LEGGE ELETTORALE. Ammesso il ricorso dell’ex radicale Staderini. I dubbi sulla mancanza del voto disgiunto. Nel mirino anche le modifiche alla vigilia del voto. Il sottosegretario Mantovano prepara la difesa del governo: dimostreremo che è infondato
La corte europea dei diritti dell'uomo - Ansa
La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha ammesso un ricorso presentato a inizio 2023 dall’ex segretario radicale Mario Staderini e da altri cittadini contro la legge elettorale Rosatellum. Ora il governo avrà tempo fino a fine luglio per presentare una memoria difensiva.
Se il procedimento dovesse arrivare fino a sentenza, la Cedu potrebbe condannare l’Italia a modificare la legge elettorale in alcuni punti, a partire dall’attuale impossibilità di differenziare il voto tra il candidato nel collegio uninominale e le liste proporzionali. Il Rosatellum infatti prevede una sola scheda: il voto alla sola lista si trasferisce direttamente al candidato del collegio, e quello al solo candidato viene ripartito in modo proporzionale tra le liste collegate.
TRA I PUNTI CHE la Cedu ha preso in esame anche l’«instabilità» delle norme elettorali, spesso modificate alla vigilia delle elezioni. «Negli ultimi 20 anni – sottolinea Staderini – ci hanno costretto ad eleggere parlamenti con leggi incostituzionali (Porcellum, ndr) o introdotte e modificate a ridosso del voto, ingenerando l’idea che i sistemi elettorali siano uno strumento che chi esercita il potere manovra a proprio favore e che il voto dell’elettore serva a poco». Di qui la richiesta alla Corte di verificare la «compatibilità» del Rosatellum «con il diritto a libere elezioni, garantito dall’articolo 3 del protocollo 1 della Convenzione europea dei diritti umani».
Nel ricorso si afferma che prima delle elezioni del 2022 il sistema elettorale è stato modificato tre volte: con la legge costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari, con la legge del 2020 sulla redistribuzione elettorale e con quella del 2022 che ha esentato alcuni partiti dall’obbligo di raccolta delle firme per la presentazione delle liste. La decisione della Cedu risale a febbraio ma la notizia si è diffusa ieri. Palazzo Chigi sta preparando la memoria difensiva: «La Cedu ha posto delle questioni – dice il sottosegretario Alfredo Mantovano – e si sta lavorando. Ovviamente riteniamo il ricorso non fondato». Dal governo fanno sapere che il ricorso « non è stato accolto, ma soltanto dichiarato ammissibile».
LA CEDU HA FORMULATO tre domande al governo. La prima si concentra sulle modifiche apportate nel 2019, 2020 e 2022: la Corte vuole sapere se «i cambiamenti al sistema elettorale hanno minato il rispetto e la fiducia dei ricorrenti nell’esistenza di garanzie di libere elezioni». In seconda battuta chiede se il Rosatellum, impedendo il voto disgiunto, «ha violato il diritto dei ricorrenti di esprimersi liberamente sulla scelta del corpo legislativo». I giudici europei chiedono lumi anche sulla possibilità dei cittadini di introdurre un ricorso «effettivo» davanti alle istanze nazionali, come prevede l’articolo 13 della convenzione europea dei diritti umani.
Quest’ultima fattispecie viene chiarita dal segretario di +Europa Riccardo Magi: «Dopo le elezioni del 2022 abbiamo presentato dei ricorsi su questi temi, in particolare il voto disgiunto, alla giunta per le elezioni del Senato, che ci ha risposto di non avere competenza. Ma è chiaro che non può essere un organo politico a decidere sulla legittimità della legge elettorale: come riconosce la Cedu manca un organo terzo a cui i cittadini possano rivolgersi».
