Lo ha stabilito il Gup di Roma. Prima udienza il 20 febbraio 2024, a otto anni dall’omicidio
Dopo esattamente 8 anni, il 20 febbraio 2024 inizierà davanti alla prima sezione della Corte d’Assise di Roma il processo ai quattro ufficiali dei servizi segreti egiziani accusati dalla giustizia italiana di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni tra il gennaio e il febbraio del 2016 al Cairo. Nel procedimento la Presidenza del consiglio dei ministri si costituirà parte civile e, in caso di condanna, chiederà un risarcimento di 2 milioni di euro. Per la madre del ricercatore friulano, Paola Deffendi, finalmente «è una bella giornata».
Il processo ai quattro agenti della National Security Agency cairota (il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif), accusati di sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato, è stato disposto ieri dal Gup di Roma su richiesta del procuratore aggiunto Sergio Colaiocco. Processo che si è reso possibile dopo la sentenza della Corte costituzionale del 27 settembre scorso che ha dichiarato illegittimo l’art. 420-bis comma 3 del codice di procedura penale perché sarebbe incostituzionale non avviare un procedimento giudiziario contro persone accusate di atti di tortura (anche se l’introduzione del reato nel nostro codice è del 2017, dunque non applicabile al caso) «quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo».
«L’assenza degli imputati non ridurrà il processo ad un simulacro – ha assicurato il pm romano Colaiocco – Poter ricostruire pubblicamente in un dibattimento penale i fatti e le singole responsabilità corrisponde ad un obbligo costituzionale e sovranazionale. Un obbligo che la Procura di Roma con orgoglio ha sin dall’inizio delle indagini cercato di adempiere con piena convinzione».
Malgrado tutti i tentativi delle autorità egiziane di fermare la giustizia italiana e dopo anni di depistaggi anche sanguinosi, ormai è evidente, tra l’altro, che gli 007 egiziani sono a conoscenza della pendenza del processo. «Anche in virtù – come ha riferito l’avvocata della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini – del recente incontro tra il ministro Antonio Tajani e Al-Sisi, durante il quale il ministro degli Esteri ha informato il presidente egiziano che si procederà in Italia contro i quattro imputati»
Commenta (0 Commenti)OFFENSIVA ISRAELIANA. Centinaia di morti palestinesi da quanto è saltata la tregua, secondo fonti governative nella Striscia.
A Said Majdalawi piace descriversi come «compagno». «Sono uno di sinistra, tutta la mia famiglia è sinistra, lo siamo da sempre» amava ripeterci quando l’abbiamo incontrato, aggiungendo che in Italia legge sempre il manifesto. Originario di Jabaliya, nel nord di Gaza, ma residente in Italia da qualche anno, Said era in Europa il 7 ottobre. Si è subito spostato al Cairo nella speranza di raggiungere in tempo il valico di Rafah. Niente da fare. Da allora prova senza successo ad entrare a Gaza. «Vorrei far uscire da Gaza mia moglie e i miei figli ma l’Italia aiuta solo coloro che hanno la cittadinanza italiana e non quelli con la residenza», ci spiegava ieri al telefono dall’Egitto. «Sono spaventato – ha aggiunto con un filo di voce -, la mia famiglia è sfollata al sud e Israele ora bombarda a tappetto anche lì. Non so cosa fare, l’ansia mi sta consumando».
