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SINDACATI AL MINISTERO. Cgil e Uil: le priorità al Sud sono altre. Il leader leghista ha mostrato il suo «cantiere-Italia»

 L'incontro fra il ministro Salvini e i sindacati - Foto Twitter Cgil

Non fosse per la solita gaffe sull’annuncio della creazione di un dipartimento sul caro-affitti che invece esiste già, ieri per Matteo Salvini è stata una giornata positiva. Porta a casa il consenso della Cisl rispetto al suo operato come ministro delle Infrastrutture.

Il tutto è avvenuto durante l’incontro al ministero con i sindacati. Oltre a Cgil, Cisl e Uil, era presente l’ormai gettonatissima e salviniana Ugl che ha ben poca rappresentanza ma viene sempre convocata e sostiene il governo talmente tanto da essere premiata con la prossima nomina del suo segretario generale Paolo Capone a presidente dell’Inail.

L’ordine del giorno della convocazione era vastissimo ma Salvini lo ha interpretato a modo suo: ha mostrato ai sindacalisti il «Cantiere-Italia», un libro dei sogni per sedicenti «50 miliardi di lavori pubblici nel 2023, sommando – spiega il titolare del Mite vicepresidente del consiglio – gli interventi in corso e quelli che partiranno quest’anno, tra ferrovie e strade, insomma, una mole incredibile».

Il piatto forte è naturalmente il ponte sullo stretto di Messina per il quale Salvini annuncia trionfante che «tutta l’Italia e l’Europa attendono da 50 anni e, se tutto va bene, sarà transitabile nel 2032». Il costo stimato è di 13,5 miliardi, tutti ancora da trovare perché il Def approvato poche settimane non ne prevede «copertura».
Una dimenticanza che porta il segretario Uil Pierpaolo Bombardieri a regalare a Salvini «un ponte in miniatura: se non riesce sullo Stretto può costruire questo. Provenie dalla Cina… me ne sono accorto dopo», confessa.

Il confronto è stato «positivo», dicono Cisl, Uil e Ugl. Parla di «un incontro informativo cpn troppa carne al fuoco» la Cgil con la vicesegretaria generale Gianna Fracassi, che sul Ponte resta critica: «Non è un priorità in questo momento. Ora è necessario dare risposta alla mobilità delle persone, rafforzando la viabilità stradale e ferroviaria, e allo sviluppo industriale».

Linea simile da Bombardieri: «Siamo a favore degli investimenti ma c’è un problema di infrastrutture che portano al Ponte e abbiamo chiesto garanzie su altre opere, a partire dall’Alta velocità ferroviaria che ora si ferma a Eboli, e dalla statale 106 dove mancano i tratti Crotone-Sibari e Catanzaro-Reggio Calabria».

Invece la Cisl col segretario confederale Andrea Cuccello, presente al posto di Gigi Sbarra, assente per Covid, si dice convinta che «possa costituire un volano straordinario per tutto il sistema infrastrutturale del Sud» ed è contenta che si sia parlato della «difficoltà a reperire personale per cantieri».

Non manca il tema del Codice degli appalti con il «no» ribadito dai sindacati al subappalto a cascata, ma sempre con il distinguo della (Filca) Cisl che non partecipò alla manifestazione di Fillea Cgil e Feneal Uil.

Sabato Cgil, Cisl e Uil saranno di nuovo in piazza insieme a Milano (il 20 la terza manifestazione a Napoli) per la mobilitazione unitaria. Sperando che la Cisl non parli di ponte di Messina.

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GOVERNO. Meloni lo invoca per cambiare la Costituzione, anche da sola. Ma ha i numeri solo grazie al premio di maggioranza e non ha mai proposto l'elezione diretta del presidente del Consiglio

Riforme, il mandato popolare che non c’è Palazzo Chigi - Ansa

Come in un maggio di tanti anni fa a Milano un altro prima di lei disse «Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca», intendendo la corona, Giorgia Meloni ripete che il popolo le ha dato il mandato di riformare la Costituzione e guai a chi glielo tocca. Cercherà, dice, un’intesa con le opposizioni (o con una opposizione), ma se non la trova farà da sola, dice, «per non venire meno agli impegni con i cittadini».

