C’è uno spettro che si aggira nell’anfiteatro strapieno dove Lucie Castets sta per intervenire davanti al popolo insoumis per la prima volta da candidata del Nuovo fronte popolare (Nfp): davvero Jean-Luc Mélenchon è disposto a sostenere un governo delle sinistre senza la partecipazione diretta della sua forza politica?
Un paio d’ore prima – a pochi metri da qui sempre nell’ambito di Amfis, l’università estiva del partito – il «tribuno» è andato in diretta tv su Tf1 e ha lanciato una sfida a macronisti e destra. Ha chiesto loro se si impegnerebbero a non votare la sfiducia di un esecutivo guidato da Castets senza ministri della France Insoumise (Lfi), permettendo così di applicare il programma del Nfp.
La dichiarazione è stata immediatamente rilanciata dagli altri leader della coalizione – Olivier Faure per i socialisti, Marine Tondellier per i verdi e Fabien Roussel per i comunisti – che hanno attaccato il campo presidenziale: il pretesto della presenza degli insoumis non c’è più, attendiamo la risposta di chi vuole sbarrare a ogni costo la strada al Nfp, Macron è davanti alle sue responsabilità. Le parole di Mélenchon hanno colto di sorpresa molti dirigenti e militanti insoumis, che infatti hanno espresso opinioni divergenti sulla proposta.
IL DUBBIO SE SIA una mossa per far scoprire le carte agli avversari o un’offerta concreta resta. Non viene chiarito neanche durante l’evento con Castets: con maestria la questione è nominata ma senza approfondirla. A condurre c’è Manon Aubry, eurodeputata Lfi e presidente del gruppo della Sinistra europea a Strasburgo. Vestita rosso fuoco, si comporta da mattatrice: per la determinazione con cui mette i concetti sul tavolo, anche quelli controversi, ma soprattutto per il modo di coinvolgere la platea.
Questo non è solo un comizio di Castets, è il modo di saldare un legame tra la candidata del Fronte e gli insoumis. Da un lato facendo conoscere meglio l’attuale direttrice delle finanze del Comune di Parigi ai militanti: vengo da una famiglia di sinistra ma «non tutta di funzionari statali», dice lei. «Da piccola volevo fare il pompiere, non conoscevo Sciences Politiques, né l’École nationale d’administration», aggiunge quasi a giustificare di aver seguito il percorso formativo della classe dirigente francese.
Dall’altro lato, però, l’evento serve anche a vincolare Castets a un patto di fiducia con la base della sinistra radicale. Facendole sentire il calore di cui è capace, quando Aubry invita il pubblico ad alzarsi e scandire il suo nome, e chiamandola a rispondere a una delle domande anonime che arrivano su dei foglietti di carta, non si sa quanto casualmente, che dice: «Possiamo contare su di te?». La risposta è scontata.
MENO SCONTATA è la nettezza con cui Castets racconta di aver affrontato il presidente della Repubblica Macron nell’incontro con i partiti dell’altro ieri. «Gli ho ricordato che 34 dei suoi deputati sono stati eletti grazie alla desistenza nei collegi del Nfp. Gli ho detto che il nostro metodo è la fedeltà al programma con cui ci siamo presentati agli elettori. Gli ho spiegato che il suo disprezzo brutale verso l’esito del voto, il parlamento e i corpi intermedi fa il gioco dell’estrema destra». Piovono applausi.
Castets dice chiaramente che non esistono ipotesi di coalizioni di governo più larghe del Nfp: sinistra, centro e destra non sono uguali; vogliamo ristabilire la «divisione ideologica» tra gli schieramenti perché abbiamo obiettivi diversi. Parla di quella «divisione» che in altri paesi si è persa con i governi tecnici, di grande coalizione o con l’adesione del centro-sinistra all’agenda neoliberale. La candidata promette che l’allargamento alle altre forze politiche sarà cercato sui temi, sulle proposte di legge. «Chi non vuole il ritiro della riforma delle pensioni? Chi non è d’accordo ad aumentare i salari di infermieri e insegnanti? Chi è contrario a tassare i super ricchi? Vogliamo chiederlo ai parlamentari. Qualcuno voterà con noi, gli altri ne risponderanno davanti agli elettori».