SECONDO ANTONIO BULTRINI, professore di diritto internazionale all’Università di Firenze che rappresenterà i ricorrenti nel processo, «il ricorso è stato comunicato al governo ad un anno dalla sua introduzione, il che sembra indicare un esame prioritario da parte della Corte in base alla sua “Priority Policy”». Il verde Bonelli sostiene che le obiezioni della Cedu mettano «in seria discussione la riforma sul premierato». Per due ragioni: il rischio di nuovi «cambiamenti sostanziali» della legge elettorale» a ridosso delle politiche 2027; e il collegamento previsto dalla riforma tra il voto al premier e quello per i parlamentari. Dopo la memoria del governo, Staderini e gli altri potranno presentare una contromemoria. Poi ci sarà spazio per eventuali udienze
Commenta (0 Commenti)Le elezioni europee del 6-9 giugno potrebbero stravolgere i piani energetici e climatici impostati dalla maggioranza uscente, con diversi dossier ancora sul tavolo che rischiano di saltare se le previsioni di un’ondata di destra dovessero essere confermate.
In un recente sondaggio di Eurobarometro, condotto per conto della Commissione europea, i cittadini hanno indicato l’azione contro il cambiamento climatico come una delle quattro principali priorità che vogliono che il Parlamento europeo affronti nell’immediato futuro.
L’attuale legislatura, pur muovendosi in un frangente di particolare instabilità dettata dalle crisi geopolitiche (con conseguenze anche sulle politiche energetiche e climatiche) ha fatto una vera e propria corsa contro il tempo per chiudere il maggior numero possibile di dossier relativi al Green Deal prima che il Parlamento europeo venga rinnovato.
Dopo la COP28 di Dubai sono state concluse le discussioni su diversi temi cruciali: prodotti da costruzione, due diligence aziendale, direttiva sulle prestazioni degli edifici (“Case Green”), riforma del mercato elettrico, norme Euro 7 sui gas di scarico per le automobili e sui rifiuti da imballaggio e sulle emissioni di camion e autobus.
Restano in sospeso altri dossier, come la revisione dell’etichetta energetica degli impianti di riscaldamento nell’ambito del cosiddetto Ecodesign, che deve essere effettuata entro il 2025/2026.
Per capire come i partiti italiani si posizionano verso questi e altri provvedimenti, proponiamo un’analisi dei programmi (linkati tutti per intero in basso), in vista della chiamata alle urne che in Italia sarà l’8 e 9 giugno.
Cominciamo dalla maggioranza di governo.
Il pensiero della premier Giorgia Meloni, che firma in calce il programma di Fratelli d’Italia, è particolarmente rilevante perché rappresenterà la posizione italiana ai principali tavoli istituzionali, oltre che quella del partito dei Conservatori e Riformisti europei (Ecr), del quale Meloni è presidente.
Secondo FdI “l’ecologia è uno dei pilastri del pensiero conservatore”, ma il raggiungimento degli obiettivi climatici “deve essere economicamente e socialmente sostenibile, senza approcci ideologici, obiettivi irraggiungibili e oneri sproporzionati per cittadini e imprese”.
Il Green Deal varato dalla legislatura attuale sarebbe pieno di “eco-follie” e ci starebbe portando verso una “decrescita infelice”. Tra le proposte per modificarlo primeggia l’applicazione dei principi di sussidiarietà affinché le strategie per il raggiungimento degli obiettivi climatici siano decise dai singoli Stati membri.
Tra i punti specifici toccati dal partito di maggioranza c’è la richiesta di escludere dal computo di deficit e debito le spese per investimento collegate alla transizione verde e digitale. La direttiva Case Green andrebbe “modificata radicalmente per tutelare i proprietari di immobili ed efficientare il patrimonio edilizio in modo graduale e sostenibile, prevedendo adeguati incentivi”.
Sulla mobilità una contraddizione: si chiede contemporaneamente di “sostenere la decarbonizzazione delle diverse modalità di trasporto e investire sulla mobilità urbana sostenibile” ma anche di “cancellare il blocco alla produzione di auto a motore endotermico dal 2035”. In che modo? Investendo su tutti i carburanti alternativi e non soltanto sull’elettrico.
Nello spingere per diversificare le fonti di approvvigionamento energetico e differenziare le fonti di energia, “con particolare attenzione alle rinnovabili e all’idrogeno”, il partito menziona anche il nucleare da fusione.
