OPPOSIZIONE. Sinistra italiana, da oggi a congresso a Perugia, presenta la sua contromanovra con Avs e auspica un salto di qualità delle opposizioni
Comincia questo pomeriggio a Perugia il terzo congresso di Sinistra italiana il cui titolo è «La vita che verrà». È il primo in presenza dopo la pandemia e dopo la scelta di presentarsi alle elezioni politiche dello scorso settembre in tandem con Europa Verde e in coalizione con il Pd, nonostante l’allora segretario dem Enrico Letta avesse scelto di non provare in alcun modo a ricucire la frattura con il M5S dopo la caduta del governo Draghi. Adesso Sinistra italiana rilancia con il no alle guerre, quella in Ucraina e quella a Gaza, e insiste con l’idea di coniugare la giustizia sociale e quella ambientale e con il tentativo (che si vedrà all’opera già alle europee di giugno) di allargarsi alle esperienza di sinistra e civiche sparse per il paese. Tutto ciò, spiega il segretario Nicola Fratoianni, nella speranza che le opposizioni riescano a essere più incisive: «Vogliamo discutere con chi organizza passione civile, partecipazione e battaglie per i diritti sociali. E sulla necessità delle opposizioni di fare un salto di qualità nella propria iniziativa per offrire una possibilità di alternativa al nostro paese».
OLTRE ALLE DELEGATE e ai delegati eletti nei congressi locali, parteciperanno anche Elly Schlein e Giuseppe Conte, il cui intervento è previsto per la sabato mattina. Oggi, dopo la relazione di Fratoianni il cui documento congressuale ha riscosso una maggioranza quasi unanime alle assise territoriali, parleranno tra gli altri il segretario di +Europa Riccardo Magi e quello di Rifondazione Maurizio Acerbo, il compagno di strada Angelo Bonelli e il leader Cisl Pierpaolo Bombardieri. Per sabato pomeriggio è invece in programma il segretario generale Cgil Maurizio Landini. Sarà interessante il confronto con le sinistre europee, che dalla Spagna col nuovo governo Sanchez alla Germania dove incombono divisioni e crisi, rappresentano uno scenario ineludibile.
IERI, INTANTO, Alleanza Verdi Sinistra ha presentato la sua «Finanziaria socio-climatica», che si sostanzia nel pacchetto di emendamenti alla legge di bilancio che Bonelli definisce «iniqua da punto di vista sociale e ambientale: taglia le pensioni e aumenta le tasse. Noi invece vogliamo liberare risorse, togliendole agli extraprofitti energetici e delle banche per costruire giustizia sociale». Dei 24 miliardi complessivi della manovra, prosegue Bonelli, 16 «sono a carico future generazioni» visto che «le misure espansive si esauriscono nel tempo e nel 2024. Inoltre, hanno presentato un Piano Mattei ma in finanziaria non prevedono un aumento per cooperazione e sviluppo». «Dicono che soldi non ci sono – spiega Fratoianni – Ma la verità è che non hanno coraggio di andarli a prendere dove ci sono. Hanno messo in campo una finanziaria di privilegi e privilegiati. Noi invece vogliamo restituire a quelli cui è stato tolto». «Cerchiamo di produrre un ribaltamento – sottolinea il capogruppo al Senato Peppe De Cristofaro – Introduciamo elementi coraggiosi per recuperare risorse dalla riduzione delle spese militari alla legalizzazione della cannabis. Abbiamo immaginato un ampio spettro di coperture per contrastare l’assoluta crescita diseguaglianza sociale con il reddito di base universale, gli interventi nelle scuole anche per l’educazione sentimentale. E poi casa, pensioni e salute». Anche perché, prosegue, «il rischio premierato è già nei fatti»: «Siamo di fronte alla mortificazione del Parlamento anche per i tempi ristretti, e c’è la mancanza di emendamenti di maggioranza, che rappresenta un unicum nella storia della Repubblica»
Commenta (0 Commenti)Mobili ed elettrodomestici esclusi dai beni rimborsabili. Figliuolo: "Se ci sarà norma ad hoc, provvederemo", Priolo: "Così molti residenti non faranno nemmeno richiesta", Castaldini: "Stato di fatto è così, residenti presi in giro"
Mobili ed elettrodomestici esclusi dai beni rimborsabili per l'alluvione di maggio. Monta un caso in Regione Emilia-Romagna, dove il commissario governativo, il generale Figliuolo, presente stamane in Regione, ha spiegato che anche se nei moduli verranno inserite le voci per i beni non immobili, il loro rimborso non è attualmente coperto.
