tenuto a procedere d’intesa con il Mit, al quale competono «le funzioni di indirizzo, controllo, vigilanza tecnica e operativa». Il ponte è e deve essere di Matteo Salvini.
Il consiglio dei ministri di ieri, che ha anche ridisegnato in parte la struttura del Mef, non è uno dei tanti. È uno spartiacque: il governo, dopo la fase di rodaggio, inizia a perseguire sul serio il proprio progetto. Ed è da ogni punto di vista un progetto di destra. Premia chi ha di più, punisce chi ha di meno, penalizza in modo forse irreparabile la transizione ecologica
SECONDA GIORNATA DEL CONGRESSO CGIL. La nuova leader Pd: chiudiamoci in una stanza a parlare. Calenda fischiato, Conte in difficoltà. Ex centro sinistra e M5s concordi: partiamo dalla difesa della sanità pubblica. Oggi arriva la premier dalle 11,30 la diretta su https://www.collettiva.it/
Il dibattito al congresso Cgil di Rimini fra i partiti di opposizione
Era stato l’ultimo a riunirli assieme prima delle elezioni a luglio. È stato il primo a rimetterli a confronto dopo la batosta del 25 settembre. Maurizio Landini, accusato da molti in Cgil di aver lasciato la sinistra sola nella sconfitta, ha portato sul palco del congresso di Rimini la finora sfilacciata opposizione al governo: Elly Schlein, Nicola Fratoianni, Giuseppe Conte e Carlo Calenda per un dibattito concluso con la promessa di rivedersi presto. «Il patto anti Papete» lo ha battezzato la cerimoniera Lucia Annunziata, calata nel ruolo di ricostruttrice dell’opposizione, sottolineando la frase di Elly Schlein: «Chiudiamoci in una stanza finché non troviamo un accordo».
UN DIBATTITO che ha mostrato, da una parte, nuove assonanze fra il Pd e il M5s, dall’altra, abissali differenze con il fantomatico Terzo Polo. Carlo Calenda ha avuto il merito della chiarezza: si è preso i fischi della platea fin da subito spiegando che «con gli altri con ci governerei mai».
Lo scopo del dibattito era capire «se l’opposizione la vogliono fare», aveva spiegato inizialmente Landini, e se «vogliono tornare a dar voce al lavoro».
Le risposte sono state tutte positive, partendo dalla constatazione che «la crisi della democrazia è fatta soprattutto dall’astensionismo dei lavoratori e delle classi più povere che prima votavano a sinistra e ora non si sentono più rappresentate».
Elly Schlein si è impegnata a «riaggrapparli ai fili della politica». Per la nuova segretaria del Pd «se ragioniamo di temi e non di alleanze lo spazio per fare battaglie comuni c’è e il
Leggi tutto: Landini riunisce l’opposizione. Schlein ottiene un primo patto - di Massimo Franchi
Commenta (0 Commenti)