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LUNEDÌ 20 UN INCONTRO A TORINO. Per affrancarsi dai fallimenti della politica climatica è necessario accompagnare i grandi accordi-quadro, come quelli di Parigi e Kyoto, con processi concreti di collaborazione fra imprese, stato, corpi intermedi e cittadini, allo scopo di facilitare la ricerca e l’investimento su nuove tecnologie di frontiera e rendendo più costoso l’atteggiamento opposto, cioè la rendita e la conservazione

Lo stadio di Porto Alegre, in Brasile, devastato dalle alluvioni di maggio Lo stadio di Porto Alegre, in Brasile, devastato dalle alluvioni di maggio - Andre Penner /Ap

La politica climatica è fallita. Nei vertici sul clima, spesso egemonizzati dalle lobby delle energie fossili, l’attendismo climatico imperversa. Nonostante qualche pallido risultato, stiamo procedendo a passi di lumaca e si fa sempre più largo l’idea che ambientale sia nemico di sociale.

Come accelerare la transizione? Come far sì che diventi effettiva, coniugando il contrasto al surriscaldamento globale, lo sviluppo locale e la giustizia sociale?

Di questi temi si discuterà lunedì 20 maggio al “Circolo dei lettori” di Torino, a proposito del libro Governare il climaStrategie per un mondo incerto (Donzelli, 2024) alla presenza di uno degli autori, il politologo Charles Sabel, con il co-coordinatore del Forum Diseguaglianze e Diversità, Fabrizio Barca.

La tesi del libro è netta: per affrancarsi dai fallimenti della politica climatica è necessario accompagnare i grandi accordi-quadro, come quelli di Parigi e Kyoto, con processi concreti di collaborazione fra imprese, stato, corpi intermedi e cittadini, allo scopo di facilitare la ricerca e l’investimento su nuove tecnologie di frontiera e rendendo più costoso l’atteggiamento opposto, cioè la rendita e la conservazione. Il messaggio è che se è vero che “il mercato” non ci salverà, allo stesso tempo il necessario ruolo degli Stati e delle istituzioni pubbliche richiede la cooperazione volontaria degli innovatori e il coinvolgimento di chi la transizione non la vuole.

Il cambiamento tecnologico «che serve» per la lotta al cambiamento climatico è legato all’organizzazione dei processi decisionali, dipende dagli interessi e dei poteri coinvolti, dalla capacità di tenere insieme il vecchio certo e il nuovo incerto in un’unica strategia di innovazione.

Al centro del libro c’è la proposta operativa: la governance sperimentalista, un modello che sfugge alla dicotomia oziosa fra centralizzazione e decentramento e grazie a alla quale sempre più attori in tutto il mondo sono spinti a prendersi il rischio di innovare.

La governance sperimentalista va intesa come processo decisionale aperto, insieme (e non in alternativa) al ruolo dell’Autorità pubblica, e che si esplica attraverso sanzioni e regole che spingono le imprese verso comportamenti diversi da quelli che verrebbero seguiti in modo indipendente e isolato.

Ma come cucire l’innovazione con la giustizia sociale e il consenso? A questo scopo, è cruciale promuovere l’adattamento dell’innovazione alle esigenze quotidiane delle persone, delle classi e dei territori, specie di quelli più vulnerabili. Il tutto per far sì che le aspirazioni e i bisogni dei soggetti marginalizzati non entrino in contrasto con le tecnologie/modelli/soluzioni che emergono dalla governance sperimentalista.

Nei processi decisionali che presidiano l’innovazione occorre evitare di riprodurre la frattura tra vincenti e perdenti spesso creata dalle politiche territoriali e, come ben sappiamo, da quelle ambientali.

Il libro di Sabel e Victor è arricchito da una serie di esperienze concrete: l’attuazione del Protocollo di Montreal del 1987 per contrastare l’assottigliamento della fascia di ozono; la riduzione delle emissioni di carbonio in California; il controllo delle emissioni di solfuri negli USA; la riduzione di inquinamento agricolo in Irlanda, e altri ancora.