Proporsi di modificare la Costituzione radicalmente, cambiando addirittura forma di governo, si può anche fare, per quanto sia discutibile che uno stravolgimento profondo dell’assetto istituzionale sia compatibile con lo strumento dell’articolo 138, pensato per puntuali «revisioni». Però per cambiare bisognerebbe conoscere da dove si parte. E per la Costituzione che abbiamo i cittadini elettori non hanno dato né a Meloni né al centrodestra alcun mandato a riscrivere le regole comuni del gioco. Perché a settembre 2022 hanno votato per eleggere deputati e senatori, a loro volta incaricati di esprimere la fiducia al governo. E non è compito del governo riscrivere la Costituzione, neppure se dice di volerlo fare – ma questo è ovvio – non per se stesso ma per chi verrà dopo di lui.

L’opposizione avrebbe potuto ricordarlo con più forza. Invece aderendo al rito delle convocazioni della premier – a prescindere dalle affinità o divergenze nel merito – a rinunciato a smontarle il teatrino e in qualche modo l’ha legittimata nella sua pretesa di dare le carte.

Ma a proposito di mandato popolare, è proprio vero che Meloni può – e quasi deve, a sentir lei – procedere verso l’elezione diretta del presidente del Consiglio perché i cittadini l’hanno votata per questo? In realtà no. Dopo il giro di consultazioni di martedì, in effetti, la formula con meno contrarietà nelle opposizioni risulta essere il premierato. Nel senso che un gruppo di opposizione – o mezzo gruppo, visto che Calenda è assai meno deciso di Renzi – si è sfilato dal resto dichiarandosi favorevole a quello che loro chiamano «il sindaco di Italia». Meloni quindi ha spiegato che si orienterà verso una formula di quel genere per essere più inclusiva. Questo però vuol dire appunto mediare e quindi rinunciare alla sacralità del mandato elettorale. O l’una o l’altra.

In nessuno dei programmi dei quattro partiti di maggioranza è presente, neanche con un vago richiamo, un’ipotesi di scuola, un periodo ipotetico, la formula dell’elezione diretta del presidente del Consiglio. C’è per tutti – Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e anche Noi moderati – solo la soluzione del presidenzialismo, semi o integrale. Meloni dice: sì, però in quei programmi è indicato il problema al quale si vuole rimediare, l’instabilità. Per questo va bene anche l’elezione diretta del capo del governo. Ammesso che sia efficace, però, se il punto è trovare rimedio al problema le soluzioni possono essere anche altre, molte delle quali indicate dai partiti di opposizione negli incontri di martedì. In ogni caso Meloni si richiama alla purezza del mandato popolare per marciare spedita, anche da sola, però subito annuncia che intende non seguirlo.

Si può pesare, questo presunto mandato popolare? Si può, perché le elezioni del settembre 2022 hanno consegnato due risultati diversi, uno in termini di voto popolare e uno in termini di seggi parlamentari. La legge elettorale e le divisioni degli avversari hanno regalato al centrodestra il più grande premio di maggioranza che ci sia mai stato da quando le leggi maggioritarie sono arrivate in Italia. Meloni governa grazie al fatto che sono con lei quasi il 60% dei deputati e il 57% dei senatori, ma nel voto popolare le destre tutte insieme non sono arrivate al 44%. Dunque il suo è un mandato popolare di minoranza. Un non mandato. Se ha la forza per cambiare la Costituzione con la maggioranza assoluta (che è sufficiente, anche se poi si può chiedere il referendum), e se riesce a mettersi d’accordo, questo governo ce l’ha non come conseguenza del voto proporzionale ma per la distorsione maggioritaria che è presente nella legge elettorale.

