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UNO SCHIAFFO ALLA DIGNITÀ E ALLA GIUSTIZIA. Arriva la card «Dedicata a te» contro l’inflazione: 382,5 euro fino a dicembre, esclusi i beneficiari del reddito di cittadinanza. Un altro bonus a termine che riproduce i limiti dello Stato sociale arlecchino in Italia. Ma la nuova trovata non servirà a scacciare lo spettro della povertà

Con un caffè al giorno il governo non scaccia lo spettro della povertà Il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti e quello dell’agricoltura Francesco Lollobrigida con la Card «Dedicata a te - LaPresse

Con 382 euro fino a dicembre, 32 al mese, sembra che passerà la paura della povertà aggravata dall’inflazione. Al governo basteranno 500 milioni per finanziare un altro bonus a tempo, erogato con una carta elettronica dal nome ammiccante e populista «Dedicata a te» a una platea potenziale di «1,3 milioni di famiglie». Con poco più di un caffè al giorno intende dimostrare «di fare del proprio meglio per dare una mano» contro il caro prezzi. Lo ha annunciato la presidente del consiglio Meloni. Ma una mancia non servirà a scacciare lo spettro.

IN EFFETTI bisogna dare il proprio meglio per comprendere la logica delle ingiunzioni paradossali che ha spinto il governo prima a depennare una platea potenziale di almeno 400 mila nuclei familiari in condizioni di «povertà assoluta» con almeno un membro ritenuto «occupabile» dal beneficio del «reddito di cittadinanza» (in media 580 euro al mese) che sarà ridenominato «assegno di inclusione» dal prossimo gennaio (i dati sono dell’Ufficio parlamentare di bilancio). E poi a prospettare, dal prossimo 18 luglio, un altro bonus dall’effetto inconsistente, se non proprio risibile rispetto alla perdita di potere di acquisto che colpisce maggiormente le famiglie con redditi bassi e bassissimi.

CI VUOLE UNO SFORZO supplementare di fantasia per capire che,

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QUANTO CI COSTA IL RIARMO. A Vilnius ha preso avvio ieri un vertice Nato tra i più importanti, ed enigmatici, degli ultimi anni. A seguito dell’invasione russa in Ucraina del febbraio 2022 l’Alleanza sembrerebbe oggi […]
 

A Vilnius ha preso avvio ieri un vertice Nato tra i più importanti, ed enigmatici, degli ultimi anni. A seguito dell’invasione russa in Ucraina del febbraio 2022 l’Alleanza sembrerebbe oggi in piena salute e sicuramente lontana da una routine sterile. E poco determinante, la stessa che portò il presidente francese Macron a definirla in «stato di morte cerebrale» meno di quattro anni fa. Ma una serie di elementi smentisce questa lettura poco attenta.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

I problemi «a grappolo» del vertice Nato di Vilnius
Il primo indizio di una situazione di acque turbolente sotto una superficie calma è chiaramente la decisione di allungare il mandato, naturalmente in scadenza, del segretario Jens Stoltenberg per mancanza di accordo sul nome del successore. Evento non consueto per una organizzazione come l’Alleanza Atlantica abituata a ricambi regolari e senza scossoni. Negli ultimi giorni altro elemento di tensione si è avuto a causa della fornitura all’Ucraina di munizioni a grappolo statunitensi, con le poco usuali prese di posizione critiche (anche molto esplicite) di tanti Governi dell’Alleanza, quasi tutti aderenti alla Convenzione internazionale che proibisce questo tipo di armi inumane. E poi il dilemma sull’adesione dell’Ucraina, con gli stessi Usa titubanti ma Zelenskyj e molti «falchi» nei Paesi membri in continua pressione.