I 700 milioni di euro disponibili dal credito d'imposta "sono pochi o tanti?- si chiede il commissario- non lo so. Visto che il presidente del Consiglio ha parlato del 100% dei rimborsi, sono sicuro che man mano che vedremo le cifre arricchiremo il quadro finanziario". Figliuolo si dice poi dispiaciuto se ci sono persone che non fanno domanda dei contributi per il mancato indennizzo dei beni mobili.
"Quelli strumentali sono previsti per le imprese- precisa il commissario- in questo momento non sono previsti per le famiglie, ma abbiamo inteso di inserirle nelle perizie perché se un domani dovessimo avere una norma che ci dà la possibilità di pagare questi tipi di beni, il lavoro almeno è già stato fatto e non si deve fare un'altra perizia".
Per ora ci sono 885 accessi alla piattaforma Sfinge, attiva dal 15 novembre, per le domande di risarcimento da parte degli alluvionati. Ma la Regione lancia l'allarme: molti cittadini della Romagna colpita a maggio potrebbero non fare nemmeno domanda, visto che non saranno risarciti i mobili, gli elettrodomestici e altri beni.
"Diverse famiglie- sottolinea Priolo- non faranno nemmeno domanda in mancanza di certezze, invece dobbiamo fare in modo che tutti la facciano". Altrettanta preoccupazione Priolo esprime per il futuro della ricostruzione quando il prossimo anno scadrà il mandato del commissario. "Non possiamo tornare a luglio 2024 all'ordinarietà", sottolinea.
Altro punto critico segnalato da Priolo, oltre ai fondi che ad oggi mancano all'appello per completare la ricostruzione, anche le difficoltà di reclutamento dei circa 200 addetti in più messi a disposizione per gli enti locali. Infatti, le "procedure attuate probabilmente non ci consentiranno di mettere in campo queste risorse umane e inoltre non e' possibile per la Regione assumere nessuna risorsa".
Mentre Fratelli d'Italia assicura che anche i beni mobili (arredi di casa ed elettrodomestici) distrutti dall'alluvione di maggio saranno risarciti, Forza Italia sottolinea lo stato di fatto, anche alla luce di quanto spiegato dal commissario Figliuolo. "I beni mobili andati persi purtroppo per le famiglie non sono rimborsabili, come è stato confermato dal generale. È successo per il terremoto, come tutti sappiamo, e non si può pretendere che oggi per l'alluvione sia diverso senza aver proposto di cambiare una normativa", sostiene la consigliera regionale Fi Valentina Castaldini al termine della seduta di Assemblea legislativa alla presenza di Figliuolo.
"Con il suo pragmatismo, il generale ha dato la possibilità alle famiglie di inserire i beni mobili, comunque, nella perizia perché se un domani ci sarà una nuova norma sia i cittadini che la struttura commissariale si troveranno con il lavoro già fatto". Ma secondo Castaldini "fermarci sulla soglia del facile slogan non rende onore non solo agli alluvionati a cui dobbiamo la verità, ma anche ai terremotati emiliani che la verità la conoscono bene e si sentono un po' presi in giro. Non devono esistere danneggiati di serie A e di serie B".
Cina e alleati entrano con decisione in una crisi mondiale
Cessate il fuoco e rilascio degli ostaggi civili, aiuti umanitari e Palestina indipendente. Xi Jinping entra con decisione sul conflitto tra Israele e Hamas, dismettendo cautela e ambiguità di altre circostanze. E lo fa durante il summit virtuale dei Brics, la piattaforma multilaterale su cui più di tutte la Cina spinge per proporre la sua visione di mondo.
