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L’annuncio giunge al tramonto: accordo tra Israele e Hamas, due giorni in più di pausa fino a giovedì mattina. Ossigeno per Gaza stremata, aiuti in arrivo nel nord in macerie e altri scambi di prigionieri e ostaggi. Ma Netanyahu ripete: la guerra non finisce qui

STRISCIA POSITIVA. Al tramonto l'annuncio, tregua fino giovedì mattina. Israele ottiene nuove liberazioni di ostaggi. Il popolo di Gaza respira. Ma Nord la popolazione è in ginocchio

 La pausa umanitaria si allunga di 48 ore: più rilasci e zero bombe Sfollati palestinesi lasciano il nord di Gaza - Ap

La «pausa umanitaria», come la chiamano, continuerà anche oggi e domani. Il Qatar è riuscito a convincere Israele e Hamas a prolungarla evitando che oltre due milioni di palestinesi si risvegliassero questa mattina nell’incubo di nuovi bombardamenti aerei e di altre stragi di civili. Ieri solo dopo il tramonto le due parti hanno aperto la strada al quarto scambio di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, rispettivamente 11 (tutti del kibbutz Nir Oz) e 33, quasi tutti giovanissimi. Era attesa la liberazione anche di sei lavoratori tailandesi sequestrati il 7 ottobre.

Altri due giorni senza esplosioni e morte. I palestinesi di Gaza li useranno per recuperare le forze, per fare scorta di cibo e, alcuni, anche per andare al mare. Nei giorni scorsi padri, madri e figli, incuranti del divieto di entrare in acqua emesso dall’Esercito israeliano, hanno goduto di qualche ora di riposo in spiaggia dopo settimane trascorse in condizioni di vita estenuanti nelle tendopoli e nelle scuole, con sovraffollamento, carenza di servizi igienici e docce e lunghe code giornaliere per piccole razioni di cibo e acqua, aggravate dall’impatto psicologico dei bombardamenti e degli sfollamenti. «Accanto al mare possiamo finalmente respirare, eppure siamo così depressi. Siamo sulla spiaggia ma vogliamo piangere», ha detto Asmaa al Sultan a un’agenzia di stampa. Il pensiero della donna va ai circa 15 mila palestinesi uccisi e alle altre migliaia che sono dispersi, probabilmente morti sotto le macerie colpiti da missili e bombe sganciate dall’aviazione israeliana.

Cosa accadrà da oggi a giovedì mattina, quando scadrà la

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SCONTRO DIPLOMATICO SENZA PRECEDENTI. Il premier socialista non usa giri di parole. La Spagna pronta a riconoscere uno Stato della Palestina, unica in Europa

Sánchez: «Strage di innocenti inaccettabile da parte di Israele». Dura replica di Tel Aviv: «Appoggia i terroristi» Pedro Sánchez in visita con il primo ministro belga Alexander de Croo (2r) al kibbutz di Beeri a J'lem - Ap

Il primo passo del nuovo governo di Pedro Sánchez è stato quello di mettere i piedi nella minestra del premier israeliano Benjamin Netanyahu.

Appena ottenuto il via libera del congresso dei deputati al suo nuovo esecutivo, il primo viaggio intrapreso dal leader socialista giovedì scorso è stato proprio in Israele, nella sua doppia veste di capo del governo spagnolo e presidente di turno dell’Unione europea. E proprio il giorno che doveva iniziare la tregua dei bombardamenti israeliani sulla striscia Gaza. Nel viaggio lo ha accompagnato il premier belga Alexander de Croo, che guiderà l’Unione a partire dal primo gennaio.

Sánchez non ha usato giri di parole: il numero di civili uccisi a Gaza «è realmente insopportabile», ha detto. La risposta agli attacchi di Hamas non può portare alla «morte di civili innocenti, compresi migliaia di bambini» e «la via della pace vuol dire uno stato palestinese che comprenda Gerusalemme Est, la West Bank e Gaza», facendo appello alle risoluzioni dell’Onu.