Non è un calcolo solo teorico, ha risvolti assai pratici. Perché se si decidesse di far nascere una commissione bicamerale per le riforme – secondo uno dei tanti modelli, tutti diversi, sperimentati in passato -, questa andrebbe composta sulla base del voto popolare, quindi del proporzionale. E non sulla base della consistenza dei gruppi, drogata dal premio di maggioranza. Piccolo particolare: in una commissione che rispettasse il criterio proporzionale, le destra non avrebbero la maggioranza. Ma, appunto, il 44% dei (40 o 60 stando ai precedenti) componenti. Troppo azzardato? È possibile anche una mediazione, quella prevista dallo schema della commissione per le riforme proposta ai temi del governo Letta, che andò vicinissima a essere approvata. Una via di mezzo: la bicamerale sarebbe composta tenendo conto sia del voto alle liste che della dimensione dei gruppi. La destra avrebbe così la maggioranza, ma non sarebbe schiacciante.

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ROMA. Oggi alle 16 mobilitazione in Campidoglio

 Il Museo dell'altro e dell'altrove - Giansandro Merli

A una settimana dal corteo in difesa di Metropoliz e Museo dell’altro e dell’altrove (Maam), minacciati di sgombero, una nuova mobilitazione sul tema casa andrà in scena oggi nella capitale. Alle 16 movimento per il diritto all’abitare, Spin Time, Asia-Usb e Nonna Roma convocano un’assemblea davanti al Campidoglio per discutere del Piano casa che sta per approdare in giunta. La singolarità dell’appuntamento è che non si tratta di una protesta contro la misura che definirà la strategia dell’amministrazione guidata da Roberto Gualtieri (Pd). Al contrario: la richiesta è approvarla subito.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Che ne sarà del museo abitato

«Aspettiamo questo Piano casa con ansia, insieme a migliaia di uomini e donne che in città sono minacciati da uno sfratto, per morosità o finita locazione, da uno sgombero o semplicemente non riescono ad accedere a un alloggio per affitti troppo alti o mutui in costante rialzo», scrivono i promotori. Il Piano casa è frutto di un lavoro di confronto lungo un anno e mezzo tra l’amministrazione capitolina, in particolare l’assessorato a Patrimonio e politiche abitative di Tobia Zevi, le organizzazioni che si battono per il diritto alla casa e gli altri soggetti coinvolti sul tema. Definisce un approccio organico alla questione, insieme a un cronoprogramma di interventi e allo stanziamento di fondi. «Questa amministrazione ha investito tanto sulle politiche abitative, raccolte nel Piano casa e già operative dal nostro arrivo: 220 milioni per comprare nuovi alloggi popolari, quasi 500 assegnazioni, due palazzi sgomberati pacificamente e nemmeno una nuova grande occupazione. Vogliamo ripristinare la legalità senza lasciare nessuno per strada, dando prova di umanità e buon governo», afferma Zevi.

Quattro le linee di azione: reperimento di nuovi alloggi; rafforzamento dei programmi di recupero e autorecupero; revisione delle misure di welfare sulla casa; individuazione di nuovi strumenti di monitoraggio e governance. Rispetto al primo punto sono già stati acquistati 199 immobili Inps di cui 120 a scopo abitativo, con una spesa di circa 15 milioni di euro. L’obiettivo è far scorrere le graduatorie di chi ha diritto a una casa popolare. A oggi sono 13mila i richiedenti. L’amministrazione vuole rispondere entro il suo mandato almeno ai 3mila con punteggi più alti, che dunque versano in maggiori difficoltà. Previsto anche un rafforzamento degli strumenti di welfare «a scopo preventivo più che riparativo»: cioè sostenere economicamente chi ha problemi prima che incorra il rischio sfratto.

