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REPORTAGE. Droni, cecchini, reparti speciali di Israele incendiano il campo profughi della città palestinese: è l’operazione «Casa e giardino». Netanyahu: «Avanti». Ma per la stampa il ritiro è iniziato

Jenin rifugiata, per la terza volta Palestinesi lasciano il campo profughi di Jenin per cercare un rifugio dall’attacco militare israeliano - Ap/Majdi Mohammed

«All’improvviso, uno dei miei figli mi ha urlato di scappare, che i soldati erano davanti casa. Ho aiutato mia moglie a raccogliere un po’ di cose e siamo usciti in strada». Circondato dai figli, Jihad Damaj racconta quella che a Jenin già chiamano la «marcia delle famiglie», quando lunedì sera, con le forze speciali israeliane all’interno del campo profughi che facevano irruzione nelle case, sfondando porte e abbattendo muri alla ricerca di combattenti, ha avuto solo pochi minuti per lasciare la sua abitazione.

«In strada – prosegue – ci siamo uniti a tante altre famiglie senza sapere bene dove andare. Abbiamo attraversato il campo nel buio perché mancava l’elettricità, cercando di non cadere perché le strade erano piene di fango, le ruspe (militari) le avevano distrutte». Per Jihad è un incubo che si rinnova.

«Nel 2002 fui costretto a fuggire con i miei genitori, oggi lo faccio con i miei figli», dice riferendosi all’invasione e alla distruzione di metà del campo profughi di Jenin durante l’operazione israeliana Muraglia di Difesa. «La nostra casa fu distrutta, per due anni abbiamo vissuto in un edificio pubblico – aggiunge Jihad – Inonni hanno vissuto la Nakba nel 1948, i miei genitori l’invasione del 2002, io questo nuovo attacco al campo. Ogni volta dobbiamo scappare dalle nostre case e perdiamo tutto. Cosa abbiamo fatto di male? Siamo esseri umani che vogliono vivere la loro vita come tutti nel mondo».

DI JIHAD DAMAJ e la sua famiglia lunedì notte si sono presi cura prima gli operatori della Mezzaluna rossa che illuminato con i fari delle ambulanze e guidato come hanno potuto la strada alle quasi 500 famiglie, circa 3mila uomini, donne, bambini e anziani, costretti a fuggire da casa. Poi suo cognato lo ha accolto nella sua abitazione in periferia, relativamente al sicuro, anche se si sentono le raffiche di armi automatiche e le esplosioni provenienti dal campo.

Un ferito dal fuoco israeliano a Jenin (foto Ap/Majdi Mohammed)

Al Corea Jenin Center invece sono state accolte decine di famiglie. Karim, un giovane, ci dice che ha aiutato a trasportare per tutta la notte coperte, generi alimentari, acqua a centinaia di persone. «Non avevano nulla con loro, i bambini avevano fame e sete. Come altri ragazzi ho cercato di dare il mio aiuto. Vedere tutte quelle persone stanche che hanno dormito a terra sulle coperte mi ha fatto male», ci racconta prima di dirigersi verso un furgone per scaricare l’acqua per gli sfollati.

Non c’è un negozio aperto a Jenin, la città è chiusa nel lutto per l’uccisione di 12 palestinesi e per lo sciopero generale proclamato in tutta la Cisgiordania. Per le autorità israeliane erano tutti «terroristi», tre di loro erano degli adolescenti.

LUNGO una delle strade che portano al campo profughi si incontrano gruppi di giovani. L’ospedale governativo è lì, davanti a noi. Ci aspettano gli operatori di Medici senza Frontiere (Msf) da due giorni impegnati con i colleghi palestinesi ad assistere decine di feriti. Gli spari però sono continui. Combattenti palestinesi provano a fermare i rastrellamenti.

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Jenin da rioccupare, la destra ci spera. Nodo Abu Mazen per la Cisgiordania

I soldati israeliani, tutti di reparti speciali addestrati per mesi all’invasione di Jenin, e i cecchini sui tetti li prendono di mira con l’aiuto dei droni che seguono ogni movimento nel campo e lanciano razzi, come hanno fatto più volte in questi giorni. Non riusciamo ad andare avanti. Giovani palestinesi ci urlano di tornare indietro.

«Questa mattina è stato l’inferno davanti e dentro il cortile dell’ospedale governativo, sparano a tutto quello si muove», ci spiega un ragazzo. Gli operatori di Msf confermano: «Il pronto soccorso stamattina era pieno di fumo, così come il resto dell’ospedale. Le persone che hanno bisogno di cure non potevano essere trattate nel pronto soccorso e siamo costretti a curare i feriti sul pavimento dell’atrio dell’ospedale. Le nostre équipe hanno curato 125 pazienti dall’inizio del raid», dice Jovana Arsenijevic, coordinatrice delle operazioni di Msf a Jenin.