Al centro dei casi analizzati si trova sempre un’Autorità pubblica credibile (o una rete coesa di autorità facenti funzioni pubbliche) che governa il processo. Un’esortazione per il nostro paese e per chi ancora crede che la stagnazione, il declino e lo sguardo miope della politica istituzionale non siano un destino inevitabile, ma qualcosa da superare il più rapidamente possibile

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Erede alla lontana del tribunale che processò i nazisti a Norimberga, giudica i crimini di guerra patiti dalle popolazioni civili. Ma Usa, Russia, Cina e Israele stessa non ne riconoscono il ruolo

corte penale Aja

Istituita ufficialmente nel 2002, erede alla lontana del tribunale che processò i capi nazisti a Norimberga, la Corte penale internazionale dell'Aja - il cui procuratore ha chiesto oggi il mandato di cattura per Netanyahu e i capi di Hamas - è l'organismo chiamato a giudicare i cosiddetti crimini di guerra e contro l'umanità. È la stessa corte che nel marzo del 2023 aveva emesso un mandato di cattura nei confronti di Vladimir Putin per i crimini ai danni della popolazione ucraina e la deportazione di  migliaia di bambini. Karim Ahmad Khan è lo stesso procuratore che ha chiesto l'arresto tanto per Putin quanto per i protagonisti del conflitto a Gaza.  

Il ruolo della Corte penale internazionale (Icc, International criminal Court)   non va confuso con il tribunale internazionale che ha sede sempre nella capitale olandese e che è incaricato di dirimere le controversie tra Stati membri dell’Onu; nè con quello della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) con sede a Strasburgo che vigila sulk rispetto dei diritti e delle libertà dell’individuo.

 

In attesa di capire se la richiesta del procuratore verrà accolta, va sottolineato che Israele non è tra gli Stati che riconoscono la giurisdizione della Corte dell'Aja; tra questi ci sono anche gli Stati Uniti, la Cina e la Russia. Dunque, in astratto, i personaggi che venissero colpiti dal provvedimento restrittivo potrebbero viaggiare liberamente verso queste destinazioni. 

La nascita della Corte penale internazionale dell’Aja ha avuto una gestazione che ha attraversato tutta la seconda metà del XX secolo. Il precedente a cui far risalire la nascita di questo organismo internazionale è come detto la Corte che processò i crimini nazisti della seconda guerra mondiale. In quella sede si ritenne doveroso, alla luce degli orrori patiti dagli ebrei e dei popoli aggrediti dai nazisti , giudicare i capi del Terzo Reich per i crimini subiti dai civili.

Dopo un iniziale pronunciamento dell’Onu del 1948, di istituire un tribunale permanente viene accantonata a causa della Guerra Fredda. Occorre saltare però agli anni ‘90 perché il tema si riproponga sull’onda di due guerre estremamente sanguinose e crudeli scoppiate in quel decennio: il conflitto dell’ex Jugoslavia e quello del Ruanda. I responsabili di quegli eccidi (tra cui Slobodan Milosevic e Radovan Karazic) vennero condannati da tribunali istituiti ad hoc e temporanei. Ciò che mancava era un una codificazione dei reati e di una procedura che chiarisse in quali casi un leader politico può essere accusato di crimini di guerra, contro l’umanità o contro la pace.

L’accordo viene raggiunto nl luglio del 1998 quando nella sede della Fao a Roma con il voto favorevole di 120 delegazioni favorevoli su 160 viene sottoscritto lo Statuto di Roma che dà vita alla Corte penale internazionale con sede all’Aja. Questo stabilisce che la Corte ha il compito di giudicare gli individui (e non gli Stati) che si macchiano di crimini di guerra e contro l’umanità. Il tribunale avviato processi tra gliu altri contro l’ex presidente del Sudan Omar al Bashir e, prima che venisse ucciso, contro il colonnello libico Gheddafi.