Meno puntuale e più “per concetti” il programma della Lega, che mette nel mirino il Green Deal europeo, visto come una sorta di autogol di fronte a Cina e Stati Uniti. Questi ultimi, infatti, si starebbero avvantaggiando dei vari “obblighi e penalizzazioni” che l’Ue si sarebbe auto-inflitta, motivo per cui – secondo il Carroccio – il primo provvedimento della prossima legislatura dovrebbe essere “un provvedimento omnibus che riveda da cima a fondo il Green Deal con un approccio intersettoriale”.
La transizione verde per la Lega ha comportato un “repentino ed eccessivo innalzamento del fabbisogno di materie prime critiche”, con conseguente rialzo dei costi. Al quale la risposta dovrebbe essere un impegno a favorire l’estrazione, la lavorazione e il riciclaggio all’interno dei confini Ue. Ambito in cui Bruxelles si è già mossa, ad esempio con il Critical Raw Material Act.
Anche la Lega chiede di investire sul nucleare, nella ricerca sui piccoli reattori modulari (della quale efficacia ci siamo già occupati) e sull’energia da fusione “per un mix energetico diversificato”. Tra le rinnovabili si chiede di concentrare maggiori risorse su quelle programmabili, come l’idroelettrico, il geotermico o le biomasse.
Se il Green Deal europeo va modificato, la direttiva Case Green per il Carroccio va invece totalmente cancellata. “Non possiamo sacrificare il nostro patrimonio immobiliare – si legge – sull’altare dell’efficienza energetica”.
Infine, sulla mobilità si chiede l’abolizione dello stop alle auto a motore endotermico entro il 2035 inserendo “piena legittimazione” ai biocarburanti. Una soluzione tutt’altro che a emissioni zero, perché coltivare richiede arature, fertilizzanti, pesticidi e lavorazioni industriali, spesso alimentate con energia fossile, ne riducono il beneficio.
Gli Azzurri sono gli unici, nella galassia di destra, che menzionano esplicitamente il gas nei piani energetici. Oltre ad uniformarsi a Lega e FdI per quanto riguarda nucleare, biofuel e direttiva Case Green, Forza Italia propone di “sfruttare la centralità nel Mediterraneo e le infrastrutture strategiche (come il TAP e i rigassificatori) per svolgere un ruolo chiave nel facilitare il trasporto, lo stoccaggio, l‘interscambio e la distribuzione del gas naturale in tutta Europa”.
Questo per raggiungere un’indipendenza energetica da fonti fossili provenienti da Paesi terzi, così da rendere l‘Europa meno vulnerabile. Ma alla fine il metano da dove arriverebbe? Contemporaneamente però viene menzionata in un passaggio l’importanza di “promuovere le energie rinnovabili, l‘efficienza energetica e sfruttare i fondi del REPowerEU”.
Tra gli aggettivi che il Pd utilizza per descrivere “l’Europa che vogliamo” c’è “sostenibile”, che dà il titolo al capitolo del programma legato a politiche energetiche e ambientali. I dem chiedono che i nuovi investimenti verdi coordinati a livello comunitario prevedano restrizioni o agevolazioni al credito per le industrie in base all’impegno in processi di trasformazione green, in piena applicazione del principio “chi inquina, paga”.
Andrebbe inoltre potenziato il Fondo per la Transizione Giusta e il Fondo Sociale Europeo, per finanziare processi di formazione in lavori green e aumentare l’occupazione di qualità. Il Pd propone poi di creare le giuste sinergie con il Fondo di Investimento, il piano InvestEU e RepowerEU per catalizzare investimenti privati nei processi industriali chiave per l’economia circolare e la decarbonizzazione come gli impianti di recupero di materia di scarto e re-immissione sul mercato di materie prime secondarie, compresa la componentistica per i veicoli elettrici, la filiera per la produzione e l’utilizzo di idrogeno verde.
“Non possiamo rinunciare all’ambizione e al dovere di affrontare il cambiamento climatico – si legge – anche in virtù della nostra responsabilità storica in tal senso, per preservare la salute dell’ecosistema e non far pagare il prezzo di un modello di sviluppo insostenibile alle generazioni future”. Dai dem anche la proposta di rafforzare la direttiva europea sul monitoraggio del consumo di suolo e adottare una legge che contrasti il consumo di suolo in Italia.