«LEI DEVE FERMARE urgentemente la catastrofe umanitaria in Gaza», gli ha detto in inglese, perché «la sofferenza di centinaia di migliaia di persone è insopportabile». E ha aggiunto che «i civili devono essere protetti a tutti i costi». Il tutto ammettendo che Israele ha il diritto di difendersi, ma «rispettando il diritto internazionale».

Queste stesse parole Sánchez le ha ripetute anche venerdì a Rafah, al confine egiziano, dopo aver incontrato assieme al suo omologo belga il presidente egiziano al-Sisi: «Israele ha diritto a difendersi, però nei parametri e limiti che impone il diritto internazionale, e questo non è il caso. L’assassinio indiscriminato di civili innocenti, compresi migliaia di bambini e bambine è completamente inaccettabile. La violenza porta solo ad altra violenza».

ISRAELE HA REAGITO ISTERICAMENTE venerdì sera a queste ultime dichiarazioni, che ricalcavano esattamente quelle ascoltate da Netanyahu il giorno prima, convocando gli ambasciatori di Spagna e Belgio, e accusando la Spagna di dare appoggio al terrorismo. A sua volta il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Albares ha convocato l’ambasciatrice israeliana a Madrid per trasmettere l’indignazione dell’esecutivo spagnolo rispetto a queste accuse «totalmente false e inaccettabili». La crisi diplomatica internazionale è al massimo, e – cosa inusuale in questi casi – il partito popolare ha deciso di mettersi dal lato del governo israeliano accusando Sánchez di essere «imprudente».

Il leader socialista sembra così dare seguito alla promessa fatta durante l’investitura di voler riconoscere lo stato palestinese, cosa che gli avevano chiesto insistentemente prima i ministri di Podemos (in maniera apparentemente estemporanea, in pieno processo di negoziazione per la formazione del governo), e poi la stessa Sumar.

UNA DELLE MINISTRE scelte dalla coalizione di sinistra, Sira Rego, di Izquierda Unida, è di origini palestinesi, e la sua famiglia vive a Gaza.

Se davvero la Spagna decidesse di riconoscere lo stato palestinese, come ha ripetutamente affermato Sánchez in questi ultimi giorni, sarebbe un gesto simbolico di enorme importanza, che potrebbe infrangere il muro europeo. Anche se ci sono 139 paesi (dei 193 che conformano l’Onu) che già riconoscono formalmente la Palestina, e anche se il paese dal 2012 è membro «osservatore» dell’Onu – cosa che dà il diritto, fra gli altri, di accedere alla Corte penale internazionale – non c’è neppure un paese europeo che lo faccia. La Spagna sarebbe il primo, e potrebbe essere seguito da altri paesi.

SENZA IL PLACET DEGLI STATI UNITI naturalmente questo non cambierebbe immediatamente le sorti della Palestina, ma potrebbe innescare un processo che in Europa neppure i selvaggi bombardamenti di queste settimane sembrava riuscissero ad attivare. Ancora una volta Sánchez dimostra di avere un mix di coraggio e fiuto politico nello scegliere il momento giusto per dare un colpo ad effetto

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INTERVALLO. Il primo stop ai raid utilizzato per cercare i dispersi, recuperare i cadaveri nelle strade, tornare sulle macerie della propria abitazione. 15mila morti, 7mila dispersi, 35mila feriti. E 1,7 milioni di sfollati. Anche ieri l’esercito ha sparato sui civili. E il governo israeliano assicura: è solo una «breve pausa, la guerra continua»

«Distruzione totale». Il risveglio di Gaza dopo 50 giorni di bombe Beit Lahiya, in cammino tra le macerie delle proprie case - Getty Images/Fadi Alwhidi

La magnitudine della devastazione di Gaza si comincia a conoscere solo con il cessate il fuoco. In quasi 50 giorni di bombardamenti aerei, cannonate e altro ancora, i giornalisti palestinesi e persone comuni hanno potuto, a rischio della vita, far conoscere al mondo con video, foto e messaggi le conseguenze dell’offensiva militare di Israele in quel piccolo lembo di terra. Ma ieri nel primo dei quattro giorni di tregua tra Israele e Hamas e dello scambio ostaggi-prigionieri politici, i palestinesi hanno avuto la possibilità di girare e osservare, senza temere di essere disintegrati dalle bombe, l’apocalisse che ha investito la loro terra.

I FILMATI DIFFUSI dalle persone in queste ultime ore mostrano un paesaggio lunare, centri abitati ridotti in cumuli di pietre, persone che si aggirano come fantasmi tra le rovine di case, edifici pubblici, moschee, scuole, asili. E anche i cadaveri rimasti senza sepoltura, alcuni in avanzato stato di decomposizione, altri carbonizzati, di adulti e di bambini. Ovunque. Sotto i palazzi crollati e nelle strade, anche su quella costiera, coperti dai passanti con cartoni e stracci.

La Protezione civile di Gaza passerà i giorni di tregua a recuperare una parte dei corpi delle migliaia di dispersi (7mila?) facendo salire il numero dei palestinesi uccisi, già 15mila. Israele lo ritiene un numero gonfiato ad arte «dal ministero della sanità di Hamas». Ma le agenzie umanitarie sanno che è molto vicino alla realtà, se non addirittura sottostimato.

LA GUERRA DI GAZA non è finita, non si faccia illusioni chi spera che questa tregua di quattro giorni porti a un cessate il fuoco permanente. «Ci sarà una breve pausa e poi continueremo con piena potenza militare. Non ci fermeremo finché non raggiungeremo i nostri obiettivi, la distruzione di Hamas e la liberazione degli ostaggi», ha assicurato il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant al termine ieri dell’incontro con l’omologo italiano Guido Crosetto, uno dei numerosi premier, ministri e uomini politici occidentali giunti in processione a Gerusalemme in queste ultime settimane per ribadire il loro appoggio all’offensiva militare israeliana «contro Hamas», però, se possibile, «con qualche civile ucciso in meno».

Quando ieri mattina alle 7 i boati incessanti delle esplosioni andate avanti per tutta la notte facendo altri morti e feriti, si sono spenti per la prima volta dopo settimane, migliaia di sfollati palestinesi si sono messi in marcia verso i quartieri orientali di Khan Yunis, la fascia Est della Striscia, Gaza city e anche il nord desiderosi di tornare alle loro case e in cerca di un breve momento di normalità. Uomini, donne e bambini, a piedi o a bordo delle poche auto che hanno ancora carburante, alcuni su carretti tirati da asinelli. Altri hanno messo le borse sulle spalle e si sono incamminati. Hanno attraversato scene di immensa distruzione.

MARWA DABDOUB, 37 ANNI, ha raccontato a un media locale di aver trovato la sua casa a Gaza city distrutta dai bombardamenti. «Eravamo felici di vedere la tregua, ma oggi abbiamo scoperto che la nostra casa non c’è più. Non siamo riusciti a trovare nulla. Ci hanno distrutto tutto», ha detto rovistando tra le macerie dell’abitazione. Come lei altre migliaia di palestinesi non hanno trovato altro che pietre, terra, pilastri di cemento spezzati.

Sono 1,7 milioni i palestinesi costretti dalla guerra e dalle intimazioni dell’esercito israeliano a lasciare le proprie case nel capoluogo Gaza city e nel nord della Striscia e che da settimane vivono ammassati in scuole, tende e ospedali nel sud. Le distruzioni sono talmente vaste che la ricostruzione di case e infrastrutture richiederà anni, ammesso che Israele lo permetta. «Sono andato in giro appena è cominciata la tregua» ha scritto su X un abitante di Gaza city, Refaat. «Distruzione completa, totale. Case edifici, moschee, giardini pubblici, scuole, condutture dell’acqua, pali della luce. Gli invasori israeliani in realtà non cercavano niente e nessuno. Hanno solo creato caos, attuato una vendetta sui cittadini palestinesi e le loro vite». Recuperare qualcosa di utile dalle macerie di casa è essenziale per chi non ha più nulla. Così come trovare cibo.

