GIUSTIZIA. In una settimana di tempesta, la presidente del consiglio non ha trovato neppure un attimo per occuparsi dello scontro istituzionale da lei stessa provocato con la dichiarazione di guerra contro la magistratura fatta firmare dalle «fonti»
Giorgia Meloni svicola e sguscia: «Scusate sono in ritardo. Ne parliamo dopo il vertice Nato». Alberto Sordi in una commedia all’italiana non avrebbe saputo far peggio. In una settimana di tempesta, la presidente del consiglio non ha trovato neppure un attimo per occuparsi dello scontro istituzionale da lei stessa provocato con la dichiarazione di guerra contro la magistratura fatta firmare dalle «fonti», in quel caso senza perder tempo per riflettere sulle conseguenze.
Nella storia italiana recente l’invadenza della magistratura è un dato di fatto che solo chi ne ha più volte approfittato può negare.
In questa occasione la reazione era invece del tutto ingiustificata, sia nel caso nella sgangherata esibizione della ministra del turismo al senato sia in quello di un’imputazione coatta ai danni del sottosegretario Delmastro che, sulla base delle motivazioni della richiesta d’archiviazione della procura di Roma, era nell’ordine delle cose.
L’errore iniziale è stato però amplificato e moltiplicato da un mutismo della premier che, col passare dei giorni, è diventato non solo increscioso ma quasi surreale. Una magistratura che, quanto a forza e potere, è ridotta all’ombra pallida di quel che è stata non ha in tutta evidenza intenzione di muovere guerra a questo governo. La premier, prima dei fattacci in questione, era e non vede l’ora di tornare a essere altrettanto poco bellicosa. L’ordine alla truppa è stato per mesi quello di evitare scontri col potere togato. A gestire la faccenda, più dell’imbarazzante guardasigilli, è il sottosegretario Mantovano, magistrato e campione del dialogo con gli ex colleghi. La separazione delle carriere, cioè la sola scelta che innescherebbe davvero l’armageddon tra governo e magistrati, resta nel programma e serve solo a gonfiare gli annunci. La reazione scomposta di Giorgia Meloni e la successiva afasia appaiono quindi quasi inspiegabili.
Inspiegabili sono davvero, se si continua a fingere che il conflitto in corso riguardi la riforma della giustizia e che la destra che governa in Italia conservi ancora qualche pur vaga pulsione garantista. La realtà è opposta: per cultura politica, tradizione storica e attitudine personale la premier è casomai «galerista». La sola idea di entrare in conflitto con qualsivoglia tutore dell’ordine, in divisa o in toga, la costerna e prosterna. L’impegno a sfidare una volta per tutte il potere della magistratura era il prezzo convenuto con Silvio Berlusconi, ma il Cavaliere non c’è più e in ogni caso anche con lui vivente la nuova leader della destra non lo aveva preso troppo sul serio.
La reazione esagitata della premier non va addebitata a una reale intenzione di riformare radicalmente la giustizia, anche a costo del conseguente conflitto tra poteri dello Stato, ma molto più modestamente alla tendenza del capofazione a difendere sempre e comunque i suoi, a interpretare come affronto qualsiasi critica aspra rivolta a chi le è vicino. Anche quando, come nel caso Santanchè, di lealtà da parte loro ne hanno mostrato poca o punta, e figurarsi quando di mezzo ci sono un fedelissimo come Delmastro o un parente stretto come il presidente del Senato La Russa. Senza quei legami familiari è infatti probabilissimo che la presidente del consiglio avrebbe in qualche modo segnalato la disapprovazione per un tentazione di criminalizzare la presunta vittima.
L’imbarazzo della premier deriva dalla contraddizione tra la ragione politica, che la spinge a chiudere il prima possibile un conflitto che ha sempre voluto evitare, e la reazione emotiva che le ordina di chiudersi sempre a riccio in difesa dei suoi, considerando nemico chiunque osi metterli in discussione. Non è una reazione inconsulta. È il riflesso tipico delle formazioni politiche e dei partiti underdog: piccoli, sempre perseguitati dalla sindrome dell’accerchiamento, non scevri da venature paranoiche, convinti di poter resistere solo in virtù di una solidarietà sconfinante nel vincolo omertoso. Il problema di Giorgia Meloni non è togliere la fiamma del Msi dal simbolo del suo partito. È togliersela dalla testa: impresa più ardua