Giorgia Meloni ha già iniziato la campagna referendaria sulla riforma costituzionale, rendendo ben chiaro il tema che sarà al centro dello scontro: una concezione plebiscitaria della democrazia, a cui sarà necessario opporre una proposta non solo di difesa della democrazia parlamentare, ma di rilancio e sviluppo di tutti i principi del costituzionalismo democratico. Tra gli aspetti più pericolosi di questa riforma, che forse non hanno ricevuto ancora l’attenzione che meritano, vi sono quelli legati al sistema elettorale.

Uno degli aspetti più abnormi è quello che prevede l’inserimento nel testo costituzionale addirittura della soglia numerica del premio di maggioranza (il 55% dei seggi). Ma è un testo esposto ad un vistoso vizio di incostituzionalità: non si prevede alcuna soglia minima di voti per l’assegnazione del premio. Puro dilettantismo? Non credo proprio: dietro questo vuoto si può ipotizzare una precisa strategia politica. Alcune cronache politiche hanno cominciato infatti a raccontare quelle che sembrano le intenzioni della maggioranza a tal proposito. L’idea potrebbe essere quella di utilizzare proprio la palese insostenibilità dell’attuale testo per avviare una trattativa con alcuni compiacenti interlocutori parlamentari.

L’oggetto della trattativa non è ancora molto chiaro, ma sembra che si pensi ad una doppia soglia (oltre il 40%, il 55% dei seggi; oltre il 33%, comunque un premio che porti la coalizione vincente al 45% dei seggi). Quale è la logica di questo eventuale marchingegno? incentivare la corsa solitaria di un qualche arcipelago centrista, in grado di soccorrere amorevolmente la maggioranza se fosse necessario. Non sappiamo quanto fondate siano queste ipotesi. Quel che è certo è che l’intera logica plebiscitaria che ispira la riforma (un “capo” eletto, che “fa eleggere” il Parlamento al suo seguito e alle sue dipendenze) regge solo se il sistema elettorale è ancorato al premio di maggioranza. Perciò non basta più l’attuale Rosatellum, per il carattere aleatorio dei risultati che esso può produrre: ed è dunque necessario rimettere mano anche alla legge elettorale.

Al di là delle congetture sulle prossime tappe di questa partita, si impone una seria riflessione politica sul modello del “premio”, che ha trovato in Italia la sua patria di elezione e che tuttora qualcuno decanta come una geniale invenzione italica. Solitamente, esso viene spacciato come “maggioritario”, ma in realtà si fonda su una competizione proporzionale (a bassa soglia) che stravolge profondamente la rappresentanza. Non solo: è un sistema perfettamente funzionale agli aspetti più deteriori del sistema politico italiano: concentrazione leaderistica, da un lato; frammentazione, dall’altro.

E' un modello che  conferisce un grande potere marginale (un potere di ricatto e contrattazione) alle forze politiche minori e ai singoli notabili (e si capisce bene perché Renzi sia molto affezionato a questo modello). Con conseguenze rilevanti sulla stessa dinamica competitiva: si incentiva la formazione di coalizioni preventive piglia-tutti, con buona pace della coerenza successiva delle azioni di governo e della stessa stabilità dei governi (per il semplice fatto che gli eletti delle forze minori rivelatesi decisive conservano pienamente, anche dopo le elezioni, il proprio potere di condizionamento).

Cosa opporre a tutto questo? Non basta dire no. Otre a difendere e rafforzare le ragioni di una democrazia parlamentare, bisogna proporre un coerente sistema elettorale: e qui bisogna finalmente rompere gli indugi, e che lo faccia in particolare il PD: occorre dire apertamente che un processo di ri-legittimazione della democrazia italiana passa oggi da una riforma elettorale proporzionale, che sia sufficientemente selettiva (grazie alle soglie di sbarramento) e che reintroduca il voto di preferenza (sono note le contro-indicazioni: ma, a mio parere, nelle attuali condizioni ridare al Parlamentare una propria autonoma legittimità rappresentativa è possibile solo attraverso questa via, bilanciata da opportune misure, in particolare la ridotta dimensione delle circoscrizioni elettorali, in modo da contenere i costi delle campagne elettorali).

Non c’è un’alternativa seria, insomma, al tanto temuto «ritorno al proporzionale». Si obietterà che non è una strada realistica, che “non passerà mai”: ma qui entra in gioco la capacità di fare politica. Intanto, se le opposizioni concordassero su questa proposta, essa può divenire un argomento importante da far pesare nella campagna referendaria. E può diventare una “bandiera” efficace di fronte all’opinione pubblica. Sono molti quelli che giudicano poco appassionante la disputa sui sistemi elettorali: è vero, ma proporre che gli elettori tornino ad avere il potere di scegliere il proprio rappresentante, e di poterlo fare nel proprio territorio, è un argomento che può trovare molto ascolto e interesse.

In secondo luogo, attestarsi unitariamente su questa proposta, può costituire un buon viatico per le successive elezioni politiche: sia nel caso che le riforme Meloni andassero in porto (obbligando a costruire una coalizione competitiva), sia nel caso (auspicabile) che questa riforma si areni o sia bocciata al referendum, e si tornasse dunque a votare con il Rosatellum: se qualcuno sente qualche istinto suicida si faccia avanti, e abbia il coraggio di dire che «ci sono troppe differenze» nel campo delle opposizioni e che non si possono costruire alleanze, o nemmeno accordi solo elettorali. Sarebbe irresponsabile, oltre che suicida.