«Il Piano non deve subire stravolgimenti. È frutto di un dibattito onesto. Dopo il passaggio in Giunta andrà in Consiglio: è importante si approvi rapidamente, non si può arrivare a fine anno. È quello di cui Roma ha bisogno. Le criticità possono essere legate alla sua attuazione, al momento delle delibere attuative», afferma Emiliano Guarneri, segretario generale di Sunia-Cgil Roma. Secondo Angelo Fascetti, di Asia-Usb, «per la prima volta Roma affronta seriamente la questione abitativa. È un importante punto di partenza. Avevamo chiesto di stanziare 1 miliardo, complessivamente saranno 500 milioni: si tratta comunque di fondi importanti. Ma bisogna fare presto perché ci sono tantissime persone in situazioni di estrema precarietà. L’unico punto dolente è la mancanza di interventi diretti per scongiurare le migliaia di sfratti che incombono sulla città».

Il documento affronta anche la vicenda delle occupazioni di Spin Time e Metropoliz/Maam. «In considerazione della loro specificità sotto il piano abitativo, aggregativo e culturale, nel corso del 2023 sarà valutata la fattibilità dei progetti di recupero», si legge. Tradotto: il Comune proverà ad acquisirli. «È un altro segnale positivo – afferma Paolo Di Vetta, del movimento per il diritto all’abitare che nel 2009 ha occupato l’area dove si trovano Metropoliz e Maam – I tempi sono stretti: pende una minaccia di sgombero. Se l’amministrazione non si muove rapidamente si rischiano problemi. Ma siamo fiduciosi»

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ISRAELE/TERRITORI OCCUPATI. Operazione a Gaza, tra le vittime donne e bambini. Le fazioni palestinesi: risponderemo
 

Nel clima cupo che annuncia una nuova guerra, sanguinosa e distruttiva, tanti a Gaza ieri hanno versato lacrime vere per la morte di un uomo stimato da tutti, morto lunedì notte assieme alla moglie Mervat e al figlio maggiore Yusef nel bombardamento israeliano della loro casa nel centro di Gaza city. Non si tratta di uno dei comandanti del Jihad islami – Jihad al Ghanam, Khalil al Bahtini, Tareq Ezzedin – presi di mira e uccisi nella prima fase dell’operazione israeliana «Scudo e Freccia». Bensì un medico stimato, un dentista, Jamal Khaswan, 52 anni, palestinese in possesso di un passaporto russo ottenuto durante gli studi di medicina fatti nella ex Urss. Khaswan, che lascia altri due figli orfani, ha avuto il «torto» di abitare con la sua famiglia nell’appartamento sottostante a quello di Tariq Ezzedin, le cui sorelle, Dania e Iman, di 19 e 14 anni sono state trovare senza vita sotto le macerie. Senza dimenticare i quattro bambini, sui 15 palestinesi uccisi fino a ieri sera, che hanno pagato a caro prezzo il fatto di essere figli o parenti dei bersagli dell’attacco israeliano. Nel corso del bombardamento contro la casa di Al Bahtini, è morta anche la figlia di cinque anni, Hajar, rimasta uccisa insieme alla cugina Laila. Nell’attacco a Tareq Ezzedin, sono rimasti uccisi i suoi figli di nove e i dieci anni, Ali e Mayar el Din. Nell’attacco contro Ghannam è stata uccisa la moglie Wafa. Tra i feriti ci sono tre bambini e sette donne.

Questo bilancio salirà nei prossimi giorni. L’attacco a sorpresa su Gaza conduce inevitabilmente a un conflitto più ampio, non solo con il Jihad Islami ma anche con Hamas e le altre fazioni armate palestinesi. Si teme anche con Hezbollah in Libano. Ieri sera tutti si attendevano la risposta delle fazioni armate palestinesi che sono rimaste riunite per ore nella «war room» di Gaza. I media israeliani sostenevano che il governo Netanyahu vorrebbe tenere fuori dal conflitto Hamas, la principale forza militare a Gaza. Ma di fronte a un attacco tanto ampio e sanguinoso il capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, ha fatto immediatamente sapere che «il nemico ha fatto un errore nelle sue stime e pagherà il prezzo del suo crimine» e che «l’aggressione ha preso di mira tutto il nostro popolo e la resistenza è unita nell’affrontarla».

