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Il rimpasto si chiama «perezavantazhennia»: dal governo dell’Ucraina si dimettono 5 ministri, vari boiardi e chissà chi altro ancora. Come l’incursione nel Kursk, è una fuga in avanti: pochi se ne andranno davvero. La guerra continua, senza sbocchi. E Zelensky con lei

Il gattopardo. Dopo giorni di indiscrezioni pubblicata la lista dei nuovi ministri, poche le reali novità. Continuano gli attacchi russi sulle città ucraine: a Poltava i morti sono arrivati a 53 e ieri a Leopoli ci sono state 7 vittime. I russi avanzano in direzione di Pokrovsk

Il rimpasto che non c’è. Kiev cambia i ruoli ma restano tutti Volodymyr Zelenskyy alla presentazione degli F16 ucraini - foto Ap

«Perezavantazhennia vlady» lo chiamano in ucraino. La prima parola significa «ricomposizione, reset» è la stessa che si usa quando si riavvia il telefono o il computer, oppure quando si vuole far ripartire qualcosa da zero. La seconda si riferisce al «potere» e dalla combinazione delle due si capisce chiaramente che l’apparato comunicativo di Volodymyr Zelensky ha scelto come concetto chiave non il «rimpasto di governo» ma il «nuovo inizio».

EPPURE qualcosa scricchiola in questa scelta lessicale, se si considera che ben 5 alti funzionari ucraini hanno rassegnato le proprie dimissioni ma non sono stati allontanati dal governo, anzi sono stati riassegnati ad altri incarichi, nello stesso esecutivo. Si tratta di Oleksandr Kamyshin, ministro responsabile della supervisione di armi per la guerra, Ruslan Strilets, ministro dell’Ambiente, Denys Maliuska, ministro della Giustizia, Olga Stefanishina, vicepremier ucraina per l’integrazione europea ed euro-atlantica e Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri. Inoltre, il capo del Fondo statale nazionale, Vitaly Koval, ha annunciato che prossimamente lascerà l’incarico. Cinque figure di primo piano nel giro di 24 ore e chissà quante altre in arrivo. È il famoso rimpasto annunciato – un po’ minacciato – dal presidente Zelensky in primavera che ora sta prendendo forma. Ma si preannuncia più mediatico che reale.

Secondo le prime indiscrezioni, i funzionari che hanno già consegnato la lettera di dimissioni, sarebbero stati iscritti a una lista di ministri e alti dirigenti che il governo di Kiev intende sostituire con figure, per usare le parole di David Arakhamia segretario del partito del presidente (Servitore del popolo), «più adeguate alle mansioni richieste dal governo». Secondo Arakhamia il rimpasto non è affatto finito e riguarderà quasi la metà dell’esecutivo, ma intanto il

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Veni vidi Vichy. Ieri nuovo giro a vuoto delle consultazioni. La France Insoumise deposita la richiesta di destituzione del presidente della Repubblica

I verdi francesi: «Macron vuole un governo di destra con l’assenso di Le Pen» Marine Tondelier, segretaria ecologista - Ansa

«Macron intende appoggiarsi sulla destra dell’arco politico, con la compiacenza del Rassemblement National». Lo ha detto ieri, in un video-selfie girato dopo il colloquio con il presidente della Repubblica francese, Marine Tondelier, la segretaria degli Ecologisti, uno dei quattro partiti del Nuovo fronte popolare (Nfp). Tondelier si è detta «preoccupata» perché si tratterebbe di un governo che ha l’obiettivo di escludere la sinistra, arrivata in testa alle legislative. «I nomi ventilati incarnano la volontà di continuare il macronismo», ha detto l’esponente verde, non nascondendo la delusione per la rapidità con la quale l’inquilino dell’Eliseo ha archiviato il «fronte repubblicano» per virare prontamente a destra una volta chiuse le urne elettorali.

Le ormai interminabili «consultazioni» per la ricerca di un primo ministro che possa giustificare il rifiuto opposto da Macron alla candidata del Nfp, Lucie Castets, sono proseguite ieri con la convocazione del segretario socialista Olivier Faure e del presidente del gruppo parlamentare del Ps Boris Vallaud. Il partito guidato da Jean-Luc Mélenchon, La France Insoumise (Lfi), ha rifiutato di prendere parte a questo ennesimo round denunciando i tentativi di rompere la coalizione delle sinistre. Dal presidente ancora nessuna nomina ufficiale.

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Nei giorni scorsi il nome di Bernard Cazeneuve, ex-primo ministro di Hollande, sembrava agitare il microcosmo del giornalismo politico parigino. L’opposizione interna del Ps, contraria al Nfp e in particolare all’alleanza con gli insoumis, aveva chiesto a Faure di dichiarare la disponibilità a sostenere un governo di coalizione guidato, eventualmente, da Cazeneuve.

Nome che, tuttavia, è ritenuto irricevibile dalla France Insoumise, il partito principale del Nfp. Poprio ieri Lfi ha depositato la mozione per la destituzione del presidente. «Macron è stato battuto due volte alle elezioni – ha detto la capogruppo alla Camera Mathilde Panot in conferenza stampa – Eppure continua a impuntarsi. Se potesse nominare se stesso primo ministro lo farebbe».

La procedura – una specie di impeachment alla francese – sembra per ora estremamente difficile da concludere: richiede il voto dei due terzi di Camera e Senato riunite. Ma, assieme alla sfiducia promessa contro qualunque governo che non sia guidato da Castets, fa parte del trittico di azioni promosso in queste settimane dagli insoumis, con le manifestazioni del 7 settembre e lo sciopero del primo ottobre chiamato dalla Cgt

 

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Gli atti dei carabinieri. «Ne abbiamo richiesto l’intervento già a mezzanotte, non sono mai usciti»

Strage di Cutro, «la Capitaneria restia a operazioni Sar per l’approccio Salvini» Steccato di Cutro, dopo il naufragio foto di Francesco Arena/Ansa

Le 650 pagine dell’informativa finale dei carabinieri di Crotone scandiscono tempi e modi di una notte tragica attraverso le conversazioni tra gli operatori della Finanza e della Guardia costiera. Un quadro a tinte fosche emerge nelle carte dell’indagine della procura di Crotone che ha portato all’emissione da parte del sostituto procuratore Pasquale Festa di un avviso di conclusione indagini, premessa di una possibile richiesta di rinvio a giudizio, a carico di Giuseppe Grillo, capo turno della sala operativa del Comando provinciale di Vibo Valentia della Finanza e del Roan, il Reparto operativo aeronavale delle Fiamme Gialle; Alberto Lippolis, comandante del Roan di Vibo; Antonino Lopresti, ufficiale in comando e controllo tattico nel Roan; Nicolino Vardaro, comandante del gruppo aeronavale di Taranto, Francesca Perfido, ufficiale di ispezione in servizio nel Centro di coordinamento italiano di Soccorso di Roma e Nicola Nania, ufficiale di ispezione nel centro secondario di soccorso marittimo di Reggio.

Nei loro confronti vengono ipotizzati i reati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. La ponderosa relazione delinea le tante opacità della catena dei soccorsi (mancati) in occasione del naufragio di Cutro del 26 febbraio 2023. Trattasi delle prime impressioni che i vari ufficiali e sottufficiali si scambiano, sia su canali istituzionali sia su chat private. Tra le carte emergono le frizioni tra i due corpi su come muoversi in caso di avvistamenti di imbarcazioni. Un inquietante rimpallo di responsabilità in quelle interminabili 5 ore trascorse tra la prima segnalazione e lo schianto che trasformò la piccola cala di Steccato in un cimitero, con quasi 100 migranti morti (di cui 35 bambini) e un numero imprecisato di dispersi.

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Un dato è incontrovertibile. Quel caicco fu avvistato per tempo ed era carico di migranti. Ciò emerge sin dai primi momenti dopo la segnalazione. Il primo dispaccio è frutto di una triangolazione Le Castella-Varsavia-Pratica di mare. Sono le 23.03 del 25 febbraio e gli uffici polacchi di Frontex comunicano alla sala operativa dell’aeroporto militare romano l’avvistamento di un barcone intercettato alle 21.26, a circa 40 miglia dalla costa di Le Castella, dall’aereo Eagle 1, decollato dall’aeroporto di Lamezia qualche ora prima. «Una persona sul ponte superiore – possibili persone aggiuntive sottocoperta, giubbotti salvataggio non visibili, buona galleggiabilità, stato del mare 4. Portelli aperti a prua, significativa risposta termica dai boccaporti».