Said Majdalawi ha ragione a temere per i suoi congiunti. L’offensiva aerea di Israele che ha ridotto in macerie ampie porzioni del nord della Striscia e il capoluogo Gaza city, da quando, venerdì, è saltata la tregua con Hamas, si concentra sul sud. Quella che doveva essere l’area sicura per gli sfollati. «Non c’è posto protetto, colpiscono ovunque» ripetevano ieri i civili palestinesi nei video girati con i telefoni o nei servizi realizzati da Al Jazeera e altri media. Una pioggia di bombe si è abbattuta in particolare su Khan Yunis ma non ha risparmiato località del nord come Jabaliya, Beit Lahiya e Shujayeh, sobborgo orientale di Gaza city già raso al suolo nel 2014 durante l’operazione «Margine Protettivo». Aerei e artiglieria di Israele hanno colpito case, moschee, edifici pubblici. Per le autorità israeliane erano obiettivi di Hamas. Le immagini che giungevano ieri da Gaza però mostrano zone residenziali colpite a ripetizione e civili che urlavano in preda al panico o che accorrevano in soccorso dei feriti. Nei filmati i bambini portati all’ospedale appaiono ricoperti di sangue e dalla polvere del cemento reso di nuovo polvere dalla potenza distruttiva delle bombe. Impressionanti le scene al centro residenziale Hamad: palazzi costruiti di recente in un’area aperta e pulita, con belle strade dove vivono centinaia di famiglia. Le esplosioni, terrificanti, sono avvenute in serie sugli edifici più esposti. In un video una donna giace a terra in una pozza di sangue, probabilmente raggiunta da una scheggia. Colonne di fumo e polvere si sono alzate da tre moschee centrate in pieno. Sei attacchi aerei si sono concentrati in aree vicine all’ospedale Nasser, pieno di migliaia di sfollati e centinaia di feriti, molti dei quali erano stati evacuati dagli ospedali del nord. Anche Rafah è stata colpita duramente. Il ministero della sanità di Gaza ha riferito nel primo pomeriggio di almeno 200 palestinesi morti da venerdì mattina, in maggioranza donne e bambini. Poche ore dopo sono giunte notizie di un «massacro» a Shujaiyeh dove sono stati colpiti 50 palazzi. «300 i morti», secondo fonti governative a Gaza. Tra i morti di ieri c’è anche il presidente dell’Università islamica, Sufian Tayeh ucciso da un bombardamento nel campo profughi di Jabaliya insieme alla sua famiglia. Tayeh, che dirigeva la più grande università di Gaza, era stato nominato presidente dell’Unesco per le scienze fisiche e astrofisiche in Palestina.
Deir al Balah, sul mare, è stata presa di mira dalla Marina militare: nove morti. Anche in questo caso, dice Israele, sono state distrutte infrastrutture e basi di Hamas che, invece, dopo 57 giorni di una guerra distruttiva, continua a combattere in apparenza non indebolito dagli attacchi israeliani e continua a lanciare razzi, anche ieri. La sua ala militare, le Brigate Ezzedin al Qassam, ha diffuso ieri un nuovo filmato con blitz dei suoi uomini contro soldati e mezzi israeliani. Non si si quando e dove quelle immagini siano state riprese ma si vedono militari israeliani, una ruspa dell’esercito e blindati centrati in pieno da razzi anticarro.
Gli sfollati di Gaza si sono rifugiati a Khan Younis e Rafah a causa dei combattimenti nel nord. Ora, come i residenti, temono di dover scappare di nuovo. «È stata una delle notti peggiori che abbiamo trascorso da quando siamo arrivati qui. Abbiamo paura che entrino anche a Khan Younis. Questa è la stessa tattica che (gli israeliani) usavano prima di entrare a Gaza e nel nord», ha spiegato Yamen, un giovane ad un’agenzia di stampa. «Dove andrò dopo Khan Younis? Non so dove porterei mia moglie e i miei sei figli». In volantini lanciati nelle aree orientali di Gaza e diretto ai residenti di quattro città, si ordina di evacuare non più nei quartieri occidentali di Khan Younis come in passato, ma più a sud, a Rafah. A migliaia sono scesi in strada con le loro cose ammucchiate sui carri, cercando riparo più a ovest. Poi si sono resi conto che ormai non c’è più scampo, ogni posto è rischioso, tranne l’area dei Mawasi, un rettangolo di terra agricola vicino alla costa dove già da ottobre Israele cerca di spingere i civili di Gaza. Ma è così piccolo che non potrà mai contenere due milioni di palestinesi. Ieri i comandi israeliani hanno usato per la prima volta la mappa in cui Gaza è suddivisa in centinaia di quadrati con numeri. Ai civili sarà indicato dove spostarsi durante le operazioni militari. Per i palestinesi, nelle condizioni attuali del territorio, è impraticabile. Amjad Abu Taha, un insegnante di Gaza City, dice che Israele sta cercando di ingannare il mondo suggerendo ai residenti di Gaza l’opportunità di cercare sicurezza, ma, aggiunge, «Tutti sanno che nessun posto è sicuro a Gaza».