È questo il cuore della strategia del Fronte per governare in minoranza: scoprire le carte degli avversari su provvedimenti che hanno un consenso sociale molto ampio. Il «programma di rottura» è anche lo strumento con cui contano di togliere terreno all’estrema destra. Ed è quello che le altre forze politiche non possono accettare.
Il primo a rispondere a Mélenchon è Bruno Retailleau, capo dei senatori dei Repubblicani, che dichiara: «Per noi è no ai ministri Lfi e no a un programma ispirato da Lfi». Nel campo macronista, per ora, tutto tace. «Rifiuteranno, noi siamo il pretesto, il loro problema è il programma», dichiara l’importante deputato insoumis Éric Coquerel che, interrogato dal manifesto, non chiarisce cosa farebbe il suo partito se il campo presidenziale accettasse davvero di non votare la sfiducia a un governo senza melenchoniani.
INTANTO LA MOSSA del leader della sinistra radicale è quasi uno scacco matto per le correnti minoritarie del Partito socialista che vorrebbero rompere il Fronte e allearsi con il centro: farlo adesso significherebbe tradire esplicitamente il programma, senza scuse sulla presunta «irresponsabilità» della France insoumise
«Avevo i capelli lunghi e bellissimi. Mi piaceva pettinarli ogni giorno prima di andare a scuola, ero la più brava ad acconciarli, in tanti modi diversi». Sama Tabil ha otto anni e vive in una tenda a Gaza.
I SUOI FOLTI capelli neri non ci sono più: li ha persi per lo choc, il terrore di morire e la fuga tra cadaveri e sangue. Un bombardamento israeliano ha centrato l’accampamento in cui la famiglia si era rifugiata a Rafah. Sembrava non finire mai, dice Sama.
Nei giorni successivi i capelli hanno iniziato a cadere. Il trauma perdurante vissuto dai bambini di Gaza è difficile da capire, lo si può solo immaginare. Ieri l’Unicef ha aggiornato il numero dei minori rimasti completamente soli, senza più familiari sopravvissuti: sono 19mila. Sedicimila, almeno, sono quelli uccisi.
C’erano dei bambini anche nella casa della famiglia Kalakh, colpita da un raid israeliano a Khan Younis. Era rimasta in piedi per dieci mesi. Le vittime sono undici, i feriti quindici. Ieri, nelle poche ore che separano l’alba e la tarda mattinata, a Gaza erano stati ammazzati già trenta palestinesi, a Khan Younis, Abu Areef, Nuseirat, Bureij, Deir al-Balah.
Nelle 24 ore precedenti ne erano stati uccisi 69. Dal 7 ottobre sono 40.334 i morti accertati, a cui si aggiungono 93.400 feriti e 10mila dispersi (un numero che sale e scende, via via che nuovi cadaveri vengono identificati e che altri scompaiono sotto le macerie).
A DEIR AL-BALAH, intanto, prosegue la nuova avanzata via terra dell’esercito israeliano: bombardamenti e ordini di evacuazione comunicati dall’account X del portavoce dell’esercito Avichay Adraee. Secondo i dati resi noti dall’Onu, nelle ultime 48 ore da Deir al-Balah sono fuggite 100mila persone.
Il territorio di Gaza che non è sotto ordine israeliano di evacuazione è un fazzoletto: appena il 15% della Striscia a disposizione, e non è detto che sia sinonimo di sicurezza.
«Ogni pezzo di terra intorno a Deir al-Balah è pieno di gente – riporta il giornalista di al Jazeera Hani Mahmoud – Gli ordini generano il panico…Il timore è che il numero di aree che possono diventare target dell’esercito israeliano aumentino ancora. Sempre più isolati sono parti della “zona rossa” e alla gente non viene dato abbastanza tempo per scappare…Il cielo della città è pieno di quadricotteri, droni di sorveglianza, caccia».
Ordini simili anche per Hamad, a sud, a Khan Younis. Secondo i dati raccolti dall’Ap, in un mese – dal 22 luglio a ieri – le autorità militari hanno emesso tredici ordini di evacuazione, un
Leggi tutto: Gaza tra stragi e fughe. Hamas va al Cairo - di Chiara Cruciati
Commenta (0 Commenti)Diritti. Il leghista Crippa contro gli alleati: «Appoggiano i programmi dei comunisti». Guerra sui vecchi video di Berlusconi, gelo di Fdi. Magi: «Meglio puntare sul referendum»
Matteo Salvini e Antonio Tajani - Ansa
Video di Berlusconi a favore dello ius scholae pubblicati dai forzisti contro i video dello stesso Cavaliere contro la riforma della cittadinanza postati dai leghisti. Valanghe di comunicati dei due partiti presunti alleati l’un contro l’altro armati.
SE DI MEZZO NON CI FOSSE un tema molto serio, la cittadinanza per i minori figli di immigrati, ci si potrebbe divertire osservando questa rissa estiva nel centrodestra. Con gli uomini di Tajani pronti a scovare negli archivi frammenti di buon senso del programma del centrodestra 2022 come l’impegno a «favorire l’inclusione sociale e lavorativa degli immigrati regolari. Quanto al defunto Berlusconi, dicono i suoi eredi, «lui era favorevole a concedere la cittadinanza ai figli di stranieri nati in Italia che avessero completato la scuola dell’obbligo». E arriva il video postato su X con il “vero” Cavaliere.
UN CRESCENDO di polemiche con la Lega che spinge il vicesegretario Andrea Crippa, ombra di Salvini, a chiedersi: «Gli elettori hanno votato Tajani e i suoi per governare con il centrodestra unito o per portare avanti i programmi del Pd e dei comunisti?». Più prudente il capogruppo di Fdi Tommaso Foti, che dà voce alle inquietudini di Meloni sull’impazzimento estivo degli azzurri: «È legittimo che un partito possa sottolineare una proposta che non è nel programma elettorale della maggioranza, né di FdI, né della Lega e nemmeno di FI, ma davvero è così urgente questa riforma?».
DOMANDA LECITA, a cui la premier ancora non ha trovato risposte. Il ministro cognato Francesco Lollobrigida entra nella partita a suo modo: «Durante l’Impero romano non si diventava cittadini romani d’emblée, ma per amore, per quello che rappresentava Roma all’epoca», la premessa per dire che le regole attuali vanno più che bene. E aggiunge: «Anche chi non crede deve sapere che il cristianesimo è alla base di quello che noi siamo». Anche il moderato governatore Zaia segue la linea leghista: «Noi siamo per lo ius sanguiinis: se sei discendente di cittadini italiani, sei italiano. Perché la cittadinanza va meritata, non è un pezzo di carta che non vale niente». «Non penso che lo ius scholae serva ad integrare», gli fa eco il collega Massimiliano Fedriga.
MENTRE LA LEGA con Massimiliano Romeo evoca il rischio di «minare seriamente la stabilità del governo», da Forza Italia si sbracciano a rassicurare che nessuno, tra loro, medita di sgambettare Meloni. «Non c’è e non ci sarà alcuna instabilità. L’esecutivo è solidissimo e gode di ottima salute», assicura il portavoce di Fi Raffaele Nevi, ricordando però che il suo partito «esprimerà le sue idee e si confronterà con gli alleati e nelle aule parlamentari. Nessuno si senta offeso. E soprattutto nessuno offenda a sproposito». La minisrtra dell’università di Fi Anna Meria Bernini rincara: «Noi abbiamo tanto ascoltato e quindi adesso siamo felici di poter essere ascoltati su un tema che per noi è sempre stato cruciale».
LE OPPOSIZIONI NON STANNO a guardare. Il ruolo dell’incursore se lo prende Stefano Bonaccini:«Ho molto apprezzato le parole di Tajani», dice dal Meeting di Rimini. «Se Fi vorrà fare sul serio, come spero, ci può essere una maggioranza persino parlamentare, trasversale che sul tema dello ius scholae può trovare una ragione per trovarsi d’accordo. Se quelle parole sono un’apertura vera, ci si mette a sedere e noi del Pd siamo pronti a discutere immediatamente». Guai però se qualcuno volesse fare dei «tatticismi sulla pelle di bambini e bambine, che nascono qui e non possono mai sentirsi italiani».
Prudente Riccardo Magi di + Europa: «Non credo che Forza Italia sia pronta a votare insieme alle opposizioni una vera riforma della cittadinanza. C’è solo un modo per cambiare le cose ed è il referendum su cui stiamo lavorando». «Chiederemo la calendarizzazione della mia proposta di legge», dice Vittoria Baldino dei 5S. «Se l’apertura di Fi non è balneare o opportunistica, i numeri per approvarla ci sono»
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Archiviate le Olimpiadi, a Parigi partono finalmente le consultazioni per formare il nuovo governo. Macron è deciso a sbarrare la strada a la France insoumise e prova a spaccare il Fronte popolare. Pretende quella «maggioranza assoluta» che i suoi hanno già perso
Vedo rosso. Si alza la diga contro il Nfp. La coalizione del presidente, Ensemble, pronta a votare la sfiducia a un governo con ministri insoumis
Lucie Castets con Manuel Bompard, Marine Tondelier e Olivier Faure arrivano all’Eliseo foto Ansa
Un governo con dei ministri della France Insoumise sarebbe vittima di una «censura immediata»: così si sono espressi i principali leader della coalizione macronista, in conclusione della prima giornata di colloqui voluti da Emmanuel Macron con le forze politiche, in vista della formazione del nuovo governo.
LA CRISI ISTITUZIONALE avviatasi dopo lo scioglimento dell’Assemblée Nationale voluto a giugno da Macron, sembra quindi ben lontana dall’essere risolta. Le legislative di luglio hanno sancito la vittoria del Nfp, arrivato in testa ma ben al di sotto di una maggioranza assoluta in parlamento. La coalizione macronista, dal canto suo, ha perso quasi 80 deputati rispetto allo scrutinio del 2022, che pure era stato considerato disastroso: Macron aveva perso la maggioranza assoluta in parlamento.
Con una Camera tripartita tra il Nfp (maggioranza relativa), Ensemble (la coalizione di Macron) e l’estrema destra del Rassemblement National, il presidente della Repubblica ha inizialmente affermato che «nessuno ha vinto» le elezioni, prima di imporre un’unilaterale «tregua olimpica». Finora, Macron ha fatto orecchie da mercante agli inviti dei leader della sinistra francese di nominare la prima ministra proposta dal Nfp, Lucie Castets.
Dopo aver ricevuto i rappresentanti della sinistra guidati da Castets, è stato il turno dei leader di Ensemble e dei Républicains, cioè i gollisti di destra che hanno rifiutato di unirsi all’avventura di Éric Ciotti, ormai alleato di Marine Le Pen. Secondo quanto riportato dall’Agence France-Presse, davanti ai «suoi» il presidente della Repubblica ha sostenuto che il risultato delle legislative «non è una smentita completa» del proprio campo politico. Per questo, ha detto, l’obiettivo è la ricerca di una «soluzione istituzionalmente stabile», ovvero una che permetta la creazione di «un governo stabile e sicuro».
Castets su pensioni e salario minimo: «Guai a rinnegare le promesse fatte»
Immediatamente, il primo ministro dimissionario Gabriel Attal ha riecheggiato le parole di Macron in un messaggio ai deputati di Ensemble, pubblicato dai media francesi. Secondo Attal, la volontà dell’inquilino dell’Eliseo «è quella di far emergere una
Commenta (0 Commenti)Francia. Al via le consultazioni. Il presidente chiede la maggioranza più vasta possibile. Lettera del Fronte popolare: basta manovre, tocca a noi
Incominciano oggi le tanto attese consultazioni che il presidente della Repubblica Emmanuel Macron terrà con le varie forze politiche francesi. Dopo aver sciolto l’Assemblée Nationale a giugno, il partito di Macron è uscito con le ossa rotte dalle legislative di luglio, che hanno invece consacrato come prima forza politica del paese la coalizione delle sinistre del Nuovo Fronte Popolare.
Tuttavia, nessuna delle coalizioni parlamentari ha i numeri per una maggioranza assoluta. D’altronde, tale maggioranza manca dalle legislative del 2022: per due anni, infatti, Macron ha governato in minoranza, prima del crollo verticale delle ultime elezioni.
DOPO SETTIMANE di discussioni, i partiti del Nfp (France insoumise, Partito socialista, Ecologisti e Partito comunista francese) si sono messi d’accordo sul nome di una candidata premier: Lucie Castets, ex-funzionaria del Tesoro e attivista di lungo corso per i servizi pubblici. Ma l’opzione di un governo di minoranza di sinistra, finora, è stata completamente ignorata dall’Eliseo, malgrado il fatto che il Nfp abbia vinto le elezioni.