Da quel momento in poi è un florilegio di errori tecnici, di ordini in ritardo. Un vero plastico della inefficienza. Quella barca, intercettata dall’alto e subito identificata come barcone carico di migranti diretti in Italia, è la Summer of Love, il caicco di legno fradicio partito dalla Turchia 5 giorni prima. E che quel barcone malandato fosse carico di persone appare chiaro anche nelle chat private: «So’ migranti, poi vediamo…», scrive un minuto dopo la prima segnalazione uno degli indagati. Da allora è tutto uno scaricabarile sulle responsabilità dei corpi dello stato.

«Alla Capitaneria di porto l’abbiamo… ne abbiamo richiesto l’intervento già a mezzanotte, hanno dato disponibilità ma non sono mai usciti». È l’ufficiale vibonese Lippolis, a mettere nero su bianco queste parole, contenute nel messaggio che invia al collega tarantino Vardaro. «La Capitaneria non ha ritenuto di uscire però, insomma, abbiamo richiesto tutto eeh! Abbiamo fatto tutto quello che c’era da fare…», chiosa Lippolis nel messaggio che gli inquirenti acquisiscono perché fondamentale nella ricostruzione della catena di responsabilità in capo a chi avrebbe dovuto sorvegliare, proteggere. E che forse non lo ha fatto anche per motivi di indirizzo politico.

È quel che evidenzia l’escussione a sommarie informazioni di Alberto Catone, già comandante del Roan di Vibo: «Voglio precisare che quando sono arrivato in Calabria la Capitaneria di porto era molto restia a operare in mare in operazioni Sar laddove non c’era una situazione di conclamato pericolo. Questo aspetto dipendeva dall’approccio dell’allora ministro dell’Interno Salvini». Che ai tempi della strage era il ministro dei Trasporti, il referente delle capitanerie. Ministro dei Trasporti, Salvini, lo è tuttora. E per ora, stranamente, tace

 

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Il governo Meloni continua a sciorinare i dati record sull’occupazione ma Eurostat certifica ben altro: il reddito disponibile delle famiglie è in calo e l’Italia è fanalino di coda in Europa (Grecia a parte): dal 2008 persi 6 punti mentre la media Ue è aumentata di 10

Reddito di Esclusione. I dati Eurostat smentiscono la retorica dell’esecutivo Meloni: in calo nell’ultimo anno, dal 2008 solo la Grecia fa peggio di noi. Nel «Quadro di valutazione sociale» la confutazione dei successi su occupazione e calo della povertà

 I consumatori fanno molta attenzione ai prezzi nei supermercati - Foto LaPresse

«Record dell’occupazione», «calo della povertà». In questi mesi la gran cassa del governo Meloni continua a citare dati che delineano l’Italia come un eden in controtendenza con gli altri principali paesi europei. Ora arriva Eurostat – con i dati pubblicati nel “Quadro di valutazione sociale” che monitora il progresso sociale in tutta Europa – a confutare in gran parte questa narrazione. L’istituto statistico di comparazione europea mette nero su bianco numeri che certificano come il nostro paese sia in coda nel continente sia nell’ultimo anno che nell’ultimo decennio.

IL REDDITO DISPONIBILE REALE lordo delle famiglie nel 2023 diminuisce e si attesta oltre sei punti al di sotto di quello del 2008. Se nei 27 paesi dell’Unione – prendendo come riferimento il 2008, l’anno della grande crisi – la media dei redditi disponibili nell’ultimo anno sale da 110,12 a 110,82, in Italia cala da 94,15 a 93,74. Rispetto alla media europea, dunque, in Italia il reddito disponibile reale risulta inferiore di oltre 17 punti, a dimostrazione di come le condizioni economiche delle famiglie siano gravi e continuino a peggiore, nonostante gli annunci del governo.
Per quanto riguarda il reddito l’Italia rispetto al 2008 ha fatto meglio solo della Grecia – qui nel 2022 il reddito lordo disponibile era al 72,1 rispetto a quello del 2008 – mentre resta lontana dalla Germania con il 112,59 nel 2023. La Francia supera il 2008 – 108,75 nel 2022 – mentre la Spagna è ancora indietro (95,85) ma è in fortissima ripresa.

