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Per Netanyahu non esistono linee rosse, parte l’offensiva su Rafah. I carri armati israeliani occupano il valico e bloccano gli aiuti: Gaza isolata. L’Onu implora gli alleati di fermare Tel Aviv. Il premier diviso tra gli appelli del mondo e le pressioni dell’ultradestra

Attacco da est e da sud, raid ovunque. Gli aiuti non entrano più: «L’Onu se ne vada». Inascoltati gli appelli globali, Biden si arrampica sugli specchi: «Sarà un’operazione limitata»

I carri armati israeliani entrano al valico di Rafah foto Ansa I carri armati israeliani entrano al valico di Rafah - Ansa

«Ho 69 anni e mai nella mia vita ho visto un bombardamento così, e ne ho viste di guerre. Ma nessuna come questa. Vorrei davvero andarmene, ma non posso». È la testimonianza ad al Jazeera di un uomo dopo una delle notti peggiori che Rafah ricordi.

NON RESTA niente delle esplosioni di gioia di qualche ora prima, di lunedì pomeriggio, quando il sì di Hamas alla tregua aveva fatto sognare a Gaza un po’ di sollievo. Al posto della speranza, è partita la marcia su Rafah. La prima notte ha significato una pioggia di bombe e 24 uccisi (sei bambini), il giorno dopo l’occupazione israeliana del valico con l’Egitto: è la morte lenta, quella per fame e mancanza di medicine, perché il valico chiuso vuol dire che non entra carburante per i camion e che non esce nessuno, né malati né feriti.

Da Rafah entra la benzina, da Kerem Shalom gli aiuti umanitari. Israele ha chiuso anche quello, «ragioni di sicurezza», espressione che i palestinesi conoscono bene: non vuol dire niente. Da 24 ore Gaza è definitivamente sigillata, impermeabile.

Il valico è sotto il controllo della 401° brigata dell’esercito israeliano. L’offensiva via terra si muoverà su due direttrici, da est e da sud, lì sono dispiegati i carri armati. La loro presenza, da sé, ha generato il panico tra il milione e mezzo di palestinesi che in questi mesi è stata spinta sempre più giù dagli ordini di evacuazione, confusi e disordinati.

I volantini che ordinano di spostarsi verso la costa, ad Al Mawasi dove l’esercito ha messo su un ospedale da campo e delle tende, cadono dai caccia israeliani, dicono di evacuare i

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EMILIA ROMAGNA. Il primo cittadino di Ravenna: «Migliaia di persone e imprese aspettano ancora i soldi»

Lugo di Romagna il 19 maggio 2023 foto Ansa Lugo di Romagna il 19 maggio 2023 - foto Ansa

Troppo poco e troppo lento. Quando si chiede ai romagnoli un parere sulla ripartenza post-alluvione, questa è la risposta ricorrente. Da quel maggio del 2023 in cui piogge eccezionali hanno devastato l’Emilia-Romagna è passato un anno, ma i segni della tragedia ci sono ancora tutti. E, passate le fasi della paura e dell’orgoglio, nei territori si respira amarezza.

Sulla causa di quell’evento meteorologico estremo si dibatte ancora. Un pre-print del World Weather Attribution, ovvero uno studio non sottoposto a revisione, stimava il tempo di ritorno di un fenomeno del genere in 200 anni, e non trovava prove della correlazione col riscaldamento globale. Una conclusione che non ha convinto tutti: un gruppo di climatologi italiani pubblicò un articolo in cui si criticavano alcune scelte metodologiche degli autori e si chiedeva di approfondire ulteriormente l’eventuale legame con la crisi climatica.

Di certo c’è la drammaticità di quei giorni. Le prime piogge arrivarono il 3 maggio. A Faenza si allaga un intero quartiere, a Bologna un canale erutta, a Castelbolognese, vicino Ravenna, c’è la prima vittima. Dopo due settimane le perturbazioni si concentrano di nuovo sulle stesse zone, ma stavolta più a lungo. Faenza, Forlì, Cesena, Ravenna: in pianura si allaga tutto, l’Appennino si riempie di frane. In quei giorni i video che arrivano da piccoli centri come Lugo o Sant’Agata sul Santerno occupano le aperture dei tg. Per settimane i volontari spalano il fango in scenari da film, con nuvole di terra secca che vorticano a pochi metri dal suolo e masserizie ai lati delle strade. Il bilancio alla fine è di diciassette morti e oltre dieci miliardi di danni.

«Nel faentino abbiamo avuto uno dei mix di effetti peggiori: le frane hanno accumulato terra, le alluvioni la hanno riversata in città. Solo a Faenza il 40% della popolazione è stata coinvolta dalle esondazioni, 4.000 famiglie hanno dovuto ricorrere a ristori immediati e 2.000 sono state sfollate. Ancora oggi circa 1.000 persone vivono fuori dalle loro abitazioni». A parlare è Massimo Isola, sindaco di Faenza. «La ricostruzione è fatta di due storie diverse. La prima è quella dei beni pubblici, sui quali siamo riusciti a ottenere risultati importanti. Poi c’è il settore privato, che non sta funzionando. I fondi stanziati dal Commissario non coprono i beni mobili – frigo, lavatrice, mobilio – che in un’alluvione sono il grosso dei danni». Quasi tutti i sindaci della Romagna sembrano pensarla allo stesso modo. «C’è tantissimo da fare. Il massimale per i risarcimenti a imprese e condomini è assolutamente inadeguato» spiega Enzo Lattuca, primo cittadino di Cesena. Gli fa eco Michele de Pascale, che governa Ravenna. «La passerella del governo non ha messo soldi sugli indennizzi, migliaia di persone e imprese aspettano ancora i soldi. Sulla ricostruzione dei beni pubblici i fondi sono stati stanziati, ma si è deciso di delegare tutto alle amministrazioni locali. Una città riesce a gestirli, ma pensate ai piccoli centri, che con pochi dipendenti devono affrontare magari centinaia di frane». Il Comune di Forlì – di centrodestra a differenza dei precedenti – sembra meno critico: «Per quanto riguarda i rimborsi alle nostre famiglie, la struttura commissariale sta erogando in queste settimane decine di acconti, dando una risposta concreta in termini di risorse ai privati colpiti dalla tragedia di maggio». Ma anche dalla città amministrata da Gian Luca Zattini si chiede di sburocratizzare la richieste e, sopratutto, di includere in qualche modo i beni mobili nei rimborsi.

«Siamo arrabbiati, le promesse di Meloni non sono state mantenute» spiega Maria Giorgini, segretaria generale Camera del Lavoro Cgil di Forlì. «La gente, che ha dovuto spalarsi da sola il fango, non ha la liquidità per rimettersi a posto casa propria». La scelta del governo di nominare un commissario esterno, il generale Figliuolo, non convince. «La sua nomina è stata una scelta sbagliata, servono le competenze del territorio». Anche Nadine Finke, portavoce di Fridays For Future Forlì, è critica. «La ricostruzione tarda, e sul prevenire si fa poco. L’unico tema presente è la pulizia degli argini, che è importante, ma di certo non l’unica causa. Il governo spende in armi, non in adattamento e mitigazione – ciò che ci salverebbe da future alluvioni»

 

 

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ULTIMA CHIAMATA. Parte l’offensiva, poi arriva il sì di Hamas all’accordo per la tregua e lo scambio di prigionieri. L’attacco prosegue ma si negozia.

Esodo da Rafah Esodo da Rafah - Ap

Un coro ultraradicale guidato dai ministri Itamar Ben Gvir e Nir Barkat incitava ieri il governo Netanyahu a dare il via libera all’attacco Rafah e a ignorare l’accettazione da parte di Hamas, comunicata ufficialmente ieri dal capo dell’ufficio politico del movimento, Ismail Haniyeh, della proposta di Egitto e Qatar per un accordo di cessate il fuoco a Gaza. «Gli esercizi e i giochi di Hamas hanno una sola risposta: occupare Rafah. Aumentiamo la pressione militare e continuiamo fino alla completa sconfitta di Hamas», ha esortato Ben Gvir. E il no alla mossa di Hamas, almeno fino a ieri sera, appariva l’orientamento prevalente dei comandi politici e militari israeliani. «Israele si sta preparando all’operazione di terra a Rafah» ha confernato il portavoce militare Daniel Hagari. Il premier Netanyahu fa di tutto per emergere da questa guerra come il vincitore e non rinuncia al pugno duro. Ma, in realtà, lui e il gabinetto di guerra valutano cosa fare perché mezzo mondo vuole che Israele metta fine alla sua offensiva militare che ha ucciso circa 35mila abitanti di Gaza di ogni età e che siano realizzate le storiche aspirazioni dei palestinesi alla libertà e all’indipendenza. Sullo sfondo ci sono le famiglie degli ostaggi e le altre migliaia di israeliani che chiedono, ora con ancora più forza, al governo di non respingere il compromesso accettato da Hamas.