IERI DAL VALICO DI RAFAH sono entrati a Gaza 200 autocarri carichi di aiuti e altrettanti ne entreranno oggi, domani e lunedì. Ma la quantità di merci resta largamente insufficiente rispetto ai bisogni della popolazione. Le priorità nei carichi restano l’acqua, le medicine e tutto ciò che serve agli ospedali ancora operativi: a Gaza ci sono 35mila feriti. Ieri la Mezzaluna rossa ha evacuato altri feriti e ammalati dall’ospedale Ahli di Gaza city. Cercare i parenti sopravvissuti è un’altra priorità così come dare una degna sepoltura ai membri della famiglia uccisi dagli attacchi israeliani. Alcuni sono stati sepolti in fosse comuni nei giardini e nei terreni agricoli, o sono ancora nelle sacche per cadaveri davanti agli ingressi degli ospedali.

La striscia di sangue si è allungata anche ieri. Perché l’esercito israeliano, dando seguito a quanto aveva scritto in un volantino lanciato due giorni fa sul sud di Gaza, ha impedito alla maggior parte delle persone di tornare al nord. Per fermarle hanno lanciato lacrimogeni, sparato in aria, infine ad altezza d’uomo. Almeno due palestinesi sono stati uccisi, una ventina feriti, hanno riferito le agenzie di stampa. I soldati hanno aperto il fuoco anche nei pressi dell’ospedale Rantisi per fermare chi era sulla via del ritorno. E hanno effettuato un raid nell’ospedale Indonesiano dove, ha riferito il direttore generale del ministero della Sanità, Munir Al-Bursh, hanno ucciso una donna e arrestato tre persone.

REPARTI CORAZZATI ISRAELIANI stazionano in modo permanente sulle strade di collegamento Salah al-Din e Al-Shati. Il presunto «corridoio sicuro» rimarrà aperto durante i giorni della tregua in modo che ai residenti nel nord sia consentito di andare verso sud. Ma non di ritornare. 75 anni fa, andò allo stesso modo

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POLITICA. 420 delegati da 77 province. Una delegazione di Si alla piazza transfemminista. Fratoianni: «Contro la destra serve una mobilitazione unitaria». Pace e diritti al centro dei dibattito. Oggi parlano Schlein e Conte

Sinistra italiana apre il congresso e sfida le opposizioni L'apertura del congresso di Sinistra italiana

Accade quello che è giusto che accada a una comunità che non è avulsa dai conflitti sociali: al congresso di Sinistra italiana di Perugia irrompe la grande mobilitazione transfemminista e impone di prendere posizione. Dunque, il segretario Nicola Fratoianni dice che troverà il modo, oggi pomeriggio, di partecipare alla piazza perugina.

Lo ascoltano 420 delegati, a leggera prevalenza maschile, eletti in settantasette assemblee provinciali, per il terzo congresso di Si. «La prima parola che voglio pronunciare è pace» dice Fratoianni aprendo una relazione che rimanda alla necessità di costruire un ordine globale multipolare, giusto e democratico. Perché, prosegue, «nonostante tutto, il senso di impotenza non prevalga».

IL DOCUMENTO che lo vede come primo firmatario ha raccolto poco più del 90% dei consensi. Parla un linguaggio che non elude le grandi questioni globali e prova la (nient’affatto facile) operazione di farlo atterrare dentro la politica quotidiana e le mosse tattiche. Lo applaude in prima fila Nichi Vendola.

«Non è il tempo di aggiustamenti parziali di un meccanismo distruttivo – vi si legge tra l’altro – Si devono creare, con urgenza, le condizioni perché la critica e il superamento della natura violenta e predatoria del capitalismo e del patriarcato diventi egemonia culturale, speranza di una nuova storia dell’umanità». Di fronte a tutto ciò, recita il documento, «non individuiamo alcuna priorità fra le lotte, ma consideriamo decisivo il loro intreccio perché possano reciprocamente contaminarsi e rafforzarsi».

Da qui l’ammissione dei limiti: «Non siamo immuni alla crisi della politica, né estranei alle fratture che negli anni si sono prodotte a sinistra. Questo ci consegna un partito fragile sotto il profilo organizzativo, con un numero troppo basso di iscritti, militanti e amministratori locali, non sempre in grado di promuovere vertenze e di esserne adeguatamente parte».