In linea con la propria vocazione ecologica fondativa, il Movimento 5 Stelle è il partito che entra più nel dettaglio sui temi energetici e climatici, portando numerose proposte e analizzando più approfonditamente gli scenari attuali e futuri.
Per centrare gli obiettivi climatici il partito propone un maggiore e rinnovato impegno nella costruzione dell’Unione dell’Energia, con particolare riferimento al ruolo della ACER, l’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia, che dovrà aiutare maggiormente a garantire il corretto funzionamento del mercato unico europeo del gas e dell’energia elettrica, con l’elaborazione delle norme sulla rete europea in grado di interconnettere efficacemente gli Stati membri e regolare le condizioni di accesso e di sicurezza operativa delle infrastrutture transfrontaliere.
Ancora, il M5s chiede la rimozione di nucleare e gas nel processo di revisione della tassonomia verde europea, e il contrasto alla Carbon capture and Storage, che “rischia di distrarre gli investimenti pubblici dalle infrastrutture green già disponibili, comprovate e mature”.
Si chiede inoltre l’estensione del mandato della Banca Europea degli Investimenti per la costituzione di una vera e propria Banca Europea per lo Sviluppo e la Transizione ecologica che sostenga lo sviluppo di filiere strategiche per la transizione, come quelle delle batterie di accumulo elettrico, delle pompe di calore (per le quali si richiede anche l’attuazione del piano rimandato dalla Commissione), dei pannelli solari, del riciclo di materiali quali i Raee per la produzione di pannelli solari e pale eoliche, dell’idrogeno verde e dei semiconduttori.
Un altro spunto riguarda la creazione di una piattaforma europea di acquisto gas a medio-lungo termine (dai due ai cinque anni), con una indicizzazione non trimestrale ma annuale dei prezzi e con una rivisitazione sostanziale del meccanismo di formulazione dei prezzi sul mercato elettrico.
Il partito che porta la questione ambientale nel proprio nome è molto diretto nelle proposte, alle quali dedica ampio spazio e un elenco di iniziative ben scandito. Le principali riguardano l’istituzione di un Fondo europeo per gli investimenti ambientali e sociali di almeno 2.000 miliardi di euro (per finanziare investimenti green, trasporto pubblico ed efficientamento energetico delle case) e la costruzione di un pacchetto legislativo “Fit for 1.5°C” che punti a ridurre le emissioni climalteranti di almeno il 65% entro il 2030 per poter raggiungere la neutralità climatica già entro il 2040.
Ancora, Avs spinge l’esclusione di nucleare e Ccs dalle tecnologie strategiche e dai progetti prioritari del Regolamento Net Zero Industry Act. Sulle fossili si chiede un piano dettagliato per cessare l’uso di carbone entro il 2030 e di petrolio e gas tra il 2035 e il 2040 e la negoziazione di un trattato internazionale sulla non proliferazione delle fonti sporche e contro il lobbismo delle compagnie petrolifere, del carbone e del gas nelle istituzioni pubbliche. Sul riciclo la proposta è di approvare una Direttiva sulla gestione sostenibile delle risorse allo scopo di ridurre del 66% la quantità di materie prime consumate annualmente rispetto al 2022.
La lotta al cambiamento climatico, per la lista Stati Uniti d’Europa (che incorpora Italia Viva, +Europa, Psi e radicali), deve “ispirarsi a un principio di ragionevolezza e gradualità, tutelando allo stesso tempo l’industria e i posti di lavoro”.
Nel programma non ci sono indicazioni specifiche, quanto più inviti generici alle istituzioni Ue affinché la produzione legislativa tenga conto delle differenze morfologiche, ambientali, territoriali dei Paesi che compongono l’Ue. “Industria e politiche dell’ambiente devono procedere di pari passo – si legge – perché non è immaginabile che in un mondo che va conoscendo accelerati processi di sviluppo industriale da parte di Paesi come India e Cina, l’Ue rinunci alla sua vocazione di innovazione strategica”.
Anzi, proprio un questa ottica l’Ue “può assumere un importante ruolo di attore sovra-nazionale capace di contemperare sviluppo e rispetto dell’ambiente, proponendo modelli che rappresentino un esempio anche per Paesi extra-europei”. La sintesi è: “l’Europa ha bisogno di produrre di più, e in modo più efficiente”.