Tra gli Stati che non hanno ratificato il trattato di Roma ci sono  Israele, la Cina e gli Stati Uniti. Sotto l’amministrazione Trump, anzi, Washington ha quasi del tutto interrotto la collaborazione con i giudici dell’Aja, vietando ai suoi cittadini di fornire consulenza alla Corte internazionale. Questo in seguito all’intenzione della Corte d indagare su crimini di guerra compiuti in Afghanistan

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Nella foto: Una squadra di salvataggio sul luogo dell’incidente aereo nel quale ha perso la vita il presidente iraniano Ebrahim Raisi @Ap

 

Oggi un Lunedì Rosso dedicato ai ponti.

Quello che collega le elezioni comunali alle europee. Due sfide diverse che in tremila comuni italiani avranno luogo in parallelo l’8 e 9 giugno.

Ma anche il ponte ancora immaginario che dovrebbe unire Calabria e Sicilia sullo Stretto di Messina. Una nuova valutazione sull’impatto ambientale evidenzia gli aspetti più dannosi dell’opera.

Un collegamento molto contestato è invece quello tra università e guerra. Dedicare la ricerca (pubblica) al settore bellico è una scelta che non può avvenire nell’indifferenza della cittadinanza.

Il ponte è anche ciò che crea dialogo tra diversità, un compito che ci spetta ogni giorno.

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STRISCIA DI SANGUE. L’arrivo del caldo e la fuga da Rafah hanno aggravato una situazione già disastrosa

Deir al-Balah, Striscia di Gaza: bimbi palestinesi camminano sulle macerie Deir al-Balah, Striscia di Gaza: bimbi palestinesi camminano sulle macerie - Abed Rahim/Ap

A sera è esausto dopo una giornata passata a cercare cibo, acqua e qualche lavoretto per sopravvivere. Eppure, Adham Al Samouh quasi non riesce a chiudere occhio la notte nella sua tenda ad Abraj Al-Qastal, una località alla periferia di Deir al Balah. «Riesco a dormire a malapena due ore» racconta a un giornalista di Gaza «la mia tenda è calda e ci sono insetti di ogni tipo, alcuni li conosco altri non li ho avevo mai visti prima. I miei figli ed io siamo pieni dei loro morsi. E dobbiamo guardarci dai ratti che girano di notte intorno alla nostra tenda alla ricerca di cibo».

POTREBBERO riferire lo stesso tutti gli altri palestinesi a cui l’attacco israeliano a Gaza ha distrutto la casa oltre ad uccidere parenti, che sono stati costretti a sfollare e che da mesi vivono nelle tende, scappando da una città all’altra. Per due milioni di palestinesi l’arrivo della stagione calda aggrava una condizione già estrema, così come ha fatto l’inverno. Come i civili di Gaza vivranno nei prossimi mesi però non dipenderà solo dal clima, dal caldo e dal freddo. La catastrofe sanitaria e ambientale che devasta la Striscia è immensa a causa dell’inquinamento e della distruzione con bombe e missili delle infrastrutture e delle reti fognarie. E non potrà che peggiorare, giorno dopo giorno, con la ripresa ad ampio raggio dell’offensiva israeliana e la fuga di centinaia di migliaia di persone da Rafah sotto attacco.

LA DIFFUSIONE di malattie infettive è già in atto, avvertono l’Oms e le Nazioni unite che, peraltro, entro pochi giorni potrebbero dover sospendere completamente le operazioni di soccorso e assistenza se non verrà fatto entrare carburante nella Striscia, ora bloccato ai valichi tra Gaza con Egitto e Israele. Parlando all’agenzia turca Anadolu, la portavoce dell’Ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), Olga Shirevko, ha lanciato l’allarme sulla condizione degli sfollati scappati da Rafah, con poco o nulla, per raggiungere le aree di Mawasi e la parte centrale del territorio. Assisterli sarà una impresa ardua, ha aggiunto prima di lanciare un appello al mondo «a non dimenticare Gaza e la sua popolazione».