Sotto pressione è anche il movimento islamico. Appaiono credibili le indiscrezioni che riferiscono di un dibattito acceso tra l’ala politica guidata da Haniyeh più flessibile e quella militare che fa capo a Yahya Sinwar che la tregua la vuole solo se saranno soddisfatte tutte le richieste di Hamas. Il movimento islamico sa che deve tenere conto di ciò che vuole la popolazione di Gaza, gettata dall’offensiva israeliana in una catastrofe umanitaria senza precedenti. E i palestinesi di Gaza vogliono il cessate il fuoco subito, anche se non saranno accolte tutte le condizioni di Hamas. Un desiderio apparso evidente ieri quando, dopo l’annuncio di Haniyeh, migliaia di persone hanno festeggiato nelle strade martoriate di Gaza.

Secondo una fonte citata da Al Jazeera la proposta di Egitto e Qatar prevede tre fasi, ciascuna della durata di 42 giorni. Nella prima fase inizierebbe una tregua, insieme al ritiro israeliano dal Corridoio Netzarim che le forze di occupazione utilizzano per dividere il nord e il sud di Gaza. Una seconda fase include negoziati per la cessazione permanente delle operazioni militari e il ritiro completo delle forze israeliane da Gaza. Nella terza si negozierà anche il blocco della Striscia. Hamas dice di aver avuto una forte garanzia, soprattutto da parte degli americani e dei mediatori, che al cessate il fuoco temporaneo seguirà una tregua permanente. «Sappiamo che questo è un piano graduale – ha detto l’analista Hashem Al Barra – sappiamo che si basa su uno scambio tra prigionieri come parte di un cessate il fuoco».

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Israele spegne al Jazeera: raid negli uffici a Gerusalemme

La giornata era cominciata con la rappresaglia israeliana per i quattro soldati uccisi domenica dai razzi lanciati da Hamas verso il valico di Kerem Shalom. I soccorritori alle prime luci del giorno hanno estratto i cadaveri di almeno 20 palestinesi dalle macerie di dieci case di Rafah prese di mira dagli attacchi aerei. Quindi sono arrivati gli sms, i volantini e le telefonate dell’esercito israeliano che ha intimato alla popolazione dei quartieri orientali di Rafah – Salam, Janina, Shoka, Tabet Ziraa – di scappare subito e di andare in quella che i comandi militari chiamano «zona umanitaria estesa» nell’area dei Mawasi, a circa 15 km di distanza. Un ordine che ha seminato paura tra i civili molti dei quali hanno preparato i loro pochi averi e li hanno caricati assieme ai bambini su carretti tirati da asinelli, in vista dell’attacco contro Rafah a lungo minacciato da Israele. Altri se ne sono andati a piedi per strade rese fangose da insolite piogge per questo mese dell’anno. Persino il tempo non è clemente con la gente di Gaza.

Quindi sono arrivate altre bombe e cannonate, per confermare che Israele non rinuncia ad attaccare, con o senza la liberazione degli ostaggi a Gaza. La vittoria è impossibile senza la presa di Rafah, ripete Netanyahu. In serata il gabinetto di guerra ha deciso di continuare a preparare l’attacco a Rafah anche se manderà una delegazione al Cairo.  A nulla sono servite sino a oggi le pressioni dell’Egitto, che ha esortato Israele a esercitare i «più alti livelli di autocontrollo» a Gaza. Inutile è stata anche l’opposizione al nuovo attacco militare espressa a più riprese dall’Amministrazione Biden che, allo stesso tempo, fornisce le munizioni di cui Israele ha bisogno per continuare la guerra, in particolare le bombe che sganciano su Gaza gli F16.

Nick Maynard, un chirurgo britannico che ieri mattina con altre persone ha provato a lasciare Gaza, ha riferito alla Reuters di «Due enormi bombe esplose fuori dal valico di Rafah. Ci sono molti spari intorno, a 100 metri da noi. Non è molto chiaro se usciremo». Guidando nelle strade di Rafah, il medico ha raccontato che «la tensione era palpabile con le persone che si allontanavano il più rapidamente possibile». L’ordine di evacuazione dei civili impartito dall’esercito israeliano è «disumano, contrario ai principi fondamentali del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani», ha protestato l’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, Volker Türk. Simile l’allarme lanciato da Ong e agenzie umanitarie

 

 
 
 
 
 
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LAVORO. Erano scesi nel tombino per sistemare le fogne: solo uno è salvo, un altro in coma. Lavoravano in appalto per la municipalizzata

Casteldaccia: Vigili del fuoco e sanitari presso l’incidente mortale sul lavoro - foto di Igor Petyx/Ansa

Tre operai erano nella vasca della fogna, in mezzo alla melma. I corpi esanimi di altri due, nel solaio in cemento. Un sesto operaio è riuscito a risalire in superficie, ma è in coma al Policlinico di Palermo. Nell’aria un odore nauseabondo. Si sentiva anche a 40 metri di distanza. Una strage sul lavoro. L’ennesima. Tutto è avvenuto a Casteldaccia, piccola cittadina a 25 chilometri da Palermo. La Procura di Termini Imerese ha aperto un’inchiesta. Si aspetta l’autopsia sui cadaveri, ma pare non ci siano dubbi: i 5 operai sono morti per intossicazione. Hanno respirato, in quello spazio confinato, idrogeno solforato, un gas provocato dalla fermentazione dei residui organici. «Era dieci volte superiore al limite consentito», dice Girolamo Bentivoglio Fiandre, comandante provinciale dei vigili del fuoco che ha coordinato 4 squadre intervenute per i soccorsi.

QUANDO I SOMMOZZATORI sono entrati nella vasca, con 80 centimetri di melma, hanno trovato i corpi di tre lavoratori, gli altri due erano a una manciata di metri sopra la loro testa. «I sanitari del 118 hanno tentato di rianimarli, ma senza esito», afferma l’ispettore dei pompieri Francesco Cruciata, in prima linea nelle operazioni di recupero dei corpi. Nessuno degli operai avrebbe indossato mascherine e dispositivi di protezione, obbligatori per legge. Le vittime sono Epifanio Alsazia, 71 anni di Partinico, contitolare della ditta Quadrifoglio group srl, che aveva vinto l’appalto dell’Amap, l’azienda di Palermo, per i lavori di manutenzione della vasca fognaria; Giuseppe Miraglia di 47 anni originario di San Cipirrello (Palermo), Roberto Raneri di 51 anni di Alcamo (Trapani), Ignazio Giordano di 59 anni e Giuseppe La Barbera, 26 anni, lavoratore interinale dell’Amap, la stazione appaltante. Un sesto operaio, Domenico Viola, 62 anni, è grave al Policlinico.

ALTRI TRE operai l’hanno scampata, non si sono calati nel

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La madre chiede giustizia: 'Matteo voleva solo i suoi telefoni'. Tajani sollecita l'attenzione delle autorità Usa. Amnesty: 'Trattamento illegale e immotivato'

Fermo immagine del video pubblicato dal quotidiano La Nazione - Credit LA NAZIONE   RIPRODUZIONE RISERVATA

Uno studente italiano di 25 anni, Matteo Falcinelli, originario di Spoleto, è stato arrestato in Florida, a Miami, con modalità particolarmente violente.

 

Il fatto è avvenuto la notte tra il 24 e il 25 febbraio scorso.

"Sopravvivendo alla tortura che ho subito ho vinto la partita più importante. Forse la mia esperienza di calciatore mi ha aiutato psicologicamente, altrimenti non so se ce l'avrei fatta". Queste le parole, affidate alla madre Vlasta Studenivova e riferite all'ANSA, di Matteo Falcinelli. Al momento il giovane non è in stato di detenzione.

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