Va detto che anche il documento di minoranza insiste sulla necessità innovare le categorie e le forme della politica. Contesta però al gruppo dirigente di aver fatto ricorso a «processi privi di condivisione strategica e di percorsi di confronto trasparenti e partecipati» che avrebbe esposto Si «ai personalismi e alla volatilità degli interlocutori».

«LE IMMAGINI dei giovani che trasformano il minuto di silenzio chiesto da Valditara in un minuto di rumore raccontano di quanto la soggettività femminile stia scavando nella crisi del patriarcato» scandisce Fratoianni. Sostiene che questa contraddizione emersa nei giorni scorsi dopo il tragico caso di femminicidio che ha coinvolto Giulia Cecchettin, è in grado di colpire al cuore e far crollare l’impalcatura del pensiero conservatore. L’altro tema è la campagna del governo contro i poveri, in nome del fatto che chi resta indietro in fondo se lo è meritato, e contro i lavoratori, coi sindacati sotto attacco.

E l’ambiente: quello che Fratoianni chiama «climafreghismo» è un mix di asservimento alle grandi lobby e ideologia reazionaria. Qui torna la questione della «verticalizzazione del potere e dello svuotamento del Parlamento» rappresentata dal premierato ma anche dall’esperienza quotidiana, dal ricorso continuo alla decretazione d’urgenza e alle questioni di fiducia. Fratoianni ricorda gli ultimi anni: la scelta dell’opposizione a Draghi con la forza minima di un solo deputato e poi la scelta, «in controtendenza», di fondare Alleanza Verdi Sinistra.

La prossima sfida elettorale è quella dell’Ue: «Di fronte alle destre nazionaliste e liberiste è fondamentale, quindi, lavorare affinché nel prossimo Parlamento europeo siano maggioranza le forze della sinistra di alternativa, quelle socialiste e democratiche e quelle verdi e ambientaliste». La proposta è quella anticipata nella partecipata assemblea romana dello scorso 5 novembre: «Ci rivolgiamo ancora una volta alle forze politiche, alle esperienze civiche, ai movimenti, alle singole personalità: Avs può essere un punto di riferimento nella costruzione di una larga convergenza».

PER IOLE BELARRA, segretaria di Podemos, «le forze progressiste e popolari hanno il compito di lavorare insieme, l’estrema destra può essere fermata solo con più diritti e democrazia». C’è anche Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, che sostiene che «la vittoria delle destre viene proprio dopo i governi di centrosinistra o appoggiati dal centrosinistra».

L’impressione è che la partita delle europee, con lo sbarramento del 4%, sia aperta tra le forze a sinistra del Pd. Nel 2024 si voterà anche in 5 regioni e circa 3800 comuni: l’invito di Si è quello di scongiurare le divisioni delle politiche per non lasciare il campo alle destre.

Il primo passaggio potrebbe essere una grande manifestazione unitaria delle opposizioni. Con tre parole d’ordine: per il salario minimo e contro autonomia differenziata e premierato. Il tema delle alleanze riprende oggi, con Elly Schlein e Giuseppe Conte

 

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CRISI UCRAINA. A 21 mesi dall’inizio dell’invasione russa, Mosca non avanza e Kiev non avanza. E il fronte pro-ucraino inizia a perdere pezzi. Frizioni tra Zelensky e il suo comandante in capo Zaluzhny. Che però non si tocca: lo difendono gli Usa. I soldati dei due schieramenti si scontrano in fazzoletti di terra; nel mezzo, i civili

Guerra di trincea, senza fine Soldati dell’unità d’assalto ucraina «Uragano» a nord di Kiev - Epa/Sergey Dolzhenko

Ventuno mesi fa il mondo è uscito dalla convinzione che per l’Europa fosse finita l’epoca delle guerre. I carri armati russi che oltrepassavano la frontiera con l’Ucraina e i primi missili volati nel cielo di Kiev possono essere considerati l’inizio di una nuova epoca per il Vecchio continente.