Senza dimenticare il tira e molla con Erdogan sull’ammissione della Svezia (un colpo duro per tutti quelli che hanno sempre apprezzato le posizioni di neutralità politica proattiva), pare risolto solo in extremis grazie ad una contrattazione tra Ankara e Washington che ha coinvolto la fornitura dei caccia F-16 e l’appoggio all’entrata nell’Unione europea. La vera sconfitta di tutta questa dinamica, con un processo di erosione delle proprie prospettive di trasformazione in attore politico (e di difesa) internazionale iniziato con il Concetto Strategico Nato approvato l’anno scorso a Madrid e conclusosi con le decisioni di riarmo forzato che sanno sempre più avvantaggiando l’industria militare statunitense. Una questione su cui sarà opportuno ritornare a ragionare.

Proprio l’aumento delle spese militari sembra essere l’unico aspetto su cui è presumibile una convergenza non solo di dichiarazioni ma anche di decisioni conseguenti. È risaputo come il tema del raggiungimento della soglia del 2% rispetto al Pil sia sul tavolo da tempo, con una prima dichiarazione in tal senso definita nel 2009 da una riunione dei ministri della Difesa e la conferma nel Summit ai capi di Stato e di governo del 2014 in Galles, dopo l’invasione della Crimea. Il trend verso quella che, diversamente dall’obbligo che viene spesso millantato, la stessa Nato considera una “guideline” non era stato però preso davvero sul serio e realizzato prima dell’inizio del conflitto in Ucraina del 2022.

Le stime dell’Alleanza per il 2023 sono in tal senso significative: la Polonia con il 3,9% ha superato gli Usa (3,5%) al vertice di questa classifica, con poi Grecia, Estonia, Lituania, la neo entrata Finlandia, Romania, Ungheria, Lettonia, Regno Unito e Slovacchia sopra il 2%. Tutti gli altri sono sotto: dalla Francia all’1,9% alla Germania all’1,57% all’Italia con l’1,46% previsionale. Ma sono i valori assoluti a dare l’idea di quanto sia stata forte l’accelerazione: l’Alleanza Atlantica proietta sul 2023 un aumento annuo percentuale dell’8,3% per un totale a valori correnti di circa 1.260 miliardi di dollari (a valori costanti comparabili l’aumento netto in 10 anni è stato di circa 200 miliardi). La comparazione possibile sul 2022 grazie ai dati Sipri è chiara: la Nato (con 1.232 miliardi) spende 14 volte più della Russia (87 miliardi) e oltre 4 più della Cina (292 miliardi): come si può giustificare un ulteriore apertura della forbice (che accumulando gli anni diventa ancora più marcata) evocando come minaccia chi è chiaramente sovrastato in spesa militare?

Senza peraltro che ci sia un miglioramento globale: nonostante un quasi raddoppio della spesa militare globale in questo secolo secondo il Global Peace Index negli ultimi 15 anni il mondo è diventato meno pacifico, con un aumento dei conflitti del 14% e un crollo del tasso di sicurezza del 5,4%.
Su tutti questi aspetti problematici rimane il silenzio di gran parte della politica, anche progressista, sui due lati dell’Atlantico. Incapace di pensare a possibili scenari alternativi rispetto a quello che sembra ormai essere davvero un sistema di guerra (o quantomeno un sistema militarizzato) nonostante la gran mole di problemi globali che il mondo sta affrontando. Tutti chiaramente non risolvibili con le armi. Per questo è ancora più cruciale il ruolo della società civile, e non a caso proprio in concomitanza con il Vertice Nato la Campagna Sbilanciamoci, Greenpeace Italia e la Rete Italiana Pace e Disarmo hanno deciso di rilanciare una serie di richieste incentrate sullo spostamento delle risorse attualmente destinate all’ambito militare verso impieghi di natura civile più urgenti, utili ed efficaci. In collegamento con la Global Peace Dividend Initiative promossa da decine di Premi Nobel e con la Campagna Globale contro le spese militari.

* Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace Disarmo

 
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GIUSTIZIA. In una settimana di tempesta, la presidente del consiglio non ha trovato neppure un attimo per occuparsi dello scontro istituzionale da lei stessa provocato con la dichiarazione di guerra contro la magistratura fatta firmare dalle «fonti»

Giorgia Meloni svicola e sguscia: «Scusate sono in ritardo. Ne parliamo dopo il vertice Nato». Alberto Sordi in una commedia all’italiana non avrebbe saputo far peggio. In una settimana di tempesta, la presidente del consiglio non ha trovato neppure un attimo per occuparsi dello scontro istituzionale da lei stessa provocato con la dichiarazione di guerra contro la magistratura fatta firmare dalle «fonti», in quel caso senza perder tempo per riflettere sulle conseguenze.

Nella storia italiana recente l’invadenza della magistratura è un dato di fatto che solo chi ne ha più volte approfittato può negare.

In questa occasione la reazione era invece del tutto ingiustificata, sia nel caso nella sgangherata esibizione della ministra del turismo al senato sia in quello di un’imputazione coatta ai danni del sottosegretario Delmastro che, sulla base delle motivazioni della richiesta d’archiviazione della procura di Roma, era nell’ordine delle cose.

L’errore iniziale è stato però amplificato e moltiplicato da un mutismo della premier che, col passare dei giorni, è diventato non solo increscioso ma quasi surreale. Una magistratura che, quanto a forza e potere, è ridotta all’ombra pallida di quel che è stata non ha in tutta evidenza intenzione di muovere guerra a questo governo. La premier, prima dei fattacci in questione, era e non vede l’ora di tornare a essere altrettanto poco bellicosa. L’ordine alla truppa è stato per mesi quello di evitare scontri col potere togato. A gestire la faccenda, più dell’imbarazzante guardasigilli, è il sottosegretario Mantovano, magistrato e campione del dialogo con gli ex colleghi. La separazione delle carriere, cioè la sola scelta che innescherebbe davvero l’armageddon tra governo e magistrati, resta nel programma e serve solo a gonfiare gli annunci. La reazione scomposta di Giorgia Meloni e la successiva afasia appaiono quindi quasi inspiegabili.

Inspiegabili sono davvero, se si continua a fingere che il conflitto in corso riguardi la riforma della giustizia e che la destra che governa in Italia conservi ancora qualche pur vaga pulsione garantista. La realtà è opposta: per cultura politica, tradizione storica e attitudine personale la premier è casomai «galerista». La sola idea di entrare in conflitto con qualsivoglia tutore dell’ordine, in divisa o in toga, la costerna e prosterna. L’impegno a sfidare una volta per tutte il potere della magistratura era il prezzo convenuto con Silvio Berlusconi, ma il Cavaliere non c’è più e in ogni caso anche con lui vivente la nuova leader della destra non lo aveva preso troppo sul serio.

La reazione esagitata della premier non va addebitata a una reale intenzione di riformare radicalmente la giustizia, anche a costo del conseguente conflitto tra poteri dello Stato, ma molto più modestamente alla tendenza del capofazione a difendere sempre e comunque i suoi, a interpretare come affronto qualsiasi critica aspra rivolta a chi le è vicino. Anche quando, come nel caso Santanchè, di lealtà da parte loro ne hanno mostrato poca o punta, e figurarsi quando di mezzo ci sono un fedelissimo come Delmastro o un parente stretto come il presidente del Senato La Russa. Senza quei legami familiari è infatti probabilissimo che la presidente del consiglio avrebbe in qualche modo segnalato la disapprovazione per un tentazione di criminalizzare la presunta vittima.

L’imbarazzo della premier deriva dalla contraddizione tra la ragione politica, che la spinge a chiudere il prima possibile un conflitto che ha sempre voluto evitare, e la reazione emotiva che le ordina di chiudersi sempre a riccio in difesa dei suoi, considerando nemico chiunque osi metterli in discussione. Non è una reazione inconsulta. È il riflesso tipico delle formazioni politiche e dei partiti underdog: piccoli, sempre perseguitati dalla sindrome dell’accerchiamento, non scevri da venature paranoiche, convinti di poter resistere solo in virtù di una solidarietà sconfinante nel vincolo omertoso. Il problema di Giorgia Meloni non è togliere la fiamma del Msi dal simbolo del suo partito. È togliersela dalla testa: impresa più ardua