Come fatto dal Movimento 5 Stelle, anche Azione analizza punto per punto le principali questioni energetiche e climatiche, proponendo per ciascuna di loro le criticità e le proprie proposte di miglioramento. Di fondo, la critica mossa è che le misure previste dal pacchetto Fit for 55 siano “caratterizzate da un forte impianto ideologico visto che ignorano il concetto di neutralità tecnologica, ovvero la libertà di scegliere la tecnologia più adeguata al raggiungimento all’obiettivo prefissato”.
Vien da sé quindi che su due argomenti come Ccs e nucleare Azione (schierata su posozioni pro-atomo) sia più “permissiva”. Sulla prima l’Ue è descritta anzi come “drammaticamente in ritardo”. Il programma propone di riformare la tabella di marcia di implementazione del Green Deal e di rimuovere gli obblighi di installazione di capacità rinnovabile, rinviando allo stesso tempo gli obiettivi del 2030 almeno al 2035 e rifiutando ulteriori innalzamenti dei target di decarbonizzazione. Similmente, sulla Direttiva Case Green, si chiede la cancellazione di obiettivi minimi di prestazioni.
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Cerimonia del fango a Faenza per ricordare l’alluvione. Nel tardo pomeriggio, sette cortei sono partiti dalle zone della città più colpite dall’alluvione e hanno raggiunto Piazza del Popolo, dove è stato celebrato un rito collettivo con l’intento di rinnovare il legame di comunità andatosi a creare nei giorni dell’emergenza: associazioni, scuole, enti, gruppi di residenti che hanno subito danni dall’alluvione hanno voluto ricordare con un gesto, un’azione teatrale, una performance quello che è successo fra il 2 e il 3 e fra il 16 e il 17 maggio 2023.
La cerimonia del fango è un progetto della compagnia teatrale Menoventi.
Torino, Dublino, California, Rhode Island… Le mobilitazioni globali nelle università rompono il muro di silenzio sulla Palestina. Oltre agli sgomberi e ai manganelli, molti atenei accolgono le richieste degli studenti. Altri cacciano i vertici che disinvestono dalle aziende belliche
RISVEGLI. Mike Lee della Sonoma University aveva raggiunto un accordo con gli studenti. La Casa bianca si prepara a inviare nuove armi. E la polizia sgombera la tendopoli della Uc Irvine, minacce di sospensioni dalla amministrazione
Sgombero del presidio alla University of California - Epa/Caroline Brehman
Lo sgombero della tendopoli studentesca di UC Irvine è iniziato all’imbrunire. Sul campus della University of California sono discesi centinaia di agenti in assetto antisommossa. E dopo l’ordine di disperdere «l’assembramento non autorizzato», le falangi hanno marciato su studenti e professori facendo decine di arresti. Nell’ateneo, a 50 km a sud di Los Angeles, l’accampamento per il disinvestimento durava da circa tre settimane. L’escalation è avvenuta dopo che l’amministrazione ha iniziato a notificare sospensioni agli studenti. Il provvedimento comporta il divieto di frequentare corsi e l’impossibilità di laurearsi, spesso l’immediato sfratto dai dormitori. Solitamente si tratta di una misura riservata a casi di reati gravi o violenti ma molti amministratori vi stanno invece ricorrendo per sopprimere il dissenso pacifico.
LA MILITARIZZAZIONE, già impiegata in precedenza a Ucla e Columbia, stride con la politica di altri atenei che con gli studenti hanno invece scelto di negoziare un accordo. Alla Northwestern di Chicago, alla Rutgers ed a UC Riverside, ad esempio, il movimento ha accettato di smantellare le tende in cambio di assicurazioni sulla pubblicazione e la revisione di tutti gli investimenti. Lo stesso è accaduto ad Harvard dove gli studenti hanno votato per accettare provvisoriamente l’offerta del rettore Alan Garber di «prendere in esame» la politica di investimento. A Brown University, a Rhode Island, gli studenti hanno ottenuto di mettere il disinvestimento all’ordine del giorno di una votazione degli amministratori in autunno. Una portavoce del coordinamento studentesco ha detto che il movimento impiegherà i prossimi messi per esercitare «pressione strategica» su consiglieri e finanziatori privati.