Un’altra organizzazione internazionale, Reporter senza Frontiere, denunciato attacchi ai giornalisti. In un video si vede un blindato israeliano colpire ripetutamente la telecamera di un giornalista posizionata su un cavalletto.

E IL RICORDO va subito a Shireen Abu Akleh, la corrispondente di Al Jazeera uccisa un anno fa a Jenin da un colpo sparato da un soldato. «Non intenzionalmente», hanno detto le autorità militari chiudendo la loro indagine. Entrare a Jenin per i giornalisti non è facile. Ai posti di blocco i soldati sembrano rispondere a ordini diversi. Alcuni, facendo la voce grossa, vietano il passaggio ai reporter, altri li lasciano andare dopo qualche domanda. Tutti impongono lunghi giri intorno al distretto di Jenin per raggiungere la città e il suo campo profughi.

QUANDO LE FORZE armate usciranno da Jenin non è chiaro, anche se ieri sera circolavano voci su un primo ridispiegamento nel corso della notte. L’invasione – che ieri è tornata a chiamarsi «Casa e giardino» – continuerà finché i suoi obiettivi non saranno raggiunti, proclama il premier israeliano Benjamin Netanyahu: «In questo momento le nostre forze stanno agendo con tutta determinazione a Jenin. Eliminano e arrestano terroristi, distruggono i loro quartier generali e magazzini. L’operazione ‘Casa e giardino’ continuerà per il tempo necessario fino al raggiungimento degli obiettivi», ha detto ieri all’ambasciata statunitense in Israele.

Per i comandi militari invece l’operazione potrebbe terminare «più rapidamente di quanto inizialmente previsto, probabilmente nel giro di qualche giorno». Un portavoce dell’esercito, Daniel Hagari, sostiene che aviazione e forze di terra hanno distrutto 20 obiettivi, incluso un deposito di armi nascosto sotto una moschea e che sono stati arrestati «120 sospetti terroristi». Si dice che Nablus, l’altra roccaforte della militanza armata palestinese, sarà l’obiettivo della prossima, devastante, operazione militare israeliana.

Nel frattempo, nessun provvedimento serio è stato presto nei confronti dei coloni israeliani in Cisgiordania che a centinaia nei giorni scorsi hanno messo a ferro e fuoco diversi villaggi palestinesi, dove, talvolta nel cuore della notte, armi in pugno, hanno incendiato decine di auto e diverse abitazioni gettando nel panico migliaia di civili palestinesi – uno è stato ucciso – per vendicare l’uccisione di quattro israeliani il mese scorso. Quello, per i ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, non è «terrorismo», solo i palestinesi sono «terroristi».

SCUOTE LA TESTA Mustafa Barghouti, medico, parlamentare, ex candidato della sinistra alle presidenziali palestinesi del 2005 che incontriamo in uno dei centri dove sono ospitati gli sfollati: «Tanti civili palestinesi sono in pericolo in queste ore, l’esercito israeliano continua ad attaccare il campo profughi, densamente popolato, dove vivono ventimila persone, non terroristi. E lo fa usando droni, elicotteri e aerei, con le armi più sofisticate».

Eppure, aggiunge, «sento dai leader stranieri, occidentali, che Israele si starebbe difendendo. Ma siamo noi che meritiamo protezione, siamo un popolo occupato al quale Israele da decenni nega la libertà»

 

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LO SPACCA ITALIA. Amato, Gallo, Pajno e Bassanini lasciano il Comitato per i Livelli essenziali delle prestazioni: «Non ci sono più le condizioni per la nostra partecipazione». Critiche sulla definizione dei parametri per assicurare i diritti civili e sociali a tutto il Paese, sul ruolo del Parlamento e sulle materie da sottrarre alla devoluzione

Dimissioni eccellenti, Calderoli perde pezzi. Autonomia in panne Giuliano Amato - Ansa

Quattro dimissioni di peso dal Comitato per l’individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni hanno dato l’ennesima picconata al progetto di autonomia differenziata targato Roberto Calderoli. «Il governo ritiri il ddl» hanno attaccato le opposizioni, da Azione ad Avs. La lettera, indirizzata al ministro leghista e al presidente del Clep Sabino Cassese, è datata 26 giugno. Ad abbandonare i lavori sono stati gli ex presidenti della Corte Costituzionale Giuliano Amato e Franco Gallo, l’ex presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno e l’ex ministro Franco Bassanini: «Non ci sono più le condizioni per una nostra partecipazione».

LA MISSIVA termina così: «Restiamo consapevoli dell’importanza che avrebbe per il Paese una completa e corretta attuazione delle disposizioni costituzionali ricordate». Si tratta della riforma del Titolo V, quella che ha aperto la porta all’autonomia differenziata. Del resto a battezzare l’intervento sulla Costituzione fu, nel 2001, il governo Amato di cui Bassanini era ministro della Funzione pubblica.

I QUATTRO SCRIVONO: «Abbiamo apprezzato, caro Ministro, alcune tue importanti affermazioni, in particolare allorché hai escluso trasferimenti di competenze in materia di norme generali sull’istruzione. Abbiamo anche apprezzato il fatto che Sabino Cassese abbia proceduto all’istituzione di un nuovo sottogruppo dedicato alla individuazione dei Lep nelle materie non ricomprese nel perimetro dell’art. 116 terzo comma». Cioè quelle esercitate dagli enti regionali.

RESTANO PERÒ I PROBLEMI di fondo: «Prima dell’attribuzione

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FARDELLI D'ITALIA. «Polonia e Ungheria fanno bene a difendere i loro interessi», dice Meloni. Anche se vanno contro quello italiano. I nazionalismi Ue in tilt, a Roma la maggioranza si spacca alla rincorsa della destra europea

POLITICA. Tajani contro Salvini: niente accordi con gli ultras di Identità. Lui replica: no a diktat. E si collega con Le Pen. Meloni svicola

 Videoconferenza tra Matteo Salvini e Marine Le Pen - foto LaPresse

 

Antonio Tajani, di solito un maestro di diplomazia, è drastico e tassativo. Matteo Salvini, che la diplomazia nemmeno sa dove stia di casa, gli risponde a tono. La premier, consapevole di camminare sul terreno più minato che ci sia, dice il meno possibile e i suoi ufficiali sembrano partecipare a un gioco del silenzio: «Perché accapigliarsi ora su qualcosa che non sappiamo nemmeno come andrà?». La proposta del leader leghista di stringere in Europa un’alleanza affine a quella che governa l’Italia, mettendo insieme il Ppe, i Conservatori di Meloni e il suo eurogruppo Identità e Democrazia, non è una frecciata. È una bomba a orologeria.

Il pollice di Tajani non potrebbe essere più verso: «Per noi è impossibile qualsiasi accordo con AfD e con il partito della signora Le Pen. Saremmo lieti di avere la Lega parte di una maggioranza, ma senza Le Pen e AfD». È lo stesso leader di Fi a spiegare le ragioni dell’inusuale durezza, quando ricorda di essere «anche vicepresidente del Ppe». Con una posizione meno rigida sarebbe stato letteralmente sbranato in Europa, in particolare dai colleghi della Cdu tedesca il cui incubo oggi si chiama proprio AfD.

IL VELLUTO adoperato da Tajani con la Lega non placa Salvini. Avrebbe dovuto incontrare a Roma proprio la leader francese ostracizzata. Poi, ufficialmente per i disordini in Francia, il colloquio si è svolto invece in rete. A Le Pen e a Jordan Bardella il capo della Lega dice cose opposte a quelle del collega azzurro e non le tiene segrete: «Mai la Lega andrà con la sinistra e con i socialisti. Non accetto veti sui nostri alleati. L’unico centrodestra presente in Francia siete voi». Prima di lui

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In un comunicato le forze armate israeliane confermano le operazioni di bombardamento contro "infrastrutture terroristiche". I residenti di Jenin hanno riferito alla Cnn di aver sentito esplosioni e colpi d'armi da fuoco pesanti nella zona, mentre video girati sulla scena dell'attacco mostrano l'evacuazione di palestinesi feriti sulle ambulanze che li trasportavano all'ospedale della città

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Secondo quanto riferito dal ministero della sanità, almeno tre palestinesi sono rimasti uccisi in un attacco sferrato da Israele a Jenin (Cisgiordania), ci sarebbero ache dei feriti. Secondo la radio militare israeliana ci sono ancora diversi colpi sepolti sotto le macerie di un edificio che è stato colpito dalla aviazione. In un primo commento al-Fatah accusa Israele di aver lanciato un "attacco barbaro" che comunque "non ci dissuaderà dal continuare a difendere il nostro popolo fino alla libertà e alla indipendenza". "Le forze israeliane operano nelle ultime ore con uno sforzo concentrato contro focolari di terrorismo a Jenin" ha affermato il ministro della difesa israeliano Yoav Gallant su twitter.