Intanto Human Rights Watch denuncia che il 9 novembre attacchi aerei hanno colpito il centro medico Al-Nasr a Gaza City, interrompendo la fornitura di ossigeno all’unità di terapia intensiva neonatale. Il personale medico è stato costretto ad evacuare lasciando i bambini che non potevano essere trasportati da soli in terapia intensiva. Il 28 novembre, durante il cessate il fuoco, i medici sono riusciti a tornare e hanno trovato cinque bambini morti.
Migliaia di persone riempivano ieri sera la cosiddetta piazza degli ostaggi a Tel Aviv. Però lo scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi andato avanti per una settimana è concluso. Ora è guerra, dura, anzi peggio, di prima. Reagendo alla ripresa a pieno regime dell’offensiva contro Gaza, Saleh Aruri, uno dei leader di Hamas, ieri ha detto ad Al Jazeera che la sua organizzazione non accetterà il rilascio di altri israeliani senza un cessate il fuoco definitivo e il rilascio di tutti i prigionieri politici palestinesi (7.700). Israele accusa Hamas di aver rotto l’accordo e di non voler più rilasciare 15 donne e due bambini che ha ancora nelle sue mani a Gaza. Per questo ha ritirato la delegazione del Mossad che era in Qatar per le trattative. Hamas sostiene che nella maggior parte dei casi sono militari o ex militari la cui liberazione potrà avvenire solo sulla base di nuove condizioni. In una conferenza stampa, ieri sera, il premier israeliano Netanyahu ha ribadito che la guerra continuerà, anche con una offensiva di terra, finché Hamas non sarà raggiunto e che sarà fatto di tutto liberare gli ostaggi. Non ha spiegato le ragioni che hanno spinto il ministro della difesa Gallant a rifiutare una conferenza stampa congiunta con lui
Commenta (0 Commenti)Circola nelle mail dei funzionari dei ministeri coinvolti un prospetto complessivo sul totale dei costi stimati per i centri italiani in terra albanese e accende una prima luce sull’impegno economico della nuova scommessa di Meloni: almeno 92,5 milioni di euro il primo anno e poi 49 per ognuno dei quattro successivi previsti dall’intesa quinquennale. Nel documento che il manifesto ha potuto visionare, finora inedito, c’è un numero importante che smentisce gli annunci della premier: saranno 720, e non 3mila, i migranti trattenuti contemporaneamente oltre Adriatico nella migliore delle ipotesi. Almeno nella fase di avvio del progetto, che da protocollo prevede un totale «non superiore» a quello dichiarato dalla presidente del Consiglio.
Andiamo con ordine. Sull’accordo con il primo ministro albanese Edi Rama erano trapelate solo due cifre: i 16,5 milioni di euro come anticipo a Tirana entro i tre mesi dall’entrata in vigore del protocollo, verosimilmente per le spese di vigilanza esterna da moltiplicare per cinque anni, resi noti dal Corriere della Sera l’8 novembre scorso; i 100 milioni congelati su un fondo di garanzia per eventuali controversie di cui ha parlato la testata albanese gogo.al. Niente di ufficiale dunque, ma soprattutto nulla di relativo ai soldi che Roma dovrà utilizzare per la gestione diretta del progetto.
NELLA TABELLA RELATIVA al «totale dei costi stimati» per dare attuazione all’intesa ci sono numeri molto più interessanti. Riguardano le cifre per la realizzazione delle strutture, per le procedure relative alla protezione internazionale, per il personale di polizia e i suoi strumenti logistici. I centri saranno tre: un hotspot al porto di Shengjin (300 posti); una struttura di trattenimento a Gjader (300 posti); un Centro di permanenza per il rimpatrio, Cpr, nella stessa località (120 posti). Probabilmente gli ultimi due si troveranno in una ex base militare e saranno differenziati solo funzionalmente.
PER REALIZZARLI serviranno 36 milioni, mentre la loro gestione è stimata in 8 milioni annui. Per il funzionamento del collegio aggiuntivo della commissione territoriale per l’asilo e le procedure connesse agli iter delle domande sono messi a budget 1,5 milioni ogni dodici mesi. Quasi 40, invece, i milioni necessari su base annuale per le «risorse umane» che si occuperanno delle attività di polizia. Altri 7,5 milioni previsti, una tantum, per gli strumenti logistici a esse relativi (tra mezzi di trasporto, equipaggiamenti, risorse telematiche e voci varie). Le forze dell’ordine saranno organizzate su turni di 15 giorni. Il costo del viaggio andata e ritorno è calcolato in 800 euro per agente, mentre tra vitto e alloggio ne serviranno 120 a testa a notte. Per due settimane di impiego il personale che si occuperà dell’ordine pubblico godrà di un’indennità di trasferta di 450 euro a cui potranno sommarsi fino a 885 euro per gli straordinari (previsti per un massimo di 3 ore ogni giorno).
RESTANO FUORI, e andranno aggiunte, spese varie ed eventuali al momento non calcolabili su ogni capitolo di spesa. Oltre, come detto, a quelle per l’ente gestore. Il quale dovrà retribuire il suo personale, garantire vitto e alloggio ai migranti ed erogare loro alcuni servizi, tra cui l’assistenza sanitaria. Per un’idea indicativa si possono utilizzare i dati che la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) ha pubblicato nel rapporto L’affare Cpr, presentato a giugno scorso presso la Camera dei deputati.
Il totale relativo al triennio 2021-2023 per i dieci Cpr attivi sul territorio nazionale, almeno fino alla chiusura di quello torinese, con una «capienza teorica di 1.105 posti» è di 56 milioni stanziati a favore dei privati che li gestiscono. Se fosse possibile calcolare matematicamente la proporzione rispetto ai posti andrebbero previsti circa 12 milioni di euro ogni anno. Ma non è escluso che l’Albania, paese con un tenore di vita più basso, possa permettere forme di trattenimento low cost (se il personale impiegato fosse italiano, però, potrebbe costare di più per i benefit da trasferta).
LUNEDÌ A PALAZZO CHIGI si terrà la riunione preparatoria del Consiglio dei ministri per discutere, tra le altre cose, la legge di ratifica del protocollo, che dovrà passare dal parlamento. In attesa che il governo diffonda cifre ufficiali, più volte reclamate dai parlamentari d’opposizione senza esito, mettendo insieme tutte le stime venute fuori fino a questo punto i costi dell’intesa con Tirana partiranno da una base di 373,5 milioni di euro, senza contare i 100 milioni bloccati nel fondo di garanzia e le spese per l’ente gestore.
E senza contare neanche tutte le controversie giuridiche che si apriranno intorno al trattenimento dei migranti e alle loro richieste d’asilo nel territorio albanese sotto giurisdizione italiana. Oltre alle compicate questioni logistiche, che avranno un ulteriore risvolto economico, sul trasferimento dei migranti verso il porto di Shengjin con navi militari: non esattamente la destinazione dove contano di arrivare persone che hanno rischiato la vita attraversando il mare e spesso il deserto.
È fuggito dalla Germania nazista e ci è tornato come americano, è andato a Harvard e alla Casa Bianca, è stato segretario di stato di Nixon e Ford, consigliere di tutti i presidenti, potente lobbista per big della finanza, della chimica, dell’auto. Di passaggio ha fatto bombardare la Cambogia, prolungato la guerra in Vietnam, appoggiato il golpe in Cile e vari altri capolavori di realpolitik. Si è spento a cent’anni Henry Kissinger
IL SECOLO GREVE. Si è spento l’eterno segretario di Stato, «il criminale più amato dalla classe dirigente». Anche dopo essere uscito di scena con la presidenza Carter, l'influenza sua e delle sue idee è andata ben oltre la durata effettiva dei suoi mandati ufficiali
«Henry Kissinger, il criminale di guerra amato dalla classe dirigente americana, è finalmente morto». Così ha sobriamente titolato Rolling Stone l’articolo di Spencer Ackerman uscito poco dopo l’annuncio della morte del segretario di Stato più potente di tutti i tempi.
«L’infamia dell’architetto della politica estera di Nixon giace, eternamente, accanto a quella dei peggiori assassini di massa della storia. Una vergogna più profonda grava sul Paese che lo celebra», ha scritto Ackerman in un articolo ripreso e diffuso da tutta quella parte di America che lo aveva individuato come nemico sin dagli anni ’70, quando Nixon venne lo chiamò alla Casa Bianca come segretario di Stato, ruolo che ha mantenuto dal 1973 al 1976, passando attraverso due amministrazioni repubblicane, quella di Nixon e quella di Ford. A scoprirlo però era stato il primo, che lo aveva reclutato nel 1969 come consigliere alla sicurezza.
KISSINGER era ebreo, nato in Baviera nel 1923 con il nome di battesimo di Heinz Alfred, ed era fuggito dall’Olocausto con la famiglia nel 1938. Nel 1950 si laureò con lode ad Harvard, dove aveva studiato scienze politiche e dove nel 1951 e nel 1954 conseguì il master of arts e il dottorato in filosofia.
«Ad Harvard – scrive Greg Grandin su Jacobin – Kissinger durante la discussione di un seminario affermò, che non si può essere radicalmente liberi e allo stesso tempo soggetti a un requisito morale fisso (…) In altre parole, Kissinger si dichiarò ben presto a favore di ciò che la Nuova Destra moderna ha denunciato, almeno fino a poco tempo fa, come relativismo radicale: non esiste una verità assoluta». Arrivato in una posizione di potere Kissinger non si è smentito, ed è diventato una figura molto discussa per la sua realpolitik, un’idea spietata e cinica secondo cui gli stati possono perseguire i propri interessi in qualsiasi modo.
Di fatto Kissinger non hai mai smesso il ruolo di segretario di Stato. Anche dopo essere uscito di scena con la presidenza Carter, l’influenza sua e delle su
Leggi tutto: L’addio a Henry Kissinger, cent’anni di improntitudine - di Marina Catucci, NEW YORK
Commenta (0 Commenti)RIFORME. L’eminenza grigia di Forza Italia non lesina le critiche, che stravolgono quanto ha sempre affermato la ministra Casellati, sempre di Fi
Dopo le dure critiche di quattro autorevoli ex presidenti della Corte costituzionale, da Cartabia a Zagrebelsky, la bordata imprevista al premierato di Giorgia Meloni arriva da Gianni Letta: «La riforma fatalmente ridurrebbe i poteri del presidente della Repubblica perché la forza che ti deriva dalla investitura popolare è certamente maggiore di quella che deriva dal Parlamento: non sta scritto, ma è ovvio che poi nella dialettica chi è investito ha più forza».
L’eminenza grigia di Forza Italia non lesina le critiche, che stravolgono quanto ha sempre affermato la ministra Casellati, sempre di Fi, e cioè che i poteri del Colle non sarebbero stati toccati: «Secondo me la figura del presidente della Repubblica, così com’è disegnata, e l’interpretazione così come è stata data dai singoli presidenti, sta bene così: non l’attenuerei, non la ridisegnerei, non toglierei nessuna delle prerogative così come attualmente sono state esercitate», spiega Letta. «Oggi abbiamo un presidente felicemente regnante nel suo secondo mandato, che esercita il suo mandato in maniera splendida, perché ha fatto tanto bene a questo Paese».
Sovranità popolare non è votare un capo (o una capa)
Una presa di posizione così forte da costringere il vicepremier e leader di Fi Antonio Tajani a correggere il tiro: «Forza Italia sostiene convintamente la riforma sul premierato. Non vanno interpretate in direzione contraria alcune frasi di Gianni Letta. Mi ha confermato che le sue parole si riferivano a valutazioni teoriche e non a giudizi sulla riforma».
Una esegesi delle parole dell’ex sottosegretario di Berlusconi che, ovviamente, non convince le opposizioni: «Letta ammonisce il suo campo politico a non intaccare poteri, peso e autorevolezza del presidente della repubblica, come avverrebbe se andasse in porto l’elezione diretta del premier prevista nel progetto Meloni-Casellati», dice il senatore Parrini. «Il Pd e l’opposizione da settimane segnalano questo pericolo. Reputo molto significativo che a riservare una chiara bocciatura all’elemento principale del ddl sia uno dei padri nobili del centrodestra italiano».
Ieri altri due esperti vicini al centrodestra, Nicolò Zanon e Oreste Pollicino, vicini al cemntrodestra, nelle audizioni in Senato hanno sollevato obiezioni sulla previsione del secondo premier e sul premio di maggioranza del 55% inserito in Costituzione. Due punti su cui pesano anche i dubbi di Meloni, che non esclude ritocchi in corso d’opera. Peccato però che il “secondo premier” (in caso di sfiducia a quello eletto dai cittadini) sia stata una delle più pesanti richieste della Lega. Che, per ora, non si sbilancia sul premierato, in attesa di capire i tempi di approvazione dell’autonomia. Il partito di Salvini resta guardingo, pronto a ostacolare il cammino del premierato se la “sua” riforma non dovesse procedere spedita
Commenta (0 Commenti)EUROPA VERDE. I portavoce litigano in vista delle europee. In ballo le alleanze
Le elezioni europee si avvicinano e si consuma la rottura che aleggiava da qualche mese in Europa Verde. Eleonora Evi, ex europarlamentare eletta con il Movimento 5 Stelle ora deputata con Alleanza Verdi Sinistra si è dimessa da co-portavoce, ruolo che fino a ieri ricopriva in coabitazione con Angelo Bonelli.
In un testo diffuso via social, Evi ha ricostruito la storia degli ultimi anni, fino al passaggio di Europa Verde e la scelta elettorale con Sinistra italiana. «A sorpresa, dopo le politiche del 2022, qualcosa ha scatenato un corto circuito quasi indecifrabile – spiega – Improvvisamente i vecchi dirigenti hanno iniziato a fare muro contro di me, e questo perché avevo idee diverse e pretendevo, da co-portavoce nazionale, di essere a conoscenza, ad esempio, delle decisioni politiche sulle liste, sulle alleanze e sulle strategie della campagna elettorale». Rivendica di avere «espresso posizioni o visioni non allineate a quelle della dirigenza durante le riunioni della direzione nazionale» in seguito alle quali «la mia figura è stata sempre più oscurata e così, di fatto, è stato annullato il ruolo della co-portavoce femminile del partito, sul piano politico e comunicativo». Tutto ciò rappresenterebbe «il segno della deriva autoritaria e autarchica del partito», prosegue Evi dicendosi comunque «fermamente convinta della necessità di un progetto ecologista italiano coraggioso e contemporaneo, e non l’ennesimo partito personale e patriarcale».
La risposta di Angelo Bonelli è arrivata a stretto giro. L’esponente verde si dice «molto dispiaciuto» per l’addio di Evi ma rimanda alla mittente tutte le accuse. Il vero motivo del contendere, sostiene, sarebbe «la decisione del partito di proseguire l’esperienza di alleanza con Sinistra italiana», scelta peraltro confermata da congresso di Si conclusosi domenica scorsa a Perugia. «Lei non voleva – dice Bonelli – Ma la direzione ha votato a favore del cammino comune». Evi accusa Bonelli di gestione «patriarcale», le risponde la capogruppo di Avs alla Camera (anche lei di estrazione Verdi) Luana Zanella. «Spero che tutto si ricomponga sul piano politico e attraverso un dialogo trasparente – afferma Zanella – Provo grande dispiacere per l’utilizzo strumentale della parola ‘patriarcato’, termine che non va banalizzato, soprattutto in questo periodo, né scagliato contro tutta una comunità la cui storia è segnata dal protagonismo femminile e le cui radici si fondano nei movimenti ecofemministi»
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