Due stati, autodifesa e rispetto dei civili. L’equilibrismo cinese
La ricetta al conflitto è la stessa proposta a più riprese dalla diplomazia cinese dopo gli attacchi del 7 ottobre, ma il discorso di Xi è ancora più chiaro e articolato. «La priorità assoluta è che tutte le parti cessino immediatamente il fuoco e i combattimenti, pongano fine a ogni violenza e attacco contro i civili». Il pensiero va subito a Gaza, dopo che il giorno prima la portavoce del ministero degli esteri Mao Ning si era detta scioccata «dagli attacchi contro i civili e i bambini» della Striscia.
Xi chiede anche di «rilasciare i civili in ostaggio», un’aggiunta rilevante che sembra tenere in considerazione le lamentele di Israele, che lunedì aveva polemizzato col governo cinese chiedendo una presa di posizione sugli ostaggi di Hamas piuttosto che sul cessate il fuoco. Xi chiede entrambe le cose, per poi esporre l’esigenza di «garantire il flusso sicuro e regolare dei canali di soccorso umanitario» e di «fermare i trasferimenti forzati, i tagli all’acqua e all’elettricità e altre punizioni collettive contro la popolazione di Gaza». Riecheggiano le parole del ministro degli esteri Wang Yi, che più volte ha accusato Israele di essere «andata oltre il diritto all’autodifesa». Non è tutto: «La comunità internazionale deve adottare misure concrete per evitare che il conflitto si espanda», dice Xi, a cui la scorsa settimana Joe Biden ha chiesto di esercitare la sua influenza sull’Iran proprio per scongiurare il rischio.
Poi arriva la parte più politica della posizione di Xi, secondo cui la «ragione fondamentale» dei problemi tra Palestina e Israele è che «i diritti del popolo palestinese alla statualità e alla sopravvivenza sono stati a lungo ignorati». Per poi ribadire la necessità di attuare la soluzione dei due stati per «ripristinare i diritti legittimi della nazione palestinese». Senza questo passo, dice Xi, «non ci sarà pace e stabilità duratura in Medio Oriente».
Il presidente cinese chiede infine la convocazione di una conferenza internazionale di pace, che si candida implicitamente a ospitare dopo che una delegazione di paesi a maggioranza musulmana ha cominciato un tour diplomatico proprio da Pechino, che a novembre detiene la presidenza di turno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Per molti un messaggio implicito agli Stati uniti sull’accresciuto ascendente cinese nella regione.
I ministri di Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Indonesia e Palestina (col segretario generale dell’Organizzazione della cooperazione islamica) hanno incontrato Wang, il quale ha definito la Cina «un buon amico e un fratelli dei paesi arabi e islamici». Dopo aver officiato il riavvio delle relazioni tra Arabia saudita e Iran lo scorso marzo, la Cina dice di sostenere l’unità e il coordinamento dei paesi musulmani sulla questione palestinese.
A differenza di quanto accaduto sulla guerra in Ucraina, Pechino non ha utilizzato gli appuntamenti multilaterali per rivolgere critiche esplicite a Washington, ma Xi ha comunque sottolineato il ruolo della piattaforma Brics. «Abbiamo coordinato le nostre posizioni sulla questione israelo-palestinese, dando un buon inizio alla grande cooperazione dopo l’espansione», ha detto, alludendo all’imminente ingresso di sei nuovi membri (anche se la vittoria di Javier Milei mette in bilico l’Argentina) e alla possibilità di istituire un’agenda comune più precisa.
Oggi, invece, Xi non sarà al G20 virtuale organizzato dall’India dove è stato invitato anche Vladimir Putin. Al suo posto il premier Li Qiang, come al summit di Nuova Delhi di settembre
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Breve pausa nei bombardamenti, scambio di 150 prigionieri palestinesi per 50 ostaggi israeliani in mano ad Hamas. Il governo di Tel Aviv spinto all’accordo dalle pressioni esterne e dalle proteste interne. Ma l’ultradestra è contraria e «la guerra continua»
ORA DI SCAMBIARE. 150 prigionieri palestinesi per 50 israeliani in mano ad Hamas e qualche giorno senza bombe per la popolazione di Gaza
«Voglio essere chiaro: siamo in guerra, continueremo la guerra fino a quando raggiungeremo i nostri obiettivi. Distruggeremo Hamas». Il primo ministro Netanyahu, in attesa che il suo governo votasse l’accordo di scambio con Hamas ha tenuto a precisare l’ovvio: pausa nei bombardamenti non significa fine dei bombardamenti.