Vladimir Putin ha apertamente dichiarato che l’ordine scelto alla fine della Guerra fredda non era più valido e che i confini di uno stato non sono, contrariamente a quanto siamo abituati a pensare in Occidente, inviolabili. Ma anche il presidente russo si sarà dovuto rassegnare: non è semplice cambiarli a proprio vantaggio, soprattutto se la Nato si schiera con il tuo nemico. Oggi, dopo battaglie sanguinose e decine di migliaia di morti, secondo il comandante in capo delle forze armate ucraine, Valerii Zaluzhny, siamo allo «stallo».

«IL CONFLITTO si è trasformato in quello che in gergo militare si chiama “guerra di posizione”», ha dichiarato Zaluzhny in un’intervista alla rivista britannica The Economist qualche settimana fa. Il generale voleva che si sapesse la sua opinione e ha scelto il modo più eclatante per diffonderla. Zelensky si è infuriato, «nessuno crede nella vittoria dell’Ucraina come me, nessuno!» ha detto al Time che ha usato la frase per una copertina che raffigura il leader di spalle, il volto di traverso, come se qualcuno lo chiamasse o controllasse che non ci siano pericoli incombenti.

Siamo ben lontani dallo sguardo sognante con gli occhi blu come la bandiera ucraina che faceva da corona al titolo di «persona dell’anno», assegnato sempre dal Time a Zelensky. Il mondo ha cambiato opinione sulla guerra in corso in Europa dell’Est? Ufficialmente non si direbbe.

Lloyd Austin, il segretario alla Difesa statunitense, è volato a Kiev per ribadire che gli Usa ci sono, con il pensiero e con le opere (opposizione alle richieste russe e nuovi aiuti militari). La Germania ha promesso cento milioni di nuove forniture, nonostante il Washington Post il giorno prima avesse pubblicato un’inchiesta che incolpava alcuni militari ucraini dell’attentato al gasdotto Nord Stream.

Tuttavia, il protrarsi della guerra in Ucraina sta provocando non poche divisioni nelle opinioni pubbliche occidentali, non solo in Paesi come l’Ungheria. Nonostante capi di stato e ministri non perdano occasione per ribadire di essere coesi nell’alveo della Nato, il dissenso monta lentamente.

E dalle varie teorie complottiste che a inizio guerra occupavano i social network di certe aree politiche ascrivibili al cosiddetto «rosso-brunismo», la «stanchezza della guerra» si inizia a percepire anche in chi riesce a empatizzare con il popolo ucraino invaso, ma sconta, ad esempio, l’aumento dei prezzi delle bollette causato dallo stop al gas russo.

ZELENSKY LO SA, è evidente, il suo nervosismo degli ultimi tempi ne è la prova. Alcuni suoi consiglieri, meno lungimiranti del leader, si mostrano stupiti di fronte al fatto che l’Ucraina non è più il centro delle dichiarazioni dei politici statunitensi o europei e si scagliano con una veemenza (spesso fuori luogo) contro chiunque paventi la necessità di una soluzione diplomatica. Per questo le parole di Zaluzhny forse sono state recepite come una coltellata alla schiena dal presidente ucraino.

Ma il generale non è uno qualsiasi, non lo si può rimuovere con decreto presidenziale senza aspettarsi conseguenze. È amato e rispettato dai militari ucraini che lo percepiscono come uno di loro, un capo che ha a cuore la loro vita e la vittoria dell’Ucraina ma che a quest’ultima non sacrifica tutto.

La battaglia di Bakhmut è un esempio lampante di questa distinzione: interi reparti falcidiati dall’artiglieria russa quando era scontato che la ritirata fosse inevitabile. Zaluzhny disse basta e chiese la ritirata. Zelensky disse no e obbligò lo Stato maggiore a resistere, secondo le malelingue almeno fino al G7 che si sarebbe tenuto di lì a poco, in modo da sbandierare quella resistenza in cambio di nuovi aiuti militari. Zaluzhny è rispettato dai funzionari di Washington, che in più di un’occasione l’hanno dipinto come alleato «serio e affidabile» e preferiscono trattare con lui piuttosto che con i servizi segreti militari di Budanov, la scheggia impazzita che organizza missioni da film oltre le linee nemiche e (forse) attentati sul suolo russo.