L'offensiva

Una offensiva che, secondo i media locali, sarebbe stata decisa una decina di giorni fa, in seguito

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IL LIMITE IGNOTO. Le indiscrezioni del Washington Post. Ieri la chiamata fra Mosca e il capo della Cia e la visita a Kiev del premier Pedro Sanchez, presidente di turno della UeVoci di un piano di pace, da siglare alle porte della Crimea Pedro Sanchez con Zelensky a Kiev - Ap

L’Ucraina ha un piano per iniziare i negoziati con Mosca. Secondo il Washington Post, infatti, Kiev avrebbe messo a punto una strategia per costringere il Cremlino ad accettare determinate condizioni messe nero su bianco e consegnate al capo della Cia, William Burns, che ieri ha parlato al telefono anche con Mosca. Intanto però la guerra continua sul campo di battaglia con nuovi raid su Zaporizhzhia e la previsione del capo di stato maggiore congiunto statunitense, Mark Milley, secondo cui «la controffensiva sarà lunga e sanguinosa».

SE CONFERMATE, le indiscrezioni del Washington Post costituirebbero un’importante novità. Ovvero sarebbero una prova del fatto che il governo ucraino sta effettivamente cercando una strategia per il cessate il fuoco, al di là dei proclami ufficiali e dei moniti. Anche ieri, in occasione della visita a Kiev del premier spagnolo Pedro Sanchez, presidente di turno dell’Unione europea, Volodymyr Zelensky ha dichiarato ancora una volta che «la diplomazia inizierà solo quando l’Ucraina tornerà ai suoi confini stabiliti nel 1991». Ma il capo deve sempre parlare di vittoria, la guerra si combatte anche così e poi i soldati al fronte devono almeno illudersi di non rischiare la morte inutilmente.

TUTTAVIA, nei piani consegnati a Burns a inizio giugno, il quadro descritto sarebbe molto più pragmatico. L’esercito ucraino punterebbe a riconquistare più territorio possibile nell’est entro l’inizio dell’autunno, motivo per cui continua a premere sui lati di Bakhmut e nelle aree limitrofe. Nel frattempo i reparti corazzati e d’artiglieria si sposterebbero al sud, al confine della Crimea, in modo da tenere sotto tiro Sebastopoli e le basi della penisola. Solo a quel punto, di fronte alla minaccia concreta al controllo russo della Crimea, l’amministrazione di Kiev aprirà i negoziati. Il governo ucraino ritiene che il Cremlino sarà disponibile a trattare, ed eventualmente a fare concessioni, solo se messo con le spalle al muro ed è per questo che tale processo dovrebbe concludersi entro l’anno corrente. I generali sanno che gli uomini e i mezzi a disposizione dell’Ucraina si trovano in una condizione e in una quantità che difficilmente potranno raggiungere di nuovo in futuro. E quindi si prefigura davvero lo scenario, evocato da qualche analista in primavera, della manovra definitiva.

POI SI VEDRÀ, c’è sempre l’ipotesi dell’ingresso nella Nato che cambierebbe definitivamente gli equilibri tra i due belligeranti. Ma le incognite sono troppe, le linee di difesa russe hanno provato la loro efficacia e non è detto che l’avanzata ucraina riesca ad arrivare alle porte della Crimea (e non oltre, si badi bene, la penisola resterebbe sotto il controllo russo); il piano è quindi stato giudicato da fonti statunitense «ambizioso». Che generalmente è un eufemismo per «difficilmente realizzabile», ma staremo a vedere.
Forse anche per questo l’amministrazione Biden sta valutando ufficialmente di fornire bombe a grappolo e missili a lunga gittata Atacms all’Ucraina. Finora, lo abbiamo sentito ripetere più volte, entrambi gli armamenti erano stati negati: il primo perché contrario alle convenzioni internazionali, il secondo per evitare che Kiev colpisse il territorio della Federazione russa con armi made in Usa. Tuttavia, nell’ottica di azioni mirate in Crimea e in Donbass Washington potrebbe cambiare avviso.