Ma la pressione esterna (gli Stati uniti) e quella interna (le famiglie degli ostaggi e un pezzo consistente di società israeliana) lo hanno costretto a piegarsi, anche solo per pochi giorni. A dimostrazione che con Hamas si può parlare.
DOPO UN POMERIGGIO di vertici politici, mentre andiamo in stampa, l’annuncio ufficiale non era ancora giunto. L’opposizione di un pezzo di maggioranza israeliana – l’ultradestra di Sionismo religioso del ministro Smotrich e di Potere ebraico del ministro Ben Gvir, convinti che ora Hamas alzerà la posta – non sembrava però in grado di impedire lo scambio sostenuto anche dai servizi segreti israeliani. E dagli Stati uniti che da giorni davano l’intesa per imminente.
Gaza avrà un po’ di respiro, da tre a cinque giorni di tregua e un maggior flusso di aiuti umanitari in ingresso. Ce l’avranno anche i cinquanta ostaggi (trenta bambini e venti donne) che Hamas libererà a un ritmo di dodici al giorno. Ce l’avranno, forse, i 150 prigionieri politici palestinesi che verranno rilasciati, tutti minori e donne: del loro destino non ci sono dettagli, se saranno portati a Gaza o in Cisgiordania, e se passeranno indenni
Leggi tutto: Tregua per ostaggi, ecco l’accordo. Ma l’attacco continua - di Chiara Cruciati
Commenta (0 Commenti)Giorgia Meloni ha già iniziato la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, rendendo ben chiaro il tema che sarà al centro dello scontro: una concezione plebiscitaria della democrazia, a cui sarà necessario opporre una proposta non solo di difesa della democrazia parlamentare, ma di rilancio e sviluppo di tutti i principi del costituzionalismo democratico. Tra gli aspetti più pericolosi di questa riforma, che forse non hanno ricevuto ancora l’attenzione che meritano, vi sono quelli legati al sistema elettorale.
Uno degli aspetti più abnormi è quello che prevede l’inserimento nel testo costituzionale addirittura della soglia numerica del premio di maggioranza (il 55% dei seggi). Ma è un testo esposto ad un vistoso vizio di incostituzionalità: non si prevede alcuna soglia minima di voti per l’assegnazione del premio. Puro dilettantismo? Non credo proprio: dietro questo vuoto si può ipotizzare una precisa strategia politica. Alcune cronache politiche hanno cominciato infatti a raccontare quelle che sembrano le intenzioni della maggioranza a tal proposito. L’idea potrebbe essere quella di utilizzare proprio la palese insostenibilità dell’attuale testo per avviare una trattativa con alcuni compiacenti interlocutori parlamentari.
L’oggetto della trattativa non è ancora molto chiaro, ma sembra che si pensi ad una doppia soglia (oltre il 40%, il 55% dei seggi; oltre il 33%, comunque un premio che porti la coalizione vincente al 45% dei seggi). Quale è la logica di questo eventuale marchingegno? incentivare la corsa solitaria di un qualche arcipelago centrista, in grado di soccorrere amorevolmente la maggioranza se fosse necessario. Non sappiamo quanto fondate siano queste ipotesi. Quel che è certo è che l’intera logica plebiscitaria che ispira la riforma (un “capo” eletto, che “fa eleggere” il Parlamento al suo seguito e alle sue dipendenze) regge solo se il sistema elettorale è ancorato al premio di maggioranza. Perciò non basta più l’attuale Rosatellum, per il carattere aleatorio dei risultati che esso può produrre: ed è dunque necessario rimettere mano anche alla legge elettorale.
Al di là delle congetture sulle prossime tappe di questa partita, si impone una seria riflessione politica sul modello del “premio”, che ha trovato in Italia la sua patria di elezione e che tuttora qualcuno decanta come una geniale invenzione italica. Solitamente, esso viene spacciato come “maggioritario”, ma in realtà si fonda su una competizione proporzionale (a bassa soglia) che stravolge profondamente la rappresentanza. Non solo: è un sistema perfettamente funzionale agli aspetti più deteriori del sistema politico italiano: concentrazione leaderistica, da un lato; frammentazione, dall’altro.
E' un modello che conferisce un grande potere marginale (un potere di ricatto e contrattazione) alle forze politiche minori e ai singoli notabili (e si capisce bene perché Renzi sia molto affezionato a questo modello). Con conseguenze rilevanti sulla stessa dinamica competitiva: si incentiva la formazione di coalizioni preventive piglia-tutti, con buona pace della coerenza successiva delle azioni di governo e della stessa stabilità dei governi (per il semplice fatto che gli eletti delle forze minori rivelatesi decisive conservano pienamente, anche dopo le elezioni, il proprio potere di condizionamento).
Cosa opporre a tutto questo? Non basta dire no. Otre a difendere e rafforzare le ragioni di una democrazia parlamentare, bisogna proporre un coerente sistema elettorale: e qui bisogna finalmente rompere gli indugi, e che lo faccia in particolare il PD: occorre dire apertamente che un processo di ri-legittimazione della democrazia italiana passa oggi da una riforma elettorale proporzionale, che sia sufficientemente selettiva (grazie alle soglie di sbarramento) e che reintroduca il voto di preferenza (sono note le contro-indicazioni: ma, a mio parere, nelle attuali condizioni ridare al Parlamentare una propria autonoma legittimità rappresentativa è possibile solo attraverso questa via, bilanciata da opportune misure, in particolare la ridotta dimensione delle circoscrizioni elettorali, in modo da contenere i costi delle campagne elettorali).
Non c’è un’alternativa seria, insomma, al tanto temuto «ritorno al proporzionale». Si obietterà che non è una strada realistica, che “non passerà mai”: ma qui entra in gioco la capacità di fare politica. Intanto, se le opposizioni concordassero su questa proposta, essa può divenire un argomento importante da far pesare nella campagna referendaria. E può diventare una “bandiera” efficace di fronte all’opinione pubblica. Sono molti quelli che giudicano poco appassionante la disputa sui sistemi elettorali: è vero, ma proporre che gli elettori tornino ad avere il potere di scegliere il proprio rappresentante, e di poterlo fare nel proprio territorio, è un argomento che può trovare molto ascolto e interesse.
In secondo luogo, attestarsi unitariamente su questa proposta, può costituire un buon viatico per le successive elezioni politiche: sia nel caso che le riforme Meloni andassero in porto (obbligando a costruire una coalizione competitiva), sia nel caso (auspicabile) che questa riforma si areni o sia bocciata al referendum, e si tornasse dunque a votare con il Rosatellum: se qualcuno sente qualche istinto suicida si faccia avanti, e abbia il coraggio di dire che «ci sono troppe differenze» nel campo delle opposizioni e che non si possono costruire alleanze, o nemmeno accordi solo elettorali. Sarebbe irresponsabile, oltre che suicida.
SUDAMERICAN PSYCHO. Cattiva notizia per l'ambiente, non per Israele. Primi viaggi negli Usa e a Tel Aviv. Il clima «menzogna socialista» e altri negazionismi
L’effigie di Milei sul dollaro - Ap
Il giorno dopo c’è ancora chi non riesce a crederci. Proprio come era avvenuto in Brasile dopo la vittoria di Bolsonaro. E con el loco, «il matto», come viene (anche) chiamato Javier Milei, molti temono che sarà ancora peggio.
L’ombra nera si allunga sul subcontinente
IL PERONISMO, è chiaro, ha fatto di tutto per perdere, fin dalla scelta di Sergio Massa come candidato presidenziale: cioè non solo del ministro dell’Economia – di un’economia sull’orlo del collasso -, ma anche di un esponente politico percepito come quintessenza dell’odiata casta. E pazienza se l’espressione più nefasta di quella casta – quella rappresentata da Mauricio Macri – sia in realtà uscita rafforzata dalla vittoria di Milei.
Anche in questo caso, del resto, il «voto di castigo» si ritorcerà contro chi l’ha espresso. Se per esempio la lunga siccità, con relativo crollo delle esportazioni agricole – una catastrofe per un paese che è il primo esportatore di soia lavorata al mondo – è stata individuata come uno dei fattori della disfatta di Massa, è facile prevedere che i produttori agricoli che hanno votato per Milei se ne pentiranno presto.
Già ad agosto il viceministro dell’Ambiente Sergio Federovisky aveva lanciato l’allarme: «Come si può pensare che uno che non crede al cambiamento climatico investa nella prevenzione e nel contrasto degli incendi forestali o nelle azioni di adattamento richieste alla politica agricola per affrontare i futuri periodi di siccità?».
E che Milei sia un negazionista climatico al pari di Bolsonaro non ci sono dubbi: non solo ha affermato che «il riscaldamento globale è un’altra delle menzogne del socialismo», negando ripetutamente la sua origine antropica, ma ha anche promesso di abbandonare l’Agenda 2030 delle Nazioni unite, definita come un’imposizione del «marxismo culturale».
Milei si presenta, «tolleranza zero» contro chi protesta
L’UNICA AGENDA SARÀ LA SUA e il rischio è che faccia impallidire persino il già intenso modello estrattivista del governo uscente: aumento vertiginoso degli investimenti negli idrocarburi, a partire dal giacimento di Vaca Muerta, promozione massiccia dell’estrazione del litio, licenza di inquinare per le imprese. E se nel suo programma elettorale ambiente e clima brillano per la loro assenza – semplicemente non ci sarà in quest’ambito nessuna politica di stato -, non sorprende che il ministero dell’Ambiente sia tra i dieci contro cui Milei azionerà la motosega.
Ma se, almeno stando alle sue dichiarazioni, quella che si annuncia per l’Argentina è una sorta di apocalisse, la sua vittoria provocherà un terremoto anche in politica estera. Da che parte stia, lui non lo ha mai nascosto, e l’ha nuovamente ribadito anche ieri, annunciando che, prima ancora di insediarsi alla presidenza il 10 dicembre, si recherà in visita prima negli Usa e poi in Israele, di cui ha fin dall’inizio rivendicato il «diritto di difendersi» in contrasto con la consistente parte dell’America latina. Non a caso tra chi ha più esultato per la sua vittoria figura il ministro degli esteri israeliano Eli Cohen, il quale lo ha invitato nel suo paese per «rafforzare le relazioni reciproche» e «inaugurare» la nuova ambasciata argentina a Gerusalemme, secondo la promessa fatta da Milei in campagna elettorale.
SE POI la più accreditata candidata al ministero degli Esteri, Diana Mondino, ha già fatto sapere che l’Argentina non aderirà ai Brics, dicendo di non spiegarsi come mai tanti paesi facciano la fila per entrare nel blocco, è invece improbabile che il nuovo presidente smetterà di collaborare con «paesi socialisti» come la Cina, il Brasile, la Colombia o il Cile. Né Lula né Boric hanno comunque voluto alzare i toni: il primo, bollato da Milei come «comunista» e «corrotto», ha detto che «la democrazia è la voce del popolo» e che «il Brasile sarà sempre disponibile a lavorare con i nostri fratelli argentini»; il secondo ha garantito «rispetto» e «appoggio», promettendo di operare «instancabilmente» per «mantenere unite le nostre nazioni sorelle».
NON COSÌ DIPLOMATICO è stato invece Gustavo Petro, per il quale l’elezione di Javier Milei è una «triste notizia per l’America Latina: ci riporta a Pinochet e Videla», aveva scritto sui social nei giorni scorsi. E, considerando il sostegno ai genocidi della dittatura da parte del loco e della sua vice Victoria Villarruel, è difficile dargli torto
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