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A quattro giorni dalla velina di palazzo Chigi contro i magistrati e a tre dall’ennesimo «caso» La Russa, Meloni evita di esporsi sulla giustizia e dribbla i giornalisti: «Sono in ritardo». L’Anm manda segnali di tregua, nuove rivelazioni di «Report» su Santanchè

POLITICA. Santalucia: «Da parte nostra nessuna volontà di scontro, solo diritto di critica». La premier ai giornalisti: «Sono in ritardo»

 Giorgia Meloni - foto Ansa

Evitare lo scontro diretto. Almeno finché si può. Dopo un weekend di fuoco e fiamme e polemiche incrociate, mentre Giorgia Meloni continua a scansare accuratamente l’argomento giustizia, come ha fatto ieri in Lettonia, l’Anm lancia segnali di tregua al governo, nell’auspicio di non tornare indietro agli anni durissimi della guerra senza quartiere tra la destra italiana e la magistratura. Erano altri tempi, si dirà, e sicuramente erano un’altra destra e un’altra magistratura, ma certi riflessi condizionati sono duri a morire e si riaffacciano a cadenza periodica. Adesso in ballo c’è una riforma della giustizia annunciata come storica ma che, sin qui, è ancora molto vaga e, soprattutto, non proprio imminente.

«DA PARTE NOSTRA nessuna volontà di scontro, né ce ne sarà nel futuro. Se poi per scontro si intende esercitare un diritto di critica tecnica, l’equivoco non dipende da noi», ha detto

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A due settimane dall’apertura delle urne, l’elettorato di sinistra inizia a mobilitarsi. L’estrema destra radicalizza ancora la campagna elettorale per differenziarsi
Elezioni in Spagna, il Psoe accorcia le distanze dal Partido polular. Vox in cerca di voti Pedro Sanchez - Ap

Iniziata in Spagna da un paio di giorni la campagna elettorale per le elezioni del 23 luglio, i sondaggi continuano a dare come più probabile la vittoria del Partido Popular e la formazione di un governo di coalizione tra Pp e Vox. Però qualcosa si starebbe muovendo nelle ultime due settimane, lentamente ma con una tendenza che sembra rafforzarsi con il passare dei giorni: il Psoe avanza e accorcia le distanze con il Pp e lo fa senza intaccare la percentuale di voti di Sumar, in lizza con Vox per il terzo posto. Il che vuol dire che l’elettorato di sinistra comincia a mobilitarsi, facendo recuperare terreno al blocco progressista. Anche perché se qualcuno nutrisse dubbi sulla pericolosità di un eventuale governo spagnolo frutto di un’alleanza tra popolari ed estrema destra, gli basterebbe scorrere le pagine del programma elettorale di Vox per coglierne la portata reazionaria.

Mentre la strategia di campagna di Sumar è improntata a confutare il ritorno del bipartitismo classico, che molti di quelli che contano vorrebbero consacrato in una futura grande coalizione; il candidato presidente Pedro Sánchez sceglie di andare all’attacco dei media che sostengono apertamente il blocco reazionario. Per ribaltarne la narrazione, si lascia intervistare da quelle televisioni che nel corso della legislatura si sono sempre scagliate contro l’operato del suo governo. E dimostra che la partita è ancora aperta e l’esito tutt’altro che scontato. A sostenerlo in questo inizio di campagna, c’è, attivissimo nelle manifestazioni e nei plateau televisivi, il suo predecessore José Luis Rodríguez Zapatero.

Da tempo le sinistre spagnole allertano contro il pericolo di un governo ultra conservatore quale sarebbe quello nato dall’alleanza tra Partido Popular e Vox. Lo si è visto nelle intese raggiunte tra i due partiti successivamente alle elezioni regionali e municipali dello scorso 28 maggio: negli oltre 100 accordi siglati nei municipi e in quello di governo delle tre Comunità Autonome in mano alle destre, il programma ha assunto la dottrina e le proposte di Vox, tanto da creare un certo clamore, subito silenziato, all’interno dello stesso Pp.

Colpisce, in particolare, la censura che in molte località della Spagna governate da Pp e Vox, si sta attuando nei confronti di eventi culturali. È stata così proibita un’opera di Virginia Woolf sull’omosessualità, è stato censurato l’ultimo film di animazione di Buzz Lightyear per il bacio tra due donne, è stata cancellata un’opera teatrale in omaggio a un maestro repubblicano, è stata contestata un’opera di teatro di Lope de Vega.

Nel suo programma, Vox promette interventi duri contro l’immigrazione come il «blocco navale» per fermare gli sbarchi, e aggiorna alcuni dei postulati già presenti fin dal suo inizio, adattandoli alle nuove leggi approvate nel corso della legislatura, con la ferma volontà di derogarle: è il caso delle leggi sull’aborto, l’eutanasia, le persone trans e i diritti lgtbi+, la violenza di genere, il cambio climatico, la Memoria democratica. Vox propone di rendere illegali partiti e associazioni indipendentisti, di reintrodurre i reati di referendum illegale, di sedizione, tradimento e malversazione di risorse pubbliche. Autoritaria sul piano dei diritti di cittadinanza, l’estrema destra spagnola è liberista su quello economico, perciò propone di abbassare le imposte sui redditi alti e i grandi patrimoni, con una riduzione drastica della progressività.

Per quanto riguarda le Comunità autonome, che all’inizio voleva sopprimere, Vox propone ora di svuotarle di tutte le loro competenze. Altro tema rilevante nel suo programma è quello relativo all’istruzione, dove Vox si propone di mettere fine «all’indottrinamento ideologico» e, in nome della libertà di scelta dei genitori, vuole assicurare l’insegnamento in castigliano e sostenere i centri che dividono gli alunni per sesso

 
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SCONTRO GOVERNO-MAGISTRATURA. Il presidente Santalucia: dal governo «un attacco pesantissimo e insidioso perché lasciato a fonti anonime di palazzo Chigi». Per i magistrati le ultime prese di posizione sono «incomprensili». Ribadite le critiche al ddl Nordio

Ignazio La Russa, Giorgia Meloni e Carlo Nordio celebrano la fondazione della polizia penitenziaria Ansa Ignazio La Russa, Giorgia Meloni e Carlo Nordio celebrano la fondazione della polizia penitenziaria - Ansa

Lo scontro è servito. Gli attacchi arrivati dalle «fonti di palazzo Chigi», dalle veline del ministero della Giustizia e dalle dichiarazioni di svariati esponenti della maggioranza di governo hanno portato l’Anm a rispondere con parole piuttosto dure, segnando così il primo vero e proprio spartiacque di un conflitto sin qui latente e che, con ogni probabilità, Giorgia Meloni avrebbe volentieri evitato se nell’ultima settimana i casi Santanchè, Delmastro e La Russa non le fossero praticamente esplosi tra le mani.

COSÌ, ALL’ACCUSA di «fare opposizione» e di voler «sabotare la riforma della giustizia» per primo ha risposto il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia nella sua relazione davanti al comitato direttivo centrale cominciato ieri a Roma. «Un attacco pesantissimo – ha detto Santalucia – e ancora più insidioso perché lasciato a fonti anonime di Palazzo Chigi. Avremmo gradito una smentita e invece ieri (venerdì, ndr) abbiamo letto due note di fonti ministeriali che intervengono sugli stessi fatti». Il riferimento è agli spifferi che parlano di revisioni in vista per la pubblicazione di avvisi di garanzia sui giornali e dell’imputazione coatta dei giudici contro il parere dei pm, ovvero le questioni su cui sono inciampati prima Santanchè e poi Delmastro.

«Il sospetto – ha proseguito il presidente dell’Anm – è che queste proposte vengano sbandierate non perché si crede che

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