«I DATI EUROSTAT confermano che il miglioramento degli indici del mercato del lavoro non rappresenta di per sé una buona notizia se non affiancato da qualità e stabilità dei rapporti di lavoro: l’occupazione è uno strumento di protezione dal rischio di povertà solo quando il lavoro è stabile, tutelato, sicuro e dignitoso. Per noi le priorità restano il contrasto ad ogni forma di precarietà, sfruttamento e illegalità nel lavoro e l’aumento delle retribuzioni – commenta la segretaria confederale della Cgil Maria Grazia Gabrielli – . Le condizioni di discontinuità e povertà della condizione del lavoro, dovute ad esempio a part-time, appalti e subappalti, che si riscontrano in molti settori pubblici e privati, sono le condizioni che vanno rimosse per costruire una nuova cultura del lavoro con standard più alti: è la strada per colmare le distanze rispetto al resto dei paesi europei, soprattutto per giovani e donne», conclude Gabrielli.

«Nel nostro paese c’è un’emergenza legata ai redditi ma resta anche quella del lavoro povero – spiega il segretario confederale della Uil Santo Biondo – . Non si rinnovano i contratti e quindi non si riesce a recuperare il potere d’acquisto perso con l’inflazione. L’aumento dell’occupazione – sottolinea – non ci dà grandi input in

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Parigi. Pur di evitare un governo di sinistra ha mandato in tilt il sistema Ogni nome che propone, ultimo Beaudet, è bocciato in anticipo

Macron prende altro tempo. La Francia senza primo ministro Emmanuel Macron

Ancora una lunga giornata di attesa, a quasi due mesi dal voto delle legislative, dove il Nuovo Fronte Popolare è arrivato in testa, pur senza maggioranza assoluta. Nel pomeriggio, è spuntato un nuovo nome per la carica di primo ministro, dalla società civile: Thierry Beaudet, maestro elementare, di sensibilità di sinistra, che è stato alla testa della Mutualité, ora presidente del Consiglio economico, sociale e ambientale (Cese), che ha organizzato con grande competenza i dibattiti cittadini sul clima e la fine vita, che hanno permesso discussioni nella calma e nel rispetto reciproco tra persone di opinioni diverse. La prospettiva macronista è sempre quella di “grande coalizione repubblicana”, che la sinistra respinge (e da cui la destra si ritrae). Subito sono venute forti perplessità, anche a sinistra (sulla competenza di Beaudet, l’incertezza sul programma), ma soprattutto sul metodo: prima un programma, poi un nome.

Emmanuel Macron, che in una situazione politica confusa sta recitando una parte da protagonista invece di limitarsi a fare da arbitro, ha difficoltà a trovare la quadratura del cerchio: nominare un primo ministro che non si faccia votare subito la “censura” dalla nuova Assemblée Nationale divisa in tre blocchi. Una ricerca che l’Eliseo giustifica con la necessità di garantire la “stabilità”, mentre ogni nome proposto sta suscitando reazioni negative da parte degli schieramenti rivali e subisce preventivamente minacce di bocciatura.

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MA IL TEMPO STRINGE, la sinistra è sempre più spazientita, mentre il padronato preme per non cambiare la supply side economics e più passano i giorni più Macron si indebolisce. Oggi potrebbe arrivare la scelta. Ieri c’è stata una sfilata di personalità all’Eliseo. Per primo Bernard Cazeneuve, che è stato ministro e primo ministro con Hollande, ma dal 2022 ha preso le distanze dai socialisti: sono i suoi ex amici a frenare questa candidatura, nel week end agli incontri di Blois del Ps il nome di Cazeneuve è stato fischiato, la direzione di Olivier Faure non è intervenuta in sua difesa. Mathilde Panot capogruppo della France Insomise ha ripetuto ieri che qualsiasi governo che non sia quