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INDIFESI. Tensione con la polizia quando i manifestanti cercano di forzare l’ingresso del Lingotto. Alcuni stand chiudono in solidarietà

 La protesta pro Palestina al Salone del libro di Torino - LaPresse

«Uno spazio che parla di cultura e di attualità non può chiudere gli occhi e non può lasciare fuori la storia con la S maiuscola», dice Zerocalcare. Lo spazio di cui si parla è il salone del libro di Torino dove ieri pomeriggio per due ore il dramma di Gaza ha fatto irruzione tra gli stand della case editrici, tanto da spingere il disegnatore a interrompere la presentazione del suo ultimo libro per recarsi all’ingresso del Salone dove almeno duecento giovani stavano protestando per la Palestina. Non sono mancati momenti di tensione quando, poco prima, i giovani dei centri sociali, della comunità palestinese di Torino, di Cambiare rotta gridando «Free free Palestine» si sono presentati all’ingresso del Lingotto cercando di entrare ma sono stati respinti dalla polizia in tenuta anti sommossa. Una reazione che ha spinto alcuni editori a chiudere il proprio stand in segno di solidarietà con i manifestanti.

«Penso – dice Zerocalcare – che per tanto tempo a noi che siamo testimoni di quello che sta succedendo in Palestina ci verrà chiesto conto del fatto che non stiamo fermando il massacro e quindi credo sia normale e naturale che ci siano persone che vogliano portare questi temi e contenuti all’interno e mi sembra assurdo che questa cosa non possa avvenire».

«All eyes on Rafah: blocchiamo tutto» avevano promesso nei giorni scorsi i manifestanti annunciando il sit in. Al presidio ci sono ragazzi e ragazze, alcuni bambini e bambine, molto piccoli con gli zainetti, ma anche uomini e donne di diversa provenienza ed età che fanno ondeggiare una grande bandiera palestinese, cantando nel ritmo di slogan pro-Palestina e contro il governo israeliano e a gran voce chiedendo, con rabbia e vigore, lo stop al genocidio.

Il flusso di persone, in entrata e in uscita dagli spazi del Lingotto, è stato invitato dalla polizia a usare ad altri ingressi per evitare il contatto con il presidio che ha avuto toni accesi e pur tuttavia un discreto pubblico di chi, dalle balaustre e dalle scalinate, si è fermato, osservava e interagiva con gli e le attiviste. «Come si fa a celebrare quest’anno un Salone, il più bello del mondo per noi torinesi, senza minimamente ricordare che a qualche migliaio di chilometri ci sono esseri umani che stanno morendo» ha urlato uno degli attivisti. «Ci sono teatri bombardati, scrittori che sono stati uccisi. Ma non vi vergognate?».

Pochi gli striscioni ma definitivi, come quello dell’Associazione dei Palestinesi in Italia: «Vita terra libertà per il popolo palestinese. Salviamo Gaza». E ancora il ricordo del poeta palestinese, Refaat Alareer, morto l’8 dicembre scorso: «Se l’organizzazione di questo Salone fosse stata obiettiva è a lui che lo avrebbe dovuto dedicare», spiegano i manifestanti. Si è fatto cenno alla cultura, a cosa sia oggi in questo paese davanti alle contestazioni che producono reazioni con i manganelli. E se di resistenza si tratta, «allora il vero Salone è qui, lo facciamo noi». Anche verso il governo italiano nessuno sconto, perché «mai una parola è arrivata per dire basta al genocidio, basta al massacro».

In serata una delegazione composta da cinque giovani viene fatta entrare nel Salone insieme a Zerocalcare. Fuori, i manifestanti annunciano di voler proseguire la protesta: «Da lunedì occuperemo tute le università torinesi perché quello che sta succedendo è una catastrofe», promettono

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INCHIESTA LIGURIA. La parola d’ordine che accomuna l’intero centrodestra è secca: «Scavallare le europee». Poi si deciderà la sorte di Toti le cui dimissioni, però, sono date per quasi inevitabili. Ieri di […]
La destra aspetta giugno per il fine corsa di Toti Giovanni Toti - foto Ansa
La parola d’ordine che accomuna l’intero centrodestra è secca: «Scavallare le europee». Poi si deciderà la sorte di Toti le cui dimissioni, però, sono date per quasi inevitabili. Ieri di fronte al gip il governatore ligure, come preannunciato, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Lo farà però la prossima settimana, quando sarà interrogato dal pm come da lui richiesto, e solo dopo quell’interrogatorio verrà inoltrata la richiesta di revoca degli arresti domiciliari. Se respinta, sarà inevitabile il ricorso di fronte al Tribunale della libertà. La linea di difesa è già tratteggiata e anticipata dal suo legale, l’avvocato Stefano Savi: Toti sosterrà di non aver commesso alcun illecito e di non aver incassato un solo euro per se stesso. Se riuscirà a ottenere la revoca degli arresti avrà una carta da giocare per evitare le dimissioni. Ma le sue chance sono comunque ridotte all’osso. Dall’interno di Forza Italia, lontano dalla ribalta delle dichiarazioni ufficiali, lo fanno capire chiaramente: il problema non è solo il procedimento penale ma il quadro del sistema di potere costruito da Toti e che, anche al netto dei rilevi penali, appare letteralmente impresentabile.
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L’ipotesi delle le dimissioni, fa sapere Savi, Toti la sta considerando. Ma dovrà prima esserci «un confronto col mondo della politica». Come dire che il governatore deve prima capire se e quanto la destra è disposta a sostenerlo. La realtà è che a esporsi sin troppo in sua difesa è solo la Lega. Salvini risponde al Conte che denuncia «la nuova tangentopoli» reclamando dimissioni e lo fa a muso duro: «Toti fa bene a non dimettersi. Si è innocenti sino a prova contraria e se tutti gli indagati si dimettessero l’Italia si fermerebbe. Poi vorrei vedere se ci fossero microspie negli uffici di qualche magistrato quanti resterebbero in carica». L’appassionata difesa deriva in parte dall’amicizia che lo lega a Toti ma in parte anche maggiore dal fatto che in quel sistema di potere, desolante con o senza gli illeciti, proprio la Lega era centralissima. Al Carroccio, del resto, Toti è sempre stato vicino, tanto da rappresentare, quando ancora aveva in tasca la tessera azzurra, quasi l’uomo di raccordo.
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Anche da FdI, sinora molto tiepida, si leva una voce vibrante in difesa di Toti, quella del ministro Nello Musumeci: «Sono trent’anni che la magistratura avanza acquisendo spazi non suoi. C’è una minoranza di giudici che sono rimasti comunisti». Il ministro si espone sino a dichiarasi «convinto che Toti riuscirà a dimostrare la sua estraneità ai fatti contestati». Anche il ministro della Protezione civile, come il collega Crosetto 24 ore prima, insiste sul sospetto dell’arresto a orologeria: «Lasciatemi dire che a venti giorni dalle elezioni questo provvedimento qualche dubbio lo alimenta».
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FdI è meno sbilanciata e più prudente. Il guardasigilli Nordio ricorda che chiedere all’indagato di provare la sua innocenza «è una bestemmia» perché «in una civiltà democratica è l’accusa che deve dimostrare la colpevolezza». Quindi semaforo verde per i sospetti sulla tempistica dell’arresto. Muro compatto contro la carica delle opposizioni che reclamano le dimissioni come se la colpevolezza fosse già provata. Però massima cautela e nessuna barricata quando si arriva al tema delle dimissioni. Resteranno fuori discussione sino al 9 giugno perché se Toti le rassegnasse suonerebbe come un’ammissione di colpa e il contraccolpo elettorale potrebbe essere pesante. A urne chiuse, salvo svolte clamorose a favore dell’indagato, le cose cambieranno
 
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TOTI IN BILICO. Gelo di FdI, premier irritata. E le dimissioni sono avvertite come vicine

Liguria, a destra c’è chi già immagina l’election day Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria

Toti è «immerso nello studio delle carte» e «umanamente molto reattivo»: parola dell’avvocato Savi, suo legale. Tanta reattività, tuttavia, non si spingerà, salvo ripensamenti, sino a suggerirgli di rispondere oggi nell’interrogatorio di garanzia. Il silenzio non lo aiuta dal punto di vista politico. «Dimostrerò di non aver commesso alcun illecito», diceva ieri il reattivo e obiettivo della dimostrazione sarebbe la revoca dei domiciliari. Il governatore ligure è deciso a restare al proprio posto anche se, come spiega sempre Savi, «si confronterà con la maggioranza».

Ma senza la revoca dei domiciliari l’esito di quel confronto, nonostante il sostegno di Fi e Lega, è già segnato. «Siamo per la possibilità di tutti di dimostrare serenamente la propri a innocenza. Al netto di questo attendiamo con pazienza gli esiti di una fase intermedia», dice il ministro Lollobrigida ed è una posizione molto diversa da quella di chi impugna la presunzione d’innocenza sino a sentenza emessa.

A porte chiuse i tricolori sono anche più spicci e la più irritata di tutti è Giorgia Meloni. Il fattaccio a ridosso delle elezioni è un guaio e Crosetto non ce la fa a celare il dubbio che l’inchiesta sia a orologeria: «Sulla campagna elettorale irrompe una vicenda strana. Con la logica usata per Toti può essere arrestata la maggioranza degli amministratori, dei dirigenti pubblici e presumo anche dei magistrati». Sfoghi a parte, la sola domanda è quanto sia disposta ad aspettare sulla graticola la premier. C’è chi dice un mese, chi non più di due settimane. In realtà di tempo a disposizione Toti potrebbe averne anche meno: non oltre sabato prossimo. Sempre che nel frattempo non riesca a ottenere la salvifica revoca dei domicialiari e persino in quel caso la resistenza sarebbe difficile se l’eventuale revoca fosse accompagnata dalla sospensione dall’incarico.

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La prova di quanto, al di là delle dichiarazioni ufficiali, le dimissioni siano avvertite come vicine sta nelle manovre per la successione, già partite a tutta velocità. Indicativa anche la vicenda del Salone del libro di Torino. In mancanza dell’impossibilitato governatore ci sarebbe dovuto andare il suo vice, Alessandro Piana, leghista, che però già alla vigilia faceva sapere di non avere alcuna intenzione di esporsi «senza un mandato pieno», formula peraltro di difficile comprensione. È finita che a rappresentare la regione è dovuta andarci la portavoce di Toti Jessica Nicolini, che è anche coordinatrice delle politiche culturali. L’inaugurazione dello stand è stata rinviata a chissà quando. La portavoce si è ritrovata circondata dal gelo. Una scena da caduta degli dei.

In caso di abbandono del governatore la Liguria tornerebbe alle urne in autunno, dunque in contemporanea con l’Umbria ma nella destra c’è chi sogna un vero election day con l’aggiunta dell’Emilia-Romagna dove però la certa elezione di Bonaccini a europarlamentare non dovrebbe impedire di portare la legislatura a compimento. La rapidità fulminea con cui il coordinatore di FdI ligure Rosso aveva «non escluso» le dimissioni di Toti rivela con quanta cupidigia FdI guardi a quella casella.

Il primo nome in lista è proprio quello dell’impaziente coordinatore Matteo Rosso. In lizza ci sono però anche l’ex vicesindaco Nicolà e l’assessora Simona Ferro. Anche la Lega punta però a sostituire Toti, magari scambiando con FdI la candidatura in Umbria. Il carroccio conterebbe su due nomi possibili pesanti: Edoardo Rixi, ex viceministro e pezzo da novanta del Carroccio ma anche il sindaco di Genova Marco Bucci, vicino alla Lega però da indipendente, forte di un notevole consenso personale e forse con una carta in più da giocare: il rapporto di vicinanza e stima con la coordinatrice di Iv Raffaella Paita, già candidata sconfitta da Toti. Dall’altra parte della barricata c’è un solo nome in campo, quello dell’ex ministro Andrea Orlando. Sempre che se la senta…

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ISRAELE/PALESTINA. Le pressioni degli Usa non bastano, l’offensiva continua. E al Cairo non si negozia più. Oltre 100mila palestinesi in fuga dalla città verso la zona «sicura» di al-Mawasi. Poi Israele la bombarda

 La fuga dei palestinesi da Rafah dopo l’ordine di evacuazione dell’esercito israeliano per i quartieri orientali della città - Epa/Haitham Imad

Il governo israeliano sceglie il suo volto più borioso per rispondere a Joe Biden. L’arroganza cela la preoccupazione. Perché se è vero che il sostegno statunitense non viene meno (viene meno, almeno temporaneamente, un pezzo di appoggio militare: la distanza è sui metodi e non sugli obiettivi), la sospensione dell’invio delle mega bombe statunitensi è una mossa senza precedenti. Ieri sera il gabinetto di guerra si è riunito per discutere il da farsi dopo la decisione della Casa bianca e l’intervista che Biden ha rilasciato mercoledì alla Cnn.

«COMBATTEREMO con le unghie se necessario», avrebbe detto al suo entourage il primo ministro Netanyahu dopo una telefonata – tesissima – con il presidente Usa. Che da parte sua è sotto significativa pressione: da giorni è attesa la consegna al Congresso del rapporto del Dipartimento di Stato sull’eventuale violazione da parte israeliana del diritto internazionale con armi statunitensi.

Di fatto, però, Biden lo ha già detto in tv: le mega bombe sono state usate per colpire civili. Difficile non sia avvenuto: sono quotidiani i raid a tappeto su Gaza, gli uccisi sono 35mila, i dispersi 10mila. Dal Dipartimento della Difesa Usa sono già partiti 50mila munizioni d’artiglieria, 30mila munizioni per obici, altre migliaia di missili. E poi le famose bombe «stupide», con allegato il kit per renderle «intelligenti».

Mettere in pausa 3.500 bombe è il modo che Washington ha per dire a Tel Aviv di non marciare su Rafah, o almeno di farlo con moderazione.

LA REAZIONE a Tel Aviv è isterica. La parlamentare del Likud Tali Gottlieb ha detto che se «gli Usa minacciano di non darci missili precisi, allora ho una notizia per loro: useremo quelli imprecisi. Farò collassare dieci palazzi». Il ministro della sicurezza nazionale Ben Gvir, estremista della destra kahanista, ha scritto su Twitter che «Hamas ama Biden».

E poi c’è chi le decisioni le prende. E non sono rassicuranti. Il ministro della difesa Gallant ieri ha mandato a dire a «nemici e amici» che «lo Stato di Israele non può essere domato». Netanyahu non intende fermarsi, dicono funzionari israeliani e statunitensi alla Nbc, né per preservare alleanze storiche né tanto meno per salvare la vita agli ostaggi ancora in vita: nessun accordo di scambio con Hamas, dicono le fonti, a meno che non gli si permetta di attaccare Rafah.

Di certo si sa che al Cairo non è rimasto nessuno: il direttore della Cia William Burns se n’è andato e sia Tel Aviv che Hamas hanno richiamato le rispettive delegazioni di negoziatori, con il movimento islamico che accusa Israele di aver lanciato l’offensiva su Rafah per far deragliare il dialogo.

Dal Cairo Rafah dista poco più di 300 chilometri, da Tel Aviv un centinaio. Tutti gli occhi sono su Rafah, lo recitano migliaia di cartelli che in questi giorni affollano le piazze di mezzo mondo, All eyes on Rafah.

SECONDO l’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, da lunedì sono almeno 100mila i palestinesi scappati dalla città che si pensava un rifugio, un numero enorme di sfollati in appena quattro giorni che, senza tende né rifugi, provano a trovare riparo negli scheletri delle case distrutte.

«C’è tanta paura – dice un funzionario dell’Onu al Guardian – Le strade sono congestionate, auto, carretti trainati da asini, gente a piedi. Alcuni sono stati sfollati diverse volte. Potrebbero diventare 300mila in pochi giorni. Il problema è che non c’è un posto che possa accogliere un simile numero di persone, che sia sicuro e provvisto di servizi di base».

Si gira in tondo, su e giù, dando fondo agli ultimi risparmi, chi ne ha ancora. Le zone che Israele ha definito sicure – Khan Younis e al-Mawasi – sono letteralmente in macerie o prive di strutture in grado di accogliere gli sfollati.

Per questo la maggior parte del milione e mezzo di palestinesi ammassati al confine sud non scappa: non sanno dove andare e risalire verso nord significherebbe allontanarsi dagli aiuti umanitari. Che però, con i due valichi (Rafah e Kerem Shalom) ancora chiusi da Israele, rischiano di scomparire anche da Rafah. Non entra niente da lunedì.

Nonostante ciò gruppi di estremisti israeliani – tra loro anche qualche sindaco – vogliono assicurarsi che si muoia di fame: ieri hanno bloccato le strade che portano a Kerem Shalom con centinaia di massi.

E MENTRE all’ospedale Shifa post-assedio israeliano emerge la terza fossa comune (49 i corpi finora recuperati, di alcuni solo parti smembrate. È la settima finora scoperta in tutta Gaza), le bombe continuano a cadere. A Gaza City si contano almeno 20 uccisi della famiglia Abu Sharia.

A Rafah sono stati colpiti i quartieri centrali e occidentali, anche la «sicura» al-Mawasi, «nuovi» fronti dopo i raid a est e sud. Ai palestinesi i bombardamenti appaiono casuali, privi di una vera regia militare e per questo ancora più spaventosi, come il ronzio costante dei droni e il rimbombo dei caccia. «Non riesco a camminare, le mie gambe non reggono più – dice un uomo al quotidiano britannico – Sono spaventato da troppo tempo»

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Agli «Stati generali della natalità», ragazze e ragazzi delle superiori contestano la ministra della Famiglia Roccella e le politiche «prolife» del governo. Apriti cielo. Lei se ne va e parte un coro sdegnato, cui si unisce il presidente Mattarella: i «censori» sarebbero gli studenti

DISSENTI CHI PARLA. Agli Stati generali della natalità la contestazione degli studenti alla ministra, annunciata da giorni. Cori e cartelli, e lei se ne va

Roccella si caccia da sola La contestazione alla ministra Eugenia Maria Roccella durante gli Stati Generali della Natalità - foto LaPresse

Come ogni anno, le contestazioni agli Stati generali della natalità erano state più che annunciate. Lo stesso Gianluigi De Palo, organizzatore dell’evento e attivista per la famiglia di lunghissimo corso, aveva commentato tre giorni fa il post su Instagram in cui il collettivo transfemminista Aracne lanciava la mobilitazione, risalente al 19 aprile scorso, chiedendo: «Come posso mettermi in contatto con voi?». Insomma tutti sapevano quando, perché e come ci sarebbero state le contestazioni, che avvengono ogni anno dato il parterre ricchissimo e i temi sensibili che vengono affrontati nei panel di discussione, e soprattutto chi le avrebbe fatte: ragazzi e ragazze delle scuole superiori.

Non erano neanche tanti, una cinquantina, dicono gli studenti, «erano 15» dichiara De Palo alla stampa, facendo sorgere di conseguenza la domanda: la ministra per la Famiglia Eugenia Roccella ha davvero abbandonato l’evento per dei cartelli e dei cori («Buuuu», «Vergogna», «ma quale stato ma quale dio, sul mio corpo decido io», «fuori i provita dai consultori») di una manciata di ragazzini nella vasta platea dell’auditorium Conciliazione? De Paolo, nello schierarsi naturalmente con la ministra («la contestazione in sala era benzina in un contesto di questo tipo») ammette però anche che «nessuno ha cacciato nessuno».

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«Voglio chiarire perché le parole sono importanti, come diceva Nanni Moretti: chi contestava la ministra Roccella voleva solo intervenire per interromperla e per avere visibilità, una volta ottenuta sono usciti, quindi noi non li abbiamo cacciati». E nessuno ha cacciato la ministra.

NEL POMERIGGIO, RIUNITI in assemblea alla Sapienza con

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La riforma costituzionale arriva in aula al senato, ma Meloni sposta il dibattito fuori dal parlamento. E impone la sua visione: con il premierato il presidente della Repubblica rientrerà nei ranghi. «Mai più sovrapposizione di ruoli», comanderà tutto lei

IL DDL CASELLATI. La premier sceglie la platea di un convegno per presentare la riforma su cui punta Fdi. Avs, Pd e 5s: il nuovo testo contraddice la separazione dei poteri con le Camere elette a traino del premier

Giorgia Meloni al convegno sul premierato Giorgia Meloni al convegno sul premierato - Ansa

«Non tutti sono condannati a essere intelligenti» amava ripetere Carlo Emilio Gadda. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha infatti deciso di far organizzare alla maggioranza un grande convegno alla Camera sul premierato elettivo, con il suo più ampio intervento su questa riforma, proprio nel giorno in cui il ddl Casellati ha iniziato il proprio iter nell’Aula del Senato. Un modo neanche troppo celato di sminuire il peso del Parlamento. In qualche modo anticipando lo spirito stesso del premierato che Meloni ha detto di voler approvare, visto che le opposizioni – a suo modo di vedere – non sono disponibili al dialogo.

IN SENATO in mattinata si è consumata quello che a questo punto è risultata essere solo sbiadita liturgia. Il ddl Casellati ha iniziato il percorso a Palazzo Madama con il voto su tre pregiudiziali presentate da Avs, Pd e M5s. Tutti e tre i documenti hanno sottolineato che la riforma contraddice il principio costituzionale cardine della separazione dei poteri, visto che il Parlamento sarà eletto a traino del premier, facendo sì che nelle mani di questi finiscano anche i poteri di eleggere il Presidente della Repubblica, i cinque giudici della Corte costituzionali e i membri laici del Csm. Ovviamente la maggioranza ha bocciato le pregiudiziali, sulle quali Iv si è astenuta, non ritenendo incostituzionale il ddl Casellati, seppur non condivisibile. Una scelta curiosa, ha osservato in Aula Dario Parrini (Pd), dato che Matteo Renzi ha definito il ddl Caselalti uno «schifezzellum».

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TUTTAVIA TUTTE LE OPPOSIZIONI hanno presentato emendamenti, che hanno raggiunto quota 3mila (1.300 il Pd, 1.400 Avs, 180 M5s, 30 Azione, 14 Iv). Per la maggioranza non sarà dunque una passeggiata. Anche perché gli iscritti in discussione generale sono

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