NESSUNO si fa comunque troppe illusioni, soprattutto alla luce di notizie come la notifica ufficiale della Casa bianca al Congresso, da parte del governo, sull’imminente fornitura ad Israele di munizioni e veicoli tattici per un valore di un miliardi di dollari. Il trasferimento avverrà poco dopo la «pausa» applicata alle bombe di «alto tonnellaggio». Un rapporto pubblicato la settimana scorsa da Amnesty International afferma, senza mezzi termini, che le armi fornite ad Israele a Gaza sono utilizzate nella commissione di crimini di guerra.
Emblematico poi il caso della Sonoma University. Mike Lee, il rettore di quell’ateneo del circuito California State a nord di San Francisco è stato sospeso dopo aver concordato con gli studenti la cessazione delle collaborazioni accademiche con università israeliane. Lee aveva anche accettato di coordinare future decisioni con una delegazione di studenti, ma, nel censurarlo, il consiglio accademico ha affermato che ha agito «senza autorizzazione necessaria».
IL CASO ha sottolineato quanto le richieste di disinvestimento siano destinate a scontrarsi con l’impianto giuridico promosso dalle lobby pro-Israele, quel complesso di leggi (dette anti-Bds) che vietano sia a livello federale che locale disinvestimenti, boicottaggi e sanzioni mirate allo stato ebraico.
È la ragione per cui gli studenti mantengono alta la pressione anche in casi dove c’è stato un accordo provvisorio. Con dieci campus nello stato, la University of California è un’istituzione statale, ma ha il suo regolare endowment di investimenti che ammonta a 25 miliardi di dollari (oltre 150 miliardi se si contano i fondi pensione). Molti dei soldi sono investiti in grandi fondi come quelli della Black Rock in cui figurano aziende produttrici di armi i cui sistemi missilistici e velivoli prendono direttamente parte alle operazioni a Gaza.
NOTIZIE che influiscono sulle strategie studentesche in campus come quello storico di UC Berkeley dove mercoledì il 76esimo anniversario della Nakba palestinese è coinciso con la commemorazione di una tragica ricorrenza del movimento studentesco che su quell’ateneo è nato: il sanguinoso intervento della guardia nazionale spedita dal governa tore Ronald Reagan a sgomberare il Free Speech Park occupato dagli studenti nel maggio del 1969.
Anche qui gli studenti hanno strappato alla rettrice Carol Christ la promessa di un più approfondito negoziato sugli investimenti dell’ateneo in società belliche. In cambio il coordinamento ha smantellato le tende accampate un mese fa. Il giorno dopo però hanno preso possesso ed occupato di un dormitorio in disuso. Molti dei manifestanti hanno inoltre raggiunto un altro campus UC, a Merced, dove è in corso l’annuale conferenza dei consiglieri.
«Mobilitarsi paga: svelate le complicità occidentali»
Su questo sfondo, come in una realtà parallela, proseguono gli sforzi di molta politica ufficiale per inquadrare le proteste come espressioni di antisemitismo e ricondurre quindi la narrazione entro la logica di scontro che rende la guerra di Netanyahu «necessaria» autodifesa. Una narrazione pericolosamente inficiata dalla solidarietà di ampi settori ebraici alle proteste. In questo quadro l’altro ieri è tornata a riunirsi la commissione parlamentare sull’antisemitismo che opera sostanzialmente come un organo di propaganda e repressione. Ospiti dei senatori anche questa volta unicamente studenti filo-israeliani che hanno denunciato le proteste come antisemite.
È una tesi sempre più screditata, alla luce anche dei recenti episodi di provocazione e violenza unilaterale da parte di squadre sioniste, come quelle che il primo maggio hanno attaccato il presidio pacifista a Ucla.