Il premier Netanyahu dando il via libera a «Scudo e Freccia» sapeva che avrebbe scatenato una nuova guerra. Lo provano le sue dichiarazioni. «Siamo nel bel mezzo di una campagna e siamo pronti a qualsiasi possibilità», ha affermato Netanyahu pronto a una «guerra su più fronti», anche con l’Iran. «Dal giorno in cui sono stati lanciati i razzi la scorsa settimana, ho incaricato, insieme al ministro della Difesa, di preparare un’operazione per sconfiggere i leader terroristi. Di fatto, i vertici dell’organizzazione terroristica sono stati decapitati», ha commentato Netanyahu. Lo conferma anche la decisione del governo israeliano di procedere oggi all’evacuazione di 4.500 civili dalla città di Sderot, a pochi chilometri da Gaza, in previsione della pioggia di razzi che quasi certamente si abbatterà sul sud di Israele. Nel resto di Israele, tra Tel Aviv e Bersheeva, la popolazione si prepara al conflitto aprendo i rifugi. Gli ospedali sono in stato di allerta. Potrebbe essere coinvolta anche quella che vive a nord, se Hezbollah scenderà in campo. In ogni caso l’ex premier Yair Lapid e l’ex ministro nella difesa Benny Gantz hanno dato la loro approvazione allo scontro. Lo scorso agosto Lapid diede l’ordine di attaccare Gaza e la Jihad islamica nel quadro di offensiva militare che ricorda quella cominciata lunedì notte e che fece una cinquantina di morti.

A Gaza due milioni e 300 mila civili palestinesi non hanno alcun rifugio dove poter cercare riparo da bombe e missili e nemmeno ospedali attrezzati in grado di assistere nel migliore dei modi la massa di feriti che tutti si aspettano. Dalle guerre del 2008, 2012, 2014 e 2021, Gaza è uscita devastata oltre a subire migliaia di morti e feriti. Le conseguenze saranno altrettanto catastrofiche se avrà inizio un nuovo conflitto.

Per ora l’offensiva israeliana non raccoglie gli applausi del mondo. Il coordinatore speciale dell’Onu per il Medio oriente, Tor Wennesland, ha condannato l’uccisione di civili a Gaza. «È inaccettabile», ha detto «Esorto tutte le parti interessate a esercitare la massima moderazione e a evitare un’escalation. Rimango impegnato nel tentativo di evitare un conflitto più ampio con conseguenze devastanti per tutti». La Francia ha ricordato «gli obblighi di protezione dei civili e del rispetto del diritto internazionale umanitario che incombono su Israele». Pronta la replica del ministro israeliano della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, che ha attaccato l’Europa dopo la decisione di annullare il ricevimento in occasione della «Giornata dell’Europa» prevista ieri per impedire a Ben Gvir di partecipare come rappresentante del governo israeliano

 
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Dalla trappola delle consultazioni di governo esce lo spot di Meloni «Mandato del popolo per cambiare la Costituzione, gli altri divisi»

La premier costituente spaventa le opposizioni «Farò l’elezione diretta» 

Dialogano, ma per dire una il contrario dell’altra. A sera l’ultima consultazione della presidente del Consiglio dura il doppio delle altre e uscendo dopo due ore la segretaria del Pd Elly Schlein racconta di aver alzato un muro davanti alle proposte di Giorgia Meloni. Le ha detto anche che la modifica della forma di governo «non è una priorità del paese» e che le cose più urgenti sono altre: sanità, lavoro, scuola, ambiente. Persino nel capitolo riforme bisognerebbe guardare altrove, cominciare con la riforma elettorale e finire con quella dei partiti, comunque niente elezione diretta.

Giorgia Meloni

L’ipotesi del suffragio universale sul premier è quella che ha ricevuto una maggiore apertura. Sulla bicamerale il dibattito è aperto
Né del presidente della Repubblica né del presidente del Consiglio, secondo la formula della «doppia busta» che Meloni continua a offrire alle opposizioni, solo perché così potrà dire di aver scelto quella che almeno un pezzo dell’opposizione ha accettato. Si tratta di Renzi e Calenda, naturalmente, che insistono con il «sindaco di Italia». Soluzione peggiore, perché otterrebbe il risultato opposto di quello che contrabbandano: metterebbe in mora il capo dello Stato e farebbe del parlamento l’ostaggio del premier. Altro che sfiducia costruttiva.

MA È PROPRIO LÌ che il circo delle riforme costituzionali messo su da Meloni con scenografia degna delle consultazioni quelle vere, per la formazione del governo, va a parare. E l’umore delle opposizioni – Renzi e Calenda esclusi – volge al brutto, prevale l’idea che Meloni non si fermerà, anche sapendo

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APPROVATA UNA MOZIONE ALLA CAMERA. Bonelli (Versi): «Pronti a un terzo referendum». E attacca Calenda: «Alleato di Meloni»

 

E’ come fare un salto indietro nel tempo di 36 anni e tornare a prima del 1987, anno in cui con un referendum gli italiani si espressero chiaramente contro l’energia nucleare. Un no poi ribadito nel 2011 con un secondo referendum, ma annullato ieri alla Camera grazie al voto su una mozione della maggioranza che introduce anche il nucleare nel mix energetico nazionale come «fonte alternativa e pulita per la produzione di energia». Un colpo di spugna che riapre la strada alle centrali nucleari nel nostro paese e reso possibile anche grazie ad Azione e Italia viva che hanno votato con il centrodestra. Ringrazia il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin secondo il quale «il nucleare di quarta generazione, secondo gli scienziati, è sicuro quanto pulito». Esulta Matteo Salvini: «l’Italia non può permettersi di essere fermata dai no pregiudiziali», dice il ministro dei Trasporti.

Inevitabilmente, la scelta del Terzo polo viene vista come un tradimento: «Votando con la destra – attaccano Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni di Alleanza Verdi e Sinistra – conferma le parole della premier Meloni che aveva già individuato in Calenda un suo possibile alleato». E Bonelli promette un terzo referendum che, annuncia, questa volta «sarà tra innovazione e conservazione».

La mozione votata ieri era stata presentata alla Camera da 46 deputati di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Fra le altre cose impegna il governo «al fine di accelerare il processo di decarbonizzazione dell’Italia, a valutare l’opportunità di inserire nel mix energetico nazionale anche il nucleare quale fonte alternativa e pulita per la produzione di energia». Il documento chiede inoltre all’esecutivo di «partecipare attivamente, in sede europea e internazionale, a ogni opportuna iniziativa volta ad incentivare lo sviluppo delle nuove tecnologie nucleari» con lo scopo di «includere la produzione di energia atomica di nuova generazione all’interno della politica energetica europea».

Calenda rivendica come un successo l’esito del voto alla Camera: «Un passo avanti nel tentativo di smantellare la narrazione ideologica e demagogica contraria all’utilizzo di questa tecnologia», scrive su Twitter il leader di Azione. «Avanti così. Senza il nucleare è impossibile raggiungere la neutralità climatica entro il 2050».

Non la pesa allo stesso modo il vicepresidente della camera Sergio Costa (M5S)che definisce il voto a Montecitorio «una foglia di fico: si parla di nucleare di quarta generazione che di fatto non esiste, un nucleare definito addirittura pulito e sostenibile. Una chimera, non esiste in nessun altro paese». Per il dem Christina Diego, invece, «la maggioranza vuole riportare sul tavolo una discussione in modo approssimativo, confuso, senza alcuna strategia», mentre invece servirebbe prima finire di smantellare le vecchie centrali, fare i deposito nazionale delle scorie e poi concentrarsi sulla fusione

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