LE ACQUE reflue che scorrono tra le macerie di città e villaggi senza più controllo e attività di depurazione a causa della mancanza di elettricità e dei bombardamenti delle infrastrutture, hanno contribuito alla diffusione di insetti e altri animali. Così come l’accumularsi dei rifiuti dopo l’interruzione di qualsiasi attività delle amministrazioni comunali da quando Israele ha lanciato la sua offensiva. Il problema dei rifiuti, inclusi quelli sanitari, non raccolti e smaltiti è un’emergenza molto pericolosa, ammonisce il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) secondo cui se la questione non sarà affrontata avrà conseguenze pesanti per la salute pubblica. I rifiuti, prevedono gli esperti, proseguiranno a contaminare i terreni e la falda acquifera. Prima del 7 ottobre Gaza produceva 1.700 tonnellate di rifiuti al giorno che venivano riversate in due discariche principali. In particolare, quella di Johr Dik, con milioni di tonnellate di rifiuti accatastati fino a 35 metri dal suolo. I veicoli per la raccolta erano cronicamente insufficienti e la pulizia dei centri abitati era limitata a dir poco. La guerra ha paralizzato tutto aggravando un quadro già disastroso.

L’Undp ha messo in campo un’iniziativa per sostenere il Joint Solid Waste Management Services Council (Jsc-Krm) nei governatorati meridionali di Rafah, Khan Younis e nell’area centrale che prevede la distribuzione di carburante per gli automezzi ancora funzionanti e la ripresa delle operazioni di raccolta dei rifiuti, ma senza il cessate il fuoco e la fine dei movimenti di centinaia di migliaia di sfollati su e giù per la Striscia, questi sforzi sono inutili.

MAJED AL-SIR, sfollato dal nord, riferisce che topi di ogni misura vagano liberamente e attaccano i magazzini con cibo e farina. «I cani randagi» aggiunge «costituiscono un altro problema, molti di loro sono diventati aggressivi a causa della violenza delle esplosioni causate dalle bombe e perché affamati». Mohammed al Balimat, del villaggio Masdar, dice che la guerra ha fatto spostare verso le aree popolate dagli sfollati scorpioni, serpenti e piccoli rettili.

In cima ai problemi che si moltiplicano e aggravano la crisi umanitaria frutto dell’offensiva israeliana c’è sempre il collasso quasi completo del sistema sanitario. Asma Musaed, medico nel campo profughi di Al-Maghazi, riferisce un continuo aumento di infezioni, malattie della pelle e intestinali causate dall’inquinamento ambientale. «E naturalmente – aggiunge – non possiamo dimenticare la scabbia, i pidocchi, le zecche e altri parassiti che affliggono soprattutto i bambini. Problemi seri che dovrebbero essere affrontati da un sistema sanitario attrezzato e in grado di funzionare, ma a Gaza non c’è più, gli ospedali sono fermi e la medicina di base è impossibile in queste condizioni».

ANDREA DE DOMENICO, capo di Ocha nei Territori occupati, in questi giorni a Gaza, sottolinea che le Nazioni unite ripetono senza essere ascoltate che la situazione non potrà che peggiorare. «Ormai anche un livello minimo delle condizioni igienico-sanitarie è un miraggio» dice al manifesto «la disponibilità di gabinetti e docce è minima rispetto al numero delle persone. A pagare sono soprattutto le donne senza più privacy in tendopoli con migliaia e migliaia di persone»

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ALL’ARENA. Bergoglio sferza i capi di Stato: «La pace si fa con le mani e gli occhi dei popoli coinvolti. Chiedete ai leader di ascoltarvi perché gli accordi nascano dalla realtà»
 Papa Francesco allo stadio Bentegodi foto di Filippo Venezia/Ansa Papa Francesco allo stadio Bentegodi - foto di Filippo Venezia/Ansa

È stato un bagno di folla e un evento mediatico, ma con forti riflessi politico-ecclesiali, il viaggio del papa a Verona, in occasione dell’Arena di Pace 2024. L’incontro, presentato da Amadeus in un ennesimo corto circuito tra «sacro e profano», è stato solo il culmine di un processo di approfondimento, dialogo e confronto di numerose realtà ecclesiali su Migrazioni; Ecologia integrale e stili di vita; Lavoro, economia e finanza; Diritti e democrazia; Disarmo. E un modo per misurare la forza e il radicamento che la Chiesa può ancora mostrare su temi che in modo inedito la vedono ormai molto distante sia dai governi che da parte dell’opinione pubblica occidentale. La guerra in Ucraina e a Gaza ne sono stati esempi particolarmente dirompenti, come già in precedenza il tema dei migranti.

Sotto papa Francesco – ma il processo era cominciato già da prima di lui – il rapporto tra il pontificato e l’opinione pubblica laica e cattolica è molto cambiato. Dopo secoli in cui il papa è stato percepito come una figura ieratica e distante, si è passati in pochi decenni da Pio XII che si faceva riprendere solo dopo aver attentamente studiato ogni gesto o parola, a Francesco, che risponde in diretta a domande di ogni tipo e parla a braccio anche della sua vita privata. Questo processo di «umanizzazione», già intrapreso Wojtyla, Bergoglio lo ha particolarmente accentuato; e oltre che omologare definitivamente la Chiesa a una dimensione «pop» cui era (forse) ormai impossibile sottrarsi, l’attuale pontefice ha però veicolato anche contenuti sociali e messaggi politici, specie legati al tema della giustizia, della pace e del disarmo. Anche il programma della visita del papa è stato intensissimo. Decollato dall’eliporto del Vaticano, Bergoglio di buon mattino è atterrato nel piazzale adiacente allo Stadio Bentegodi. Di lì in auto alla Basilica di San Zeno, dove ha incontrato in chiesa preti e consacrati e, in piazza, bambini e ragazzi. Quindi il trasferimento all’Arena per presiedere l’Incontro «Arena di Pace – Giustizia e Pace si baceranno». Il papa è arrivato mentre don Luigi Ciotti parlava di no alla guerra e alle armi. E sul palco ha ricevuto la bandiera della pace dal missionario comboniano padre Alex Zanotelli, una vita spesa a difesa degli ultimi e tra i massimi riferimenti della Chiesa progressista.

Verona, Maoz Inon e Aziz Sarah foto di Emanuele Pennacchio/Ansa
Verona, Maoz Inon e Aziz Sarah foto di Emanuele Pennacchio/Ansa

Bergoglio ha poi risposto ad alcune domande poste dagli operatori e dai rappresentanti dei movimenti popolari presenti. Il tono è sempre quello che mescola il senso comune a uno sguardo in parte tradizionale e in parte progressista sull’attualità contemporanea, specie su guerre e diritti. Come in questo passaggio: «La cultura fortemente marcata dall’individualismo rischia sempre di far sparire la dimensione della comunità, dei legami vitali che ci sostengono e ci fanno avanzare. E questa in termini politici è la radice delle dittature. E inevitabilmente produce delle conseguenze anche sul modo in cui si intende l’autorità». Chi ricopre un ruolo di responsabilità rischia così «di sentirsi investito del compito di salvare gli altri come se fosse un eroe. Questo avvelena l’autorità». L’intervento del papa è stato tutto segnato dal no alla guerra e dal sì alla comunità: «Sono sempre più convinto che il futuro dell’umanità non è solo nelle mani dei grandi leader, delle grandi potenze e delle élite. È soprattutto nelle mani dei popoli. Voi, però, tessitrici e tessitori di dialogo in Terra Santa, chiedete ai leader mondiali di ascoltare la vostra voce, di coinvolgervi nei processi negoziali, perché gli accordi nascano dalla realtà e non da ideologie. La pace si fa con i piedi, le mani e gli occhi dei popoli». Il papa ha stretto a sé in un abbraccio l’israeliano Maoz Inon, al quale sono stati uccisi i genitori da Hamas il 7 ottobre, e il palestinese Aziz Sairah, al quale l’esercito israeliano ha ucciso il fratello; i due, ora amici e collaboratori, sono stati salutati dall’arena con una standing ovation.