Urge qui sottolineare come i meccanismi della V Repubblica siano profondamente diversi da quelli di altre democrazie parlamentari. La nomina del primo ministro (o della prima ministra) spetta al presidente della Repubblica, senza alcun contrappeso formale. L’unico limite, sostanziale, è il fatto che l’Assemblée Nationale può votare una mozione di sfiducia. Tale mozione non è «automatica» alla presentazione di un nuovo governo, ma richiede l’iniziativa dei parlamentari.
Questo concederebbe a un eventuale governo di minoranza spazio di manovra per cercare di convincere altri gruppi a votare alcuni progetti di legge sui quali potrebbero prodursi delle maggioranze, caso per caso.
TALE È IL PROGETTO dei leader del Nfp, che ieri hanno pubblicato una lettera agli elettori e alle elettrici nella quale rivendicano il diritto di provare a formare un governo, in barba alle manovre della compagine macronista.
«Siamo convinti che possiamo migliorare concretamente e rapidamente il tenore di vita dei francesi», si legge nel comunicato firmato dai leader dei partiti e da Lucie Castets, che si dicono altrettanto convinti del fatto che «l’assenza di maggioranza assoluta non ci impedirà» di attuare alcuni punti fondamentali del programma, come l’abrogazione della riforma delle pensioni di Macron, l’aumento del salario minimo, il rifinanziamento dei servizi pubblici. Temi sui quali, secondo il Nfp, «tutti i parlamentari dovranno rendere conto dei propri voti davanti ai cittadini e alle cittadine». Dichiarazione meno retorica di quanto può apparire a prima vista: tra un anno, infatti, è molto probabile che si voti di nuovo.
IL NFP SARÀ LA PRIMA compagine a essere ricevuta da Macron, che chiuderà le consultazioni lunedì. L’Eliseo ha fatto sapere ieri che l’obiettivo è «comprendere in quali condizioni le forze politiche possono ottenere» una maggioranza più vasta possibile. È a partire da queste considerazioni che Macron deciderà chi nominare come premier.
A corredo del comunicato ufficiale dell’Eliseo, la presidenza ha fatto sapere all’Agence France-Presse che è particolarmente apprezzato «il lavoro di fondo svolto dalla destra repubblicana», cioè quel che resta della destra gollista dei Républicains, con «il blocco centrale», ovvero la coalizione macronista. Le medesime fonti hanno detto all’Afp che non sono disdegnate le manovre tentate dall’attuale primo ministro (dimissionario) Gabriel Attal, che nei giorni scorsi aveva invocato la creazione di una grande coalizione che escludesse il Rassemblement National di Marine Le Pen e La France Insoumise di Jean Luc Mélenchon. Un progetto che non ha raccolto alcun consenso nel Ps, a parte una minoranza conservatrice del partito più Raphael Glucksmann, capolista alle europee, ma il cui partitino conta un unico deputato in parlamento
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Diritti. La premier osserva in silenzio l’escalation di Forza Italia sullo ius scholae. Sono Marina e Pier Silvio a spingere Tajani alla battaglia. Fino a dove vogliono arrivare?
La premier Meloni con i figli diBerlusconi - Ansa
Altro che la falsa indagine contro Arianna Meloni spacciata dal Giornale. A tormentare gli ultimi giorni di ferie di Giorgia Meloni, a farle temere per il futuro del suo governo c’è un altro pensiero: quei pericolosi bolscevichi dei figli di Berlusconi, Marina e Piersilvio. La premier pensa, a ragione, che siano stati loro a tirare il mite Tajani per la giacca e a spingere il ministro degli Esteri, già alle prese con due guerre, alla campagna d’estate sullo ius scholae, la cittadinanza per i minori immigrati, tema che a destra è come la criptonite.
All’inizio erano solo mezze dichiarazioni nel pieno del clima olimpico, con le vittorie degli atleti italiani con la pelle nera. Poi la cosa si è fatta più seria, fino al crescendo di ieri al Meeting di Rimini, con Tajani che, come trasfigurato, tira fuori il petto e dice «non accetterò imposizioni». Per chi mastica un po’ di politica è chiaro si tratta di uno scarto, nei toni soprattutto, che non ha precedenti in queste legislatura, fatta salva sola la proposta dello scorso anno sugli extraprofitti delle banche che fu ritirata proprio per il fuoco di sbarramento dei forzisti. E del resto i Berlusconi hanno una banca e quando gli tocchi la roba quelli s’infuriano come il papà.
Stavolta però non c’è in campo nessun affare di famiglia, e allora la cosa si complica. Anche perché Salvini, sempre più condizionato da Vannacci, che nel famigerato libro se la prendeva con la pallavolista Paola Egonu accusandola di scarsa italianità, non può certo indietreggiare nella sua guerra contro gli immigrati. E così la tensione sale, su un tema che finora era rimasto fuori dai radar di Meloni e della maggioranza.
E allora la domanda che tutti si fanno nel cerchio magico della premier è: «Dove vuole arrivare Tajani?». Il timore è che stia preparando lo strappo, lo sganciamento dai sovranisti, dandosi una verniciata liberale e turbo europeista. Ma per andare dove? Qui le ipotesi si fanno fantapolitica, perché è chiaro che un voto di Fi con le opposizioni sullo ius scholae segnerebbe uno strappo difficilmente recuperabile. Se Pd e alleati in autunno porteranno la legge in aula si vedrà se è un bluff o meno. In pochi credono, a sinistra, che Tajani andrà fino in fondo.
E tuttavia queste campagne di consapevole logoramento, spesso in passato hanno dato frutti amari per i governi: Fini nel 2010 sulla giustizia contro Berlusconi, Renzi contro Conte sul Mes nel 2020. Sabotaggi studiati e di successo che hanno portato a governi di larghe intese, prima Monti e poi Draghi. Governi certamente apprezzati da poteri forti e establishment italiani ed europei che Meloni teme come vampiri, e che ha spesso evocato come interessati a farle lo sgambetto.
Il contesto attuale non fa pensare a scenari di questo tipo: il debito pubblico è da record, ma lo spread non suscita allarmi. E le opposizioni, in primis il Pd di Schlein, hanno fatto capire chiaramente che stavolta se il governo cade si torna a votare: niente larghe intese. Schlein ne ha fatto un punto d’orgoglio, uno dei capisaldi della sua campagna per la leadership del Pd: «Con me niente governi tecnici».
E tuttavia in casa Meloni la pazza estate di Tajani non fa dormire sonni tranquilli. Troppo alti i toni, troppo strumentale il tema, visto che non c’è nessuna emergenza legata alla cittadinanza e che negli anni scorsi anche la sinistra non è mai arrivata a punto su una riforma a favore dei giovani immigrati.
Le opposizioni, in ogni caso, si preparano a vedere le carte: a settembre sarà chiesta la calendarizzazione in aula di una mozione del Pd che chiede una «riforma della legge sulla cittadinanza», indicando lo ius soli ma aperta anche a soluzioni più light come lo ius scholae. «Siamo pronto a confrontarci con tutti per arrivare a un risultato», fa sapere il responsabile Immigrazione del Pd Pierfrancesco Majorino.
In casa dem sono consapevoli che quella di Tajani è soprattutto una «mossa di posizionamento politico», per parlare a un elettorato moderato, cattolico e lontano dalla destra estrema. E tuttavia anche loro sono stupiti dai toni del titolare della Farnesina. Nessuno pensa realmente che i figli di Berlusconi vogliano mandare a casa Meloni. Anche perché sarebbero pochi i parlamentari di Forza Italia pronti a perdere il potere senza una concreta prospettiva di conservare il posto.
Resta il fatto che Meloni è preoccupata. Sul tema ha detto il meno possibile, mandando i suoi a spiegare che «non è la priorità». Poco conta che la stessa premier due anni fa avesse sposato la proposta di dare la cittadinanza al termine della scuola dell’obbligo. Oggi la priorità è non farsi scavalcare a destra da Salvini e Vannacci. E soprattutto fermare l’operazione dei fratelli Berlusconi. L’incubo è iniziato a fine giugno con l’intervista di Marina al Corriere, in cui la primogenita si diceva «più in sintonia con la sinistra sui diritti». Da lì è partita la slavina
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