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Salpati dalla Libia in 85, alla deriva per 7 giorni, raggiunti finalmente dalla Ocean Viking che ne salva 25. Gli altri tutti morti. È la stessa nave sotto processo a Brindisi e sequestrata da Piantedosi. Ora ha a bordo oltre 200 naufraghi e il governo la costringe a navigare fino ad Ancona

SOCCORRITORI DI FRODO. Ocean Viking era stata rimessa in mare dalla giudice il 20 febbraio. La causa decide il destino del decreto Piantedosi. Un caso giudiziario che può finire davanti alla Corte costituzionale

 Assistenza medica sulla Ocean Viking - Johanna de Tessières

Poche ore dopo che la Ocean Viking di Sos Mediterranée aveva ripreso per i capelli la vita di 25 persone abbandonate in mezzo al mare su un gommone sgonfio, ma altre 60 erano già morte, e proprio mentre la guardia costiera italiana le chiedeva di soccorrere 200 migranti, ieri in un’aula del tribunale di Brindisi la stessa Ong ha dovuto difendere il suo operato. L’accusa? Aver salvato altri naufraghi senza obbedire ai libici. Che sia necessaria un’autorizzazione a evitare una strage non è scritto da nessuna parte, che Tripoli non sia un porto sicuro e la sua cosiddetta «guardia costiera» sia collusa con i trafficanti, invece, lo stabiliscono rispettivamente una recente sentenza della Cassazione e diversi rapporti Onu.

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IL GOVERNO ITALIANO, però, continua a bloccare le navi dei soccorritori con i tecnicismi più assurdi e a tenerle fuori gioco con le strategie più crudeli. Mentre le 85 persone partite poco più di una settimana fa dalle coste di Zawyia vagavano alla deriva nel Mediterraneo, morivano di fame e di sete, si lasciavano inghiottire dall’acqua salata ben tre navi umanitarie – Sea-Eye 4, Sea-Watch 5 e Humanity 1 – erano costrette in porto da qualche cavillo burocratico. E quando la finestra di beltempo ha fatto riprendere le partenze, circa 300 gli arrivi autonomi ieri a Lampedusa, nella rotta centrale non è rimasto nessuno: il Viminale ha spedito la Ocean Viking a 1.400 chilometri di distanza, nel porto di Ancona, con i

superstiti ancora attaccati ai respiratori.

Prima o poi quello che da alcuni anni succede nel Mediterraneo sarà messo in ordine e le cose appariranno nelle giuste proporzioni. Fino a quel momento bisognerà assistere a udienze come quella di ieri a Brindisi dove l’avvocatura dello Stato per accusare la Ong ha detto testualmente: «La Ocean Viking ha ostacolato l’autorità libica che ha dovuto fermarsi per evitare perdite di vite dei migranti che si buttavano in mare». Un mondo alla rovescia a cui si può credere solo mettendo da parte i video che ritraggono le motovedette di Tripoli sparare verso i barconi o le navi umanitarie, i rapporti delle Nazioni unite sulle collusioni tra autorità libiche e trafficanti, la recente sentenza del massimo tribunale italiano che dice: consegnare i naufraghi ai libici è un crimine perché quel paese non è un porto sicuro.

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IL PROCESSO APERTO nella città pugliese si basa su un paradosso: se anche la Ocean Viking avesse sottratto i migranti alla motovedetta di Tripoli e disobbedito ai suoi ordini si sarebbe comunque comportata in modo legittimo. «Se così non fosse – ha argomentato l’avvocata Francesca Cancellaro che insieme al collega Dario Belluccio difende la Ong – il sistema giurisdizionale sarebbe strabico: sanzioni penali per chi consegna le persone e sanzioni amministrative per chi non lo fa».

Quella brindisina è la prima occasione che ha la magistratura per analizzare un fermo disposto in base al decreto Piantedosi di gennaio 2023. Dopo ventuno detenzioni in vari porti dell’Adriatico e del Tirreno e venti ricorsi delle organizzazioni non governative finalmente un giudice, anzi una giudice, ha fissato l’udienza. E prima ancora ha sospeso il fermo scrivendo un’ordinanza che inizia a rimettere le cose nella giusta prospettiva: a proposito delle attività delle navi umanitarie dice che «implicano il perseguimento di obiettivi di indubbio valore ex se, in ossequio al sistema di valori costituzionali e del diritto internazionale consuetudinario cui l’Italia aderisce».

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IERI LA GIUDICE Roberta Marra ha annunciato alle parti l’intenzione di chiedere loro delle memorie su un aspetto procedurale del decreto, ovvero l’automatismo della sanzione accessoria che in questo caso è il fermo amministrativo. Si tratta di una questione tecnica, radicata in una giurisprudenza consolidata secondo la quale bisogna garantire alla pubblica amministrazione la possibilità di proporzionare la punizione ai fatti. La norma anti-Ong non lo fa, per questo la giudice potrebbe sollevare quell’aspetto davanti alla Corte costituzionale.

Nel ricorso le difese chiedono che alla Consulta finiscano altri due punti del decreto. Primo: davvero Roma ha giurisdizione su una nave straniera in acque internazionali? La convenzione di Amburgo dice il contrario, sebbene l’Italia provi ad attribuirsi questo potere subordinandogli la concessione del porto sicuro di sbarco. E dunque il secondo punto: il governo Meloni sta provando a reinterpretare surrettiziamente le convenzioni internazionali attraverso la normativa interna? «Questo non è possibile. Le regole di interpretazione dei trattati, e la Costituzione, dicono il contrario: sono le norme interne che devono adeguarsi a quelle internazionali», afferma Belluccio.

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NEI PROSSIMI GIORNI la giudice dovrà sciogliere alcune questioni preliminari, sulla competenza del tribunale e la legittimità del ricorso contro il solo fermo, e decidere se confermare o meno l’ordinanza di sospensione della detenzione, sebbene questa non sia più effettiva. Poi nella prossima udienza si capirà meglio quello che accadrà sulle questioni di legittimità costituzionale. Una cosa è certa: il destino del decreto Piantedosi passa da Brindisi