SUCCESSIVAMENTE sgomberati dalla polizia gli studenti di Ucla hanno sostituito l’accampamento permanente con le attività “mobili” della People’s University for the Liberation of Palestine, che su campus offre simposi, dibattiti, corsi autogestiti e proiezioni (da film Palestinesi alla Battaglia di Algeri). Oltre alla solidarietà di molti professori, sempre ieri, gli studenti hanno incassato quella del sindacato Uaw di docenti ed assistenti che hanno autorizzato un eventuale sciopero che potrebbe bloccare, se indetto, 48.000 lavoratori universitari
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EUROPEE. Dai movimenti la mobilitazione per eleggere (e liberare) la militante antifascista
Il centro sociale Askatasuna di Torino - LaPresse
La candidatura di Ilaria Salis sta smuovendo al voto anche settori sociali e soggetti politici che non hanno grande familiarità con le urne o per i quali la critica della democrazia rappresentativa è elemento caratterizzante. Il motivo è semplice, per certi versi lineare: il voto per Salis ha un effetto immediato, liberare la militante antifascista. E rappresenta una sfida alle estreme destre di Orban e Meloni oltre che l’irruzione di una attivista di base nel parlamento europeo.
Alcuni appelli al voto sono già stati espressi, altri sono in fase di elaborazione e probabilmente arriveranno presto. Tra i primi ad esporsi, in questo senso, sono stati i centri sociali e i collettivi che si riconoscono nel portale InfoAut. Tra di essi ci sono i torinesi di Askatasuna, che da qualche settimana si sono impegnati in un percorso difficile e delicato, anch’esso insolito rispetto alla loro storia, per approdare al riconoscimento da parte dell’amministrazione comunale dello spazio che occupano da ormai trent’anni. «Certo, nel nostro mondo ideale sarebbe bello avere in Italia, Ungheria e tutta Europa un movimento di massa in grado di pretendere la sua liberazione sul piano della lotta, ma così non è qui ed oggi – si legge nel documento uscito su InfoAut – Dobbiamo capire come fare forza della nostra debolezza. Che qualcuno scelga di candidare Ilaria per genuina solidarietà o/e opportunità elettorale poco ci importa… Se la campagna per la sua liberazione passa attraverso le urne andremo a cercare dove diavolo è finita la tessera elettorale e faremo la nostra parte».
Concetto ribadito dal network Milano in Movimento: «Semplicemente di fronte a una compagna che sta nel pozzo nero di un carcere – scrivono – se possiamo buttare una fune per tirarla fuori ci iscriviamo al partito di quelli che una volta che la fune è buttata si mettono a tirare per farle scalare le pareti del pozzo».
Prima di loro, aveva preso posizione Potere al popolo, una delle forze che assieme, tra gli altri, a Luigi De Magistris e a Rifondazione comunista aveva fatto nascere Unione popolare. Pap aveva fatto sapere di aver scelto «di dare indicazione a tutte e tutti gli elettori di votare e far votare Ilaria Salis nelle circoscrizioni in cui sarà candidata». «Prendiamo questa scelta senza nessun confronto con la dirigenza di Alleanza Verdi Sinistra, di cui condividiamo poco o nulla – spiegano da Pap – La prendiamo senza allearci, senza contropartite, senza secondi fini».
Da Roma, hanno espresso la loro indicazione di voto tre spazi sociali: Esc, Communia e il Casale Garibaldi. «Il voto a Ilaria Salis ha un doppio valore, simbolico e concreto, che ci spinge a superare ritualità e dubbi legati allo strumento del voto e, per la prima volta, a dare un’indicazione collettiva netta – spiegano nel loro documento – A chi crede che tirare fuori dal carcere Ilaria Salis sia più importante di slogan e tic ideologici diciamo di andare alle urne l’8 e il 9 giugno. Per praticare l’obiettivo bisogna votare Avs in tutta Italia, affinché superi lo sbarramento del 4%, e scrivere Ilaria Salis accanto al simbolo del partito nella circoscrizione nord-ovest e delle isole». E ancora: «La sfida è complicata e non basta votare in silenzio. È necessario farsi sentire, essere della partita e prendere l’iniziativa»
Commenta (0 Commenti)«Questa vicenda dimostra che la mobilitazione può cambiare le cose anche quando sembra impossibile». È entusiasta il segretario di Sinistra italiana e deputato di Alleanza versi sinistra Nicola Fratoianni pochi minuti dopo aver ricevuto una notizia inattesa: Ilaria Salis, la maestra detenuta da febbraio 2023 a Budapest e ora candidata con i rosso-versi, andrà ai domiciliari.
