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DENTRO E FUORI. Si torna a parlare della proposta di mandare i magistrati a fare esperienza in carcere: ma quanto ne sappiamo davvero della vita dietro le sbarre?

Sciascia, la galera e le giraffe

 

Mentre la contabilità della morte in carcere arriva a quota sessantuno detenuti, mentre il cosiddetto decreto carcere interviene d’urgenza senza neppure nominare il sovraffollamento e soltanto per complicare le procedure per la concessione dei famosi giorni di liberazione anticipata, si torna anche a discutere della proposta di legge Sciascia-Tortora. Di cosa si tratta è presto detto: il nucleo dell’iniziativa prevede che i magistrati ordinari in tirocinio svolgano un periodo non inferiore a quindici giorni di esperienza formativa in carcere, comprensivo di pernottamento in casa circondariale o di reclusione.

Solo d’acchito il tema può sembrare eccentrico rispetto all’emergenza. A un’analisi più attenta, al contrario, costringe a porsi una domanda essenziale: conosciamo davvero il carcere? Sappiamo come funziona e come possiamo migliorarlo? Lo sanno i giudici?
Il senso della proposta di legge, sviluppata da un’idea che Leonardo Sciascia lanciò sul Corriere della Sera del 7 agosto 1983 – un mese e qualche giorno dopo l’arresto di Enzo Tortora – è quello di aumentare il bagaglio di conoscenza diretta dell’esperienza detentiva da parte dei magistrati.

Siamo chiari: è comprensibile che quasi tutti i settori della magistratura l’abbiano presa male, invocando un malcelato intento punitivo e un senso di sfiducia nei confronti dell’autorità giudiziaria. Quindici giorni, in effetti, sono tanti e la proposta del pernottamento rischia di essere controproducente: vero che il carcere la notte è diverso dal giorno, ma la presenza di un osservatore qualificato e prestigioso – un magistrato in tirocinio non viene ignorato, prima di tutto dall’amministrazione – rischia di modificare la realtà osservata, soprattutto quando quest’ultima è adusa a imbellettarsi quando sente gli occhi addosso.

Tuttavia, la proposta di legge pone sul tavolo una verità necessaria: solo trascorrendo tempo dentro il carcere se ne possono capire i meccanismi, non basta una visita, per quanto bene organizzata. Immergersi per un lasso di tempo ampio nel penitenziario – sono forse sufficienti i tre giorni a cui pensava Sciascia, magari prevedendo una presenza in ore serali – significa comprendere tutto quello che viene prima e dopo i messaggi normativi veicolati dall’ordinamento penitenziario e dai provvedimenti giudiziari. Sono quel prima e quel dopo che costruiscono la vera realtà del carcere: burocrazia meccanica, capovolgimento dell’ordine delle fonti del diritto (una circolare vale più della Costituzione), relazioni tra custodi e custoditi e tra custoditi stessi, isolamento dalla società.

È solo vivendo il carcere che si può imparare a leggerlo, è solo conoscendo questi dispositivi informali, che sono la roccia madre dell’esperienza detentiva, che si può capire e riflettere sulla latente resistenza dell’istituzione totale a ogni intervento dall’esterno, che sia in materia di metri quadri, di ore d’aria o di affettività. La perdurante inattuazione della sentenza della Corte costituzionale in materia di sessualità è un esempio di questa sottrazione al messaggio normativo, di questa lotta tra il riconoscimento dei diritti e la pretesa di autonormazione da parte dell’istituzione carceraria.

A volte, nella rincorsa tra diritti e organizzazione della vita detentiva, sembra di assistere a una gara simile a quella che, in natura, le piante di acacia ingaggiano con le giraffe, ghiotte delle loro foglie.

Gli arbusti hanno imparato a tutelarsi dalla fame degli animali: dapprima la crescita di spine, ma le giraffe hanno sviluppato lingue sottili e dure; poi c’è l’emissione di una sostanza velenosa che, oltre a rendere indigesta la foglia attaccata, avverte le altre piante circostanti, ma le giraffe hanno imparato a mangiare veloci e sopravento. E così via.

Questa lotta, comprensibile in natura, è ingiustificabile nelle realtà sociali, soprattutto quelle più estreme. Una migliore conoscenza della realtà penitenziaria dunque, potrebbe favorire una minor astrattezza cognitiva del magistrato e una riduzione della pretesa di isolamento e separatezza dell’istituzione totale. Una convergenza tra amministrazione, politica e giurisdizione indispensabile a un reale miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti