NUOVO GOVERNO. Cinque ministeri a Sumar, diverse conferme, quattro vice donne, Yolanda Díaz di nuovo al lavoro. I viola protestano per l’esclusione
Si è preso tutto il fine settimana il nuovo presidente del governo spagnolo per far conoscere le sue ministre e i suoi ministri. Le caselle si sono andate riempiendo col passare delle ore. L’ultima carta scoperta è stata quella più politicamente controversa: quella del ministero per l’uguaglianza. Che ha sancito la rottura definitiva del governo con Podemos.
IL NUOVO GOVERNO Sánchez sarà di nuovo costituito da 22 persone, 12 ministre e 10 ministri. Cinque di loro in quota Sumar. Fra i nomi, alcuni rimangono saldi ai loro posti. La potente ministra dell’economia Nadia Calviño mantiene la prima vicepresidenza, in attesa di capire se a dicembre ascenderà alla presidenza della Banca europea degli investimenti. Il ministro degli interni continua a essere l’ex giudice conservatore Fernando Grande-Marlaska, che non è stato scalfito dagli scandali (in primis quello sulla gestione dei migranti alla frontiera). Anche la difesa resterà in mano all’ex giudice Margarida Robles, pure lei dell’ala conservatrice del partito. La terza vicepresidenza la continua a occupare Teresa Ribera, ministra della transizione ecologica, mentre la quarta la assume Maria Jesús Montero, ministra delle finanze uscente, che mantiene il suo dicastero. Assieme a Yolanda Díaz, capodelegazione di Sumar, che manterrà il ministero del lavoro, Sánchez ha quattro vice donne.
Rimangono nel governo il ministro degli esteri José Manuel Albares, il potente ministro della presidenza, Féliz Bolaño, capo negoziatore e braccio destro di Sánchez che assume anche il delicato ministero di giustizia; e poi Pilar Alegría, ministra dell’educazione uscente, madrina dell’ultima riforma dell’educazione, e che guiderà anche lo sport. E poi ci sono Isabel Rodríguez, che mantiene il dicastero sulla casa, e Diana Morant, che al ministero della scienza (a cui era arrivata sostituendo l’astronauta Pedro Duque), aggiunge anche quello dell’università (gestito sinora dai viola). Luís Planas rimane all’agricoltura.
José Luís Escrivá, tecnico molto apprezzato anche fuori dal partito, lascia il welfare per passare alla trasformazione digitale (un nuovo dicastero le cui competenze esercitava Calviño, di cui forse potrebbe prendere il posto). Per quanto riguarda le facce nuove socialiste, entrano Óscar Puentes, ex sindaco di Valladolid, e stella in ascesa nel partito, che assume il ministero dei trasporti. Altro nome proveniente dalla politica locale è quello dell’ex sindaco di Barcellona Jordi Hereu, con stretti legami coi poteri forti e con gli imprenditori: andrà a occupare – cosa già accaduta a membri del partito dei socialisti catalani – il ministero dell’industria. Due volti meno noti sono quelli della nuova ministra del welfare e delle migrazioni, Elma Saiz (che proviene dalla politica locale in Navarra) e, per le politiche territoriali e la memoria democratica, del canario Ángel Victor Torres. La poco conosciuta Ana Redondo sostituirà Irene Montero al ministero dell’uguaglianza: in questo modo i socialisti si riprendono il ministero che Podemos ha difeso con unghie e denti.
PER SUMAR, a parte Yolanda Díaz, il nome più noto è quello dell’eurodeputato verde Ernest Urtasun (quota Barcelona en comú di Ada Colau) che sarà il nuovo ministro della cultura. Poi c’è Mónica García, medico, attuale portavoce di Más Madrid – il partito fondato dall’ex numero due di Pablo Iglesias, Íñigo Errejón – e che guidava l’opposizione a Madrid alla potente Isabel Díaz Ayuso. Occuperà la poltrona della sanità, un ministero con poche competenze nazionali. Il politologo Pablo Bustinduy, ex apprezzato deputato di Podemos (che lasciò il partito e la politica nel 2019), sostituirà l’attuale segretaria di Podemos Ione Belarra al ministero degli affari sociali (che ingloba anche il consumo, guidato dall’ex segretario di Izquierda Unida Alberto Garzón) e l’agenda 2030. Infine, l’attuale numero uno di Izquierda Unida, l’eurodeputata Sira Rego, occuperà il nuovo ministero dell’infanzia e della gioventù.
PODEMOS È FURENTE: il partito con più iscritti della coalizione è rimasto all’asciutto. Ione Belarra accusava ieri Psoe e Sumar di volerli far sparire. Sumar è «subalterno al Psoe» e «servile con i poteri di fatto» ha scritto in una lettera ai militanti
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ARMENI-ISRAELE. Una società israeliana sostiene di aver ottenuto un leasing sul Giardino delle Mucche. Minacciate anche cinque abitazioni
Il Giardino delle Mucche nel quartiere armeno della città vecchia di Gerusalemme. - Michele Giorgio
Per anni Garo Nalbandian, uno degli esponenti più noti della comunità armena di Gerusalemme, ha raccontato le vicende di persone semplici e di estremisti della politica, dei palestinesi, degli israeliani e tanto altro. L’ha fatto con la sua macchina fotografica. Un suo scatto diceva più di tante parole. Durante la prima Intifada, più di trent’anni fa, era compagno assiduo della stampa estera, lo trovavi ovunque nei Territori palestinesi occupati. E comunque non passava inosservato per l’altezza e la sua testa piena di ricci neri. Poi quando i capelli sono diventati bianchi ha ceduto il passo al figlio. All’età di 82 anni, mentre si gode i fiori del suo giardino, Nalbandian non crede di essere proprio lui al centro delle notizie. «Vogliono portarmi via la casa, e non solo a me, anche ad altre quattro famiglie», ci dice accogliendoci in un appartamento di poche decine di metri quadri ritagliato all’interno del quartiere armeno, nella città vecchia di Gerusalemme.
Il fotografo si riferisce alle intenzioni della Xana Gardens Ltd, una società israeliana che afferma di aver ottenuto dall’arcivescovo Nourhan Manougian, un leasing immobiliare di 99 anni su una importante proprietà del Patriarcato armeno. L’accordo, sostiene la società, permette la costruzione un hotel di lusso non solo nel parcheggio nel cosiddetto Giardino delle Mucche ma anche sull’area adiacente, più interna, che arriva fino alla strada che attraversa il quartiere armeno e che porta, alcune centinaia di metri dopo, al Muro del Pianto. A breve distanza dalla casa di Garo Nalbandian c’è la Cattedrale di San Giacomo costruita nel 1163 e che ancora oggi viene illuminata solo dalla luce del sole, da candele e lampade ad olio. «Vogliono prendersi quest’area e anche le nostre case. Vogliono cacciarci via, è una minaccia esistenziale per tutto il quartiere armeno», ci dice l’anziano fotografo. Arriva sua moglie che, avvedutasi della presenza di un estraneo in casa, prova con gesti rapidi a sistemarsi i capelli. «Noi armeni siamo parte della storia di Gerusalemme» ci dice Nalbandian stringendole la mano «la mia famiglia è qui dai tempi del genocidio armeno, mia moglie vanta origini persino più antiche in questa città. I suoi antenati a Gerusalemme ci sono arrivati centinaia di anni fa».
Nel parcheggio conteso sono riuniti decine di armeni, in prevalenza giovani. Tengono un presidio permanente a difesa del Giardino delle Mucche, alle spalle della Basilica della Dormizione, il punto più alto della città vecchia. In basso c’è la valle dell’Hinnom dove una «immobiliare» legata al movimento dei coloni israeliani ha fatto costruire di recente un ponte a scopo turistico contestato dai palestinesi e dagli ambientalisti israeliani.
Il Patriarcato armeno ha avvertito che si trova ad affrontare la «più grande minaccia esistenziale» della sua storia. Ma gran parte della sua comunità punta il dito proprio contro di lui. Manougian nella migliore delle ipotesi è ritenuto un «ingenuo» che firmato senza leggere con la dovuta attenzione tutte le carte aprendo così la strada al controllo della Xana su tutta l’area e non solo sul 13% di essa. Nella peggiore di essere colluso con la società israeliana e i coloni entrati all’improvviso in scena. Il suo tardivo ripensamento, frutto della rabbia della comunità armena, e la sua decisione ufficiale, lo scorso 26 ottobre, di revocare il leasing, non hanno dissuaso la Xana che ha subito inviato le ruspe a rimuovere l’asfalto del parcheggio. Solo la barriera umana eretta da decine di armeni ha fermato la demolizione delle abitazioni. Si è fatto vivo al parcheggio anche Danny Rothman, il proprietario della Xana, per proclamare irrilevante la mossa del Patriarca Manougian e reclamare il rispetto del leasing.
Il 4 novembre l’intera comunità armena ha manifestato pacificamente contro le intenzioni della società israeliana. Il giorno dopo arrivati dozzine di estremisti israeliani residenti, pare, in quella parte della città vecchia. Si sono vissuti momenti di forte tensione, si è sfiorato lo scontro fisico. Infine, è giunta la polizia ad ordinare agli armeni, cinque dei quali arrestati e posti gli arresti domiciliari, di non «provocare disordini». La tensione è alta e in previsioni di nuove incursioni di coloni e polizia, gli armeni hanno alzato una recinzione per proteggere le loro case.
«Non si commetta l’errore di considerarla una disputa su proprietà immobiliari, questa vicenda ha un profondo contenuto politico che riguarda la nostra comunità di mille persone (2.500 in tutta la terra santa, ndr), la sua antica presenza in questo luogo e la storia recente di Gerusalemme» ci spiega Hagop, uno degli attivisti al presidio armeno. «Invece di rispondere per vie legali alla revoca dell’accordo come avviene in circostanze simili, la Xana ha scelto di usare provocazioni, aggressioni e altre molestie ai nostri danni. Ciò dimostra che l’obiettivo di questo progetto è politico e non commerciale». Per Hagop e altri armeni quanto sta accadendo al Giardino delle Mucche è solo un nuovo e più pericoloso capitolo della tensione crescente tra la comunità armena e gruppi di estremisti di destra israeliani che si registra da un paio d’anni a questa parte. «Scrivono slogan razzisti sui muri dei luoghi di culto, strappano i manifesti dove c’è la croce. Compiono provocazioni quotidiane. E la polizia non ci protegge. Per questo siamo in costante allerta», aggiunge Tony. A inizio anno un giovane armeno, George Kahkedijan, fu prima aggredito dai coloni e poi arrestato dalla polizia e detenuto per un giorno, pur non avendo commesso reati.
Garo Nalbandian è preoccupato, il suo volto è segnato dalla tensione. «Cercano di approfittare dell’attenzione concentrata sulla guerra a Gaza per realizzare i loro piani» ci dice. Quindi ci saluta con un appello. «Il mondo deve intervenire, è in pericolo tutta la comunità armena, con la sua storia, con le sue tradizioni. Per questo non ci arrenderemo»
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Nel dibattito sulla riforma del patto europeo di stabilità interviene anche il fisico e premio Nobel Giorgio Parisi. «Servono cambiamenti radicali – è la sua disamina – che si possono ottenere a livello Ue scorporando gli investimenti statali in ricerca e sviluppo dal calcolo del deficit evitando che la necessità di limitare le spese possa bloccare gravemente lo sviluppo scientifico e tecnologico del Paese. Una revisione del patto di stabilità europeo con lo scorporo di questi investimenti permetterebbe un deciso cambiamento di rotta a livello europeo e ci permetterebbe di raggiungere gli obiettivi fissati a Lisbona nel 2000 e di arrivare in tutti gli stati d’Europa a un’economia fondata sulla conoscenza». Le parole di Parisi, ricevute da un lungo applauso, vengono pronunciate dalla sede romana del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) durante la cerimonia conclusiva delle celebrazioni per il centenario dell’ente, alla presenza anche del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dei ministri Anna Maria Bernini (università e ricerca) e Adolfo Urso (made in Italy).
Il fisico ha messo il dito in una piaga storica per il nostro Paese. L’economia globalizzata richiede all’Italia di mantenere la stabilità finanziaria da un lato e di investire nel capitale umano e nella sua capacità innovativa, cioè in istruzione e ricerca, per mantenere competitività dall’altro. I due obiettivi sono difficilmente conciliabili e non è solo colpa dell’Europa: quando i vincoli della finanza pubblica sono stati allentati, infatti, i governi italiani non ne hanno mai approfittato per aumentare gli investimenti in questi settori. Per l’innovazione l’Italia spende l’1,4% del Pil, contro il 2,2% della Francia e il 3,1% della Germania. Scorporare dal deficit le spese di ricerca e sviluppo vincolerebbe l’Italia a fare debito «buono» invece di sprecarlo per ponti a Messina e flat tax per i ricchi.
Parisi ha preso ad esempio proprio il Cnr. «Come tutto il comparto della ricerca, è sottofinanziato», spiega. I fondi ricevuti dal governo bastano appena per pagare gli stipendi e i progetti di ricerca vengono realizzati grazie ai finanziamenti provenienti dai bandi promossi dalle agenzie pubbliche nazionali e internazionali o da investitori privati. «L’assoluta scarsezza di fondi da destinare autonomamente a imprese scientifiche impedisce al Cnr di essere in grado di fare scelte strategiche sulla direzione nella quale sviluppare la ricerca» ha proseguito Parisi. «E ha come conseguenza l’incapacità di attirare, tranne rare eccezioni, i ricercatori residenti all’estero che esitano a venire in Italia. I risultati dei grant dell’European Research Council sono chiarissimi: solo la metà dei vincitori italiani decide di utilizzare questi finanziamenti in Italia»
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Due conferme: la prima, la meno importante, è che i sondaggi pre-elettorali sbagliano ormai quasi sempre.
La seconda, decisamente più importante, è che l’Argentina continua l’infernale ciclo in cui è immersa dagli anni 1930, quando cessò di essere la potenza emergente più dinamica del mondo per diventare un paese ormai incapace di risollevarsi, nonostante le sue condizioni naturali, le più propizie di tutto l’emisfero sud.
Tra il 1880 e il 1905, il prodotto argentino si era moltiplicato per sette volte e mezza, con una crescita media annua di circa l’8 per cento; in quel periodo, il prodotto pro capite era passato da un terzo di quello americano a circa l’80 per cento.
Molti migranti europei (soprattutto italiani) preferirono quella destinazione, più calda e più latina, agli Stati Uniti, con la certezza di andare comunque verso una vita migliore, ma senza il freddo e l’ostilità anti-cattolica del grande paese del Nord.
Tra gli specialisti imperversa la discussione sul momento in cui quella dinamica di crescita si interruppe.
Molti convergono sull’incapacità di far fronte alla crisi del 1929, e molti sull’incapacità, piuttosto, di uscire dal meccanismo keynesiano innescato dopo la crisi del 1929.
All’Argentina va il triste primato dell’invenzione del populismo: diamo al popolo quello che il popolo reclama, senza preoccuparci se possiamo permettercelo o no.
Il «peronismo» (a cui, ancor oggi, il candidato sconfitto, Sergio Massa, si richiama, come la generazione Kirchner-Fernandez che lo aveva promosso ministro dell’Economia) è diventato sinonimo di quel populismo, generoso nel distribuire quel che non ha.
Il keynesismo come ricetta per uscire dalla crisi consiste essenzialmente nel deficit-spending, ovvero in una spesa pubblica a credito, con l’obiettivo di distribuire lavoro (cioè salari) anche senza un ritorno economico immediato (profitto), per rilanciare il consumo, cioè la produzione, cioè il profitto, cioè la produzione di ricchezza.
Il keynesismo, in Argentina, ha però svuotato le casse dello Stato senza mai riuscire a riempirle di nuovo.
Così, gli infernali cicli politici che si ripetono consistono essenzialmente in una tappa peronista di spesa pubblica senza ritorno economico (cioè senza produzione di ricchezza) che svuota le casse o produce inflazione (o entrambi), seguita da una tappa «liberista» che cerca di invertire il processo sospendendo prebende e promuovendo austerità, la quale genera il malcontento popolare sfruttato dai politici peronisti che si fanno eleggere di nuovo con la promessa di ripristinare prebende e servizi per i quali non hanno i mezzi e così via di seguito.
Dopo un mandato peronista (seguito al mandato «liberista» di Mauricio Macrì) l’Argentina è arrivata oggi alle elezioni con un’inflazione ufficiale del 142 per cento, una reale probabilmente tre volte più importante, le casse vuote e un debito di 44,5 miliardi con il Fondo monetario internazionale.
Milei, l’ennesimo capocomico eletto alla testa di un paese disperato, ha promesso di risolvere tutti i problemi e di fare l’Argentina «great again».
Non ci riuscirà, e non soltanto perché è un capocomico, ma perché nessun candidato che promette di risolvere tutti i problemi e di fare di nuovo grande il proprio paese ci è mai riuscito.
I peronisti appartengono invece alla sparuta pattuglia dei populisti che mantengono le promesse e che, mantenendole, aggravano i danni: infatti essi non promettono di risolvere tutti i problemi, ma di dare al popolo quello che il popolo reclama, cioè soldi e servizi che lo Stato non ha.
Senza neppure cercare di riavviare la produzione di ricchezza. E che finiscono quindi col far girare le rotative della zecca e chiedere prestiti al Fmi (senza rinunciare ad accusare il FmiI di essere una banda di sanguisughe).
Dopo la crisi del 2008, il peronismo ha fatto scuola: dappertutto si spendono spensieratamente risorse pubbliche che non ci sono per far contenti gli elettori.
Senza rendersi conto (forse) che, in fondo alla strada, c’è dappertutto un Milei pronto a far contenti gli elettori inevitabilmente delusi
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IL FRONTE INTERNO. Arriva a Gerusalemme la Marcia per gli ostaggi, rassicurazioni dal gabinetto di guerra, Netanyahu promette un colloquio lunedì. Altre proteste si tengono, come ogni sabato sera, in varie località del Paese
La marcia per gli ostaggi partita arriva Gerusalemme davanti alla residenza di Netanyahu - foto Ansa
Dopo che alle 18 sono suonate nuovamente le sirene, venerdì sera le vie di Tel Aviv sono quasi deserte. Un gruppo di giovani appena usciti dalla sinagoga conversa mentre si affretta a tornare a casa per la cena del sabato. «Non si può sacrificare un intero paese per 240 persone» dice M., israeliano sulla trentina che chiede di rimanere anonimo. «La priorità assoluta è quella di indebolire al massimo Hamas e assumere il controllo di Gaza, certamente speriamo di avere l’opportunità di riportare a casa anche gli ostaggi. Poi per garantire la sicurezza bisognerà cambiare linea e diventare più duri anche in Cisgiordania». Accanto a lui alcuni ragazzi di origine europea: «Abbiamo votato Netanyahu perché era l’unica opzione, ci ha delusi ma non dobbiamo farci confondere dalla complessità della situazione, siamo la generazione che precede l’arrivo del Messia». «Per me Israele non sarà sicura finché ci saranno gli arabi» dice una ragazza con l’accento francese. «Ti sbagli io sono di Haifa e a scuola molti dei miei migliori amici erano arabi» risponde un addetto alla sicurezza. «Gli arabi israeliani sono un’altra cosa» aggiunge M., «ma anche loro dovranno scegliere da che parte stare».
POCHE ORE DOPO si è tenuta sul lungo mare di Tel Aviv vicino a Yafo la prima manifestazione congiunta organizzata dal partito misto Hadash che, seppure con grande fatica, ha ottenuto il permesso della polizia. I partecipanti sono alcune decine, chiedono la pace e il cessate il fuoco in nome di un futuro condiviso come unica forma di convivenza possibile. Un uomo sulla sessantina sostiene che «affinché le cose cambino è necessaria la pressione esterna perché la maggior parte degli israeliani non sono consapevoli di quel che avviene a Gaza». A pochi metri gridano infervorati alcuni estremisti di destra che
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IL PIANO MATTEO. Un successo lo sciopero generale. Piazza del Popolo e le altre del centro gremite «come non succedeva da molti anni». Il ministro Salvini è il più evocato: tanti cartelli con titolo del manifesto «Precetto la qualunque»
Piazza del Popolo a Roma gremita per lo sciopero generale di Cgil e Uil - Foto di Adreas Solaro
Finita la manifestazione a piazza del Popolo, parte della folla si dirige verso la stazione della metro A di Flaminio, che si trova a pochi passi. La trova chiusa e si mette in diligente fila, molti con bandiere di Cgil e Uil in mano, in attesa che riapra. È la plastica dimostrazione della riuscita dello sciopero generale di ieri mattina nelle regioni del Centro – «straordinaria adesione oltre al 70%» – e della risposta alla precettazione del ministro Salvini che ha dimezzato a sole quattro ore nel settore dei trasporti.
Alcuni di quei lavoratori erano in piazza e una delegazione è salita perfino sul palco con lo striscione improvvisato «Lavoratori trasporti precettati» con lo spray rosso, applauditissimo dai 60 mila che riempivano la piazza come un uovo, metà rosso Cgil e metà azzurro-ciano Uil.
MATTEO SALVINI IN PIAZZA C’ERA eccome. Era presente nella maggioranza dei cartelli, parecchi con la prima pagina del manifesto di mercoledì col titolo «Precetto la qualunque». Ed è stato evocato in tutti gli interventi, specie da Pierpaolo Bombardieri mentre Maurizio Landini ha evitato – come fa sempre – di pronunciare il suo nome.
La piazza era la stessa di due anni fa quando Cgil e Uil scioperarono contro la manovra del governo Draghi, sebbene ieri fosse ancora più gremita e dominata dalla scritta “Pace” su sfondo arcobaleno sostenuta dai palloncini.
PER IL TERZO ANNO CONSECUTIVO la Cisl non fa parte della compagnia, ma nessuno ne ha sentito la mancanza o ne ha fatto cenno diretto, quasi fosse un’abitudine. E anche questa è
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