Dopo l’Arena, il papa ha raggiunto la Casa Circondariale di Montorio, per un incontro con gli i detenuti, gli agenti di Polizia Penitenziaria, gli operatori e volontari. «Conosciamo la situazione delle carceri, spesso sovraffollate, con conseguenti tensioni e fatiche. Vi sono vicino e rinnovo l’appello affinché si continui a lavorare per il miglioramento della vita carceraria», ha detto il papa, che con i detenuti ha anche pranzato, per poi recarsi in auto allo stadio per la messa di Pentecoste coi giovani

 
 
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GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO L’OMOTRANSFOBIA. Il documento proposto a Bruxelles in occasione della Giornata internazionale contro l’omotransfobia. Meloni sul fronte orbaniano. Roccella rivendica: «Non firmiamo e non lo faremo perché promuove il gender»

 Manifestazione contro l'omotransfobia - LaPresse

«Dal 17 maggio 2023 a oggi gli organi di informazione hanno riportato 149 casi di violenze o discriminazioni generate dall’odio verso le persone Lgbtqi+». In occasione della Giornata Internazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, l’Arcigay fa il punto sui crimini d’odio. Mentre, secondo un sondaggio condotto dall’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Ue, in Italia il 18% della popolazione Lgbtqia+ dichiara di aver subito tentativi di «conversione» o «guarigione» dall’omosessualità. In un caso su 5 questo tipo di violenza avverrebbe in famiglia.

EPPURE, L’ITALIA È UNO dei 9 Stati sui 27 dell’Ue (insieme a Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Lituania, Lettonia, Rep. Ceca e Slovacchia) a non aver firmato la dichiarazione per la promozione delle politiche europee a favore delle comunità Lgbtiq+ presentata dalla presidenza di turno belga. I diciotto Stati che invece hanno firmato la dichiarazione proposta come testo conclusivo di una conferenza di alto livello organizzata a Bruxelles in occasione dell’Idahot, la Giornata internazionale contro l’omotransfobia, si impegnano ad attuare le strategie nazionali Lgbitq e a sostenere la nomina di un nuovo Commissario per l’Uguaglianza quando sarà formata la prossima Commissione. La quale viene invitata a perseguire e attuare una nuova strategia per migliorare i diritti delle persone Lgbtiq+ durante la prossima legislatura, stanziando risorse sufficienti e collaborando con la società civile.

MALGRADO LA DECISIONE sia stata presa qualche giorno fa, la notizia emersa ieri ha sollevato la rivolta di tutte le opposizioni contro il «modello culturale orbaniano» del governo Meloni. E pensare che proprio il presidente Mattarella aveva sottolineato ieri mattina che il Paese «non è immune da episodi di omotransfobia» e che sono evidenti «lacerazioni alla convivenza democratica». «Non è possibile accettare di rassegnarsi alla brutalità», aveva ammonito il capo dello Stato invitando le istituzioni a impegnarsi «per una società inclusiva e rispettosa delle identità». L’esortazione di Mattarella ha sortito la reazione – protocollare e subdola – della premier Meloni: «Discriminazioni e violenze inaccettabili, che ledono la dignità delle persone e sulle quali i riflettori non devono mai spegnersi. Anche su questo fronte, il Governo è, e sarà, sempre in prima linea», ha detto senza il minimo accenno di autoironia.

Prontamente smentita, tra l’altro, dalla ministra della Famiglia e delle Pari opportunità, Eugenia Roccella, che ha rivendicato la mancata firma sulla dichiarazione Ue accusando la sinistra di usare «la sacrosanta lotta contro le discriminazioni legate all’orientamento sessuale come foglia di fico per nascondere il suo vero obiettivo, e cioè il gender». «Noi – ha aggiunto – siamo molto chiari: il nostro governo ha firmato la dichiarazione europea contro omofobia, bifobia e transfobia. Non abbiamo invece firmato e non firmeremo nulla che riguardi la negazione dell’identità maschile e femminile, che tante ingiustizie ha già prodotto nel mondo in particolare ai danni delle donne».

IN SOSTANZA, come riassume Gaynet, «dopo un comunicato di facciata per la giornata contro l’omolesbotransfobia, il governo italiano e la ministra Roccella si scagliano contro la dichiarazione proposta dalla presidenza belga del consiglio Ue». E la sinistra c’entra poco, stavolta, se perfino la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si è così espressa su X: «Riaffermiamo il nostro impegno per un’Europa in cui tutti siano liberi di amare e vivere senza paura. Dove puoi semplicemente essere te stesso. Oggi e ogni giorno sono orgogliosa di sostenere la comunità Lgbtiq+»

 

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