È già una vittoria?
Intanto è una grande felicità, per me doppia perché martedì l’ho visitata in carcere e nessuno si aspettava questo esito. Alla faccia di chi sosteneva che serviva il silenzio e non bisognava politicizzare il caso. Con il silenzio Salis è rimasta in galera in condizioni terribili. Alzare la voce è servito, ma è solo una prima vittoria: ora bisogna eleggerla e riportarla in Italia.
Veramente la richiesta dei domiciliari a Budapest è il punto su cui ha sempre battuto il ministro degli Esteri Antonio Tajani.
I domiciliari sono stati chiesti dagli avvocati. Il 28 marzo, però, erano stati respinti. A quell’udienza impressionante ho partecipato con molti altri: si è conclusa in un baleno perché il giudice non ha neanche fatto finta di ritirarsi per deliberare. Ha negato inspiegabilmente una richiesta che aveva tutti i crismi. Diciamoci la verità: le vie legali avevano sbattuto contro il muro ungherese, fatto anche degli attacchi governativi.
Quindi i giudici hanno cambiato idea per ragioni politiche?
Questo non sono in grado di dirlo. Di sicuro è una decisione che va incontro al buon senso, anche perché Salis aveva tutte le condizioni richieste dalla normativa ungherese per i domiciliari: abitazione con contratto d’affitto, impegno a pagare la cauzione, disponibilità a indossare il braccialetto elettronico. Nonostante ciò, l’altra volta è stata trattata come una terrorista.
Salis ai domiciliari invece che in carcere e in catene rischia di indebolire la candidatura.
No, la candidatura si rafforza. Questa vicenda dimostra che bisognava battersi, che la mobilitazione può cambiare le cose anche quando sembra impossibile. Non solo bisogna evitare di fermarsi ma è necessario intensificare gli sforzi perché Salis resta comunque in Ungheria privata della libertà personale, sebbene fuori dalle mura del carcere. Noi vogliamo riportarla a casa. Poi è vero che la candidatura riguarda in primo luogo lei, la sua vita e il suo corpo, ma ha anche una rilevanza politica generale. Ha a che fare con la costituzione reale dell’Europa, che non deve essere quella degli Orbán.
Cosa le ha detto Salis della possibile elezione: è solo strumentale alla liberazione e al rientro in Italia o lei resterebbe nell’europarlamento per portare avanti delle battaglie?
Ho incontrato una persona che ha vissuto tanto tempo in condizioni durissime, ma resta molto determinata e curiosa. Ho cercato di raccontarle questa campagna elettorale unica, con suo padre che si fa in quattro, con le adesioni trasversali. Abbiamo parlato delle sue priorità. Vuole occuparsi di chi è più fragile, di rischia continuamente di vedere i propri diritti violati, dei problemi di un’Europa che deve fare i conti con crisi climatica, ingiustizia sociale e guerra. Abbiamo registrato grande sintonia.
A proposito di adesioni trasversali, sono arrivate dichiarazioni di voto sorprendenti: da Askatasuna a Elio Vito. Ve lo aspettavate?
Non ci si può mai aspettare quello che non c’è fin quando non arriva. Però che questa candidatura potesse avere la forza di muovere tanto, anche con argomenti diversi e valutazioni diverse lo credevamo. Già Potere al Popolo aveva mostrato sostegno, pur ribadendo il suo giudizio su Avs. Io penso che quando la politica sa rendersi utile, quando il voto torna a essere percepito come uno strumento di cambiamento concreto, facciamo il nostro mestiere. Questo vale per le cose più piccole e puntuali o per quelle più grandi.
Facciamo un gioco: Avs supera il 4%, scatta un seggio al nord-ovest o sulle isole, ma Salis non arriva prima. Che succede? Gli altri candidati si sono impegnati pubblicamente a dimettersi in questa circostanza?
Credo sia un impegno che non c’è bisogno di dichiarare perché è inscritto in questa vicenda. Nessuno potrebbe evitare di onorarlo. Comunque posso dire che questo rischio non c’è