IN TALE CONTESTO si inserisce la situazione sul campo. Il fronte est è bloccato su Avdiivka, dove i russi cercano di sfondare da settimane, in quella che si delinea come la nuova macelleria di questa guerra dopo Mariupol, Bakhmut e Kherson. Che ci riescano o meno possiamo finalmente – senza il rischio di essere considerati disfattisti o, peggio, filorussi – dichiarare che la controffensiva estiva è fallita.

«La guerra non è un film», come dice Zelensky, e ha ragione. Ma noi non siamo spettatori distratti che aspettavano il finale con le esplosioni e la vittoria epica.
Sappiamo, perché l’abbiamo visto e raccontato, che la guerra sul campo è soprattutto morte e distruzione. Quindi scrivere che sui fronti aperti non è cambiato nulla vuol dire presagire altri mesi di morte e distruzione. Fino a quando, viene spontaneo chiedersi.

«FINO ALLA VITTORIA», rispondono i vertici ucraini e i politici occidentali. «Fino alla smilitarizzazione di Kiev», obiettano i funzionari russi, nonostante le parole di Putin al G20 di questa settimana. Sullo sfondo il destino delle quattro regioni (Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia e Kherson) annesse dalla Russia.

Zelensky dichiara sicuro che senza il loro reintegro parlare di pace è impossibile, Putin dal canto suo non può permettersi di restituirle dopo averle elette a simbolo della difesa della «russofonia oppressa». Per ora i soldati dei due schieramenti continuano a confrontarsi in fazzoletti di terra avanzando e indietreggiando di pochi metri al giorno. Nel mezzo, senza riscaldamenti, senza cibo e acqua e senza voce, i civili. Come sempre

 

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MOBILITAZIONI . Otto ore nelle regioni del Nord. Landini e Bombardieri: avvertiti troppo tardi, rimandatela

I segretari di Cgil e Uil Landini e Bombardieri durante la conferenza stampa per "Adesso basta!"(flickr/cgil) Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri alla conferenza stampa di presentazione delle cinque giornate di sciopero - Foto LaPresse

Venerdì di scioperi in Italia e nel mondo. Terza delle cinque giornate di mobilitazione di Cgil e Uil che prevede otto ore di sciopero generale nel settore privato – trasporti esclusi – in tutte le regioni del Nord (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Piemonte, Trentino Alto Adige, Val d’Aosta e Veneto) con 40 manifestazioni. Al corteo di Brescia, alle 9,30 da piazza Garibaldi fino a piazza Vittoria, parteciperà il segretario generale Uil Pierpaolo Bombardieri. Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini sarà a Torino, dove si sfilerà dalle 9,30 da Porta Susa a Piazza Castello. A Bologna, concentramento alle 9 in piazza XX Settembre e comizio in piazza Santo Stefano del segretario generale Fiom Michele De Palma.

Nel pomeriggio il colpo di scena. In fretta e furia, palazzo Chigi convoca Cgil, Cisl e Uil (e Confindustria) «alle 15,30 sulla manovra», senza ordine del giorno.

Probabile che Meloni voglia annunciare di aver trovato il modo di non tagliare le pensioni ai medici. E di volerlo fare per oscurare il terzo sciopero di Cgil e Uil. Ma a sera nessuno confermava dal governo e dalla Cisl che aveva commentato subito positivamente la convocazione «porteremo le nostre richieste di modifica, rivendicazioni che rimangono alla base della manifestazione della Cisl sabato a Roma».

Per Maurizio Landini «servirebbe un po’ di rispetto e di galateo non verso sindacati ma verso i lavoratori che hanno scelto di aderire a scelte sindacali. Io il dono dell’ubiquità non ce l’ho e non posso fermare i treni né gli aerei perché rispetto le regole», riferendosi ai casi Lollobrigida e Salvini. Per Pierpaolo Bombardieri «si ripete il copione del 1° maggio, un ulteriore segno di mancanza di rispetto nei confronti di chi farà una giornata di sciopero. La Uil ha chiesto di spostare l’orario dell’incontro, ancor meglio se di sabato o di domenica»

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