ANCHE PERCHÉ il canale tra la Casa bianca e il Cremlino continua a restare aperto. Nelle ultime ore sempre Burns avrebbe telefonato a Sergei Naryshkin, il direttore del servizio estero dell’Fsb (Il Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa), per rassicurarlo sulla totale estraneità degli Usa nella rivolta della Wagne

 

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LAVORO. Dopo anni di divisioni il testo prevede una soglia comune a tutti e l'estensione erga omnes dei contratti nazionali, come volevano Cgil e Uil. Sconfitta la Cisl che chiedeva di non intervenire con una legge

Tutta l’opposizione (tranne Renzi): «Salario minimo a 9 euro» Una scritta a favore del salario minimo - Foto Ansa

Nel disastrato stato della sinistra e dell’opposizione, la proposta condivisa di salario minimo orario fissato a 9 euro l’ora sottoscritta da Pd, M5s, Azione, Alleanza Verdi e Sinistra e Più Europa è un fatto rilevante e inatteso. La valenza politica è evidente: per la prima volta dall’inizio della legislatura l’opposizione – con la scontata assenza della stampella della destra rappresentata da Matteo Renzi e da Italia Viva – si unifica su un tema importante e sfidante. «La necessità di un intervento a garanzia dell’adeguatezza delle retribuzioni dei lavoratori, in particolare di quelli in condizione di povertà anche per colpa dell’inflazione, è un elemento qualificante dei nostri programmi elettorali. Per questo abbiamo lavorato a una proposta unica che depositeremo alla camera nei prossimi giorni», scrivono Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni, Matteo Richetti, Elly Schlein, Angelo Bonelli e Riccardo Magi, sottolineando «che è giunto il momento di dare piena attuazione all’articolo 36 della costituzione che richiede che al lavoratore sia riconosciuta una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la propria famiglia». Detto questo, il testo è, nel merito, avanzato e progressista.

DA ANNI IL TEMA «salario minimo» stava dividendo la sinistra politica e sindacale con posizioni molto diversificate. M5s, Pd e Sinistra Italiana non erano riuscite a trovare un compromesso durante il governo Conte Due nel quale erano assieme al governo e come maggioranza.

ANCHE SUL PIANO SINDACALE, dopo una prima fase di diffidenza da parte di tutti i confederali, Cgil e Uil si erano dette disponibili a fissare un salario minimo orario a patto che parallelamente venisse prevista l’estensione erga omnes a tutti i lavoratori della validità dei contratti nazionali e una norma sulla rappresentanza che evitasse i contratti pirata come quello «capestro» firmato dall’Ugl e Assodelivery nel 2019 che aveva riportato al cottimo i rider.

La vera sconfitta da questa proposta è dunque la Cisl che con il segretario Luigi Sbarra un mese fa continuava a sostenere «il salario minimo facciamolo con i contratti», chiedendo di non intervenire con una legge.

A giugno 2022 è arrivata la direttiva Europea che comunque non implicava un obbligo di «salario minimo» per l’Italia: uno dei soli sei paesi su 27 a esserne priva. La Direttiva stabilisce però un trattamento minimo sopra la soglia di povertà che Eurostat ha fissato a 7,66 euro l’ora nel 2018, valore non raggiunto da alcuni contratti nazionali firmati dai confederali, compreso anche il recente rinnovo della Vigilanza privata.

Detto questo la divisione rimaneva. Perfino la proposta dell’ex ministro del Lavoro Pd Andrea Orlando prevedeva di applicare come salario minino del settore il Trattamento economico complessivo risultante dai minimi del contratto nazionale. Bocciando la fissazione di un salario minimo orario comune per tutti.

Alla fine la proposta è molto vicina a quella dell’altra ex ministra del Lavoro Nunzia Catalfo del M5s, ora non più in parlamento per aver già fatto due mandati.

NEL TESTO SI SPECIFICA infatti che «al lavoratore di ogni settore economico sia riconosciuto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative – e questo va incontro alla richiesta di Cgil e Uil -; a ulteriore garanzia del riconoscimento di una giusta retribuzione, venga comunque introdotta una soglia minima inderogabile di 9 euro all’ora, per tutelare in modo particolare i settori più fragili e poveri del mondo del lavoro, nei quali è più debole il potere contrattuale delle organizzazioni sindacali».

La proposta prevede che «la giusta retribuzione» riguardi anche i «parasubordinati e il lavoro autonomo», anche se non viene spiegato come. Prevista anche, come da Direttiva europea, «una commissione composta da rappresentanti istituzionali e delle parti sociali per aggiornare periodicamente il trattamento economico minimo orario».

Infine si «riconosce un periodo di tempo per adeguare i contratti alla nuova disciplina, e un beneficio economico a sostegno dei datori di lavoro per i quali questo adeguamento risulti più oneroso», chiudendo dunque con una mano tesa a Confindustria che vede il salario minimo come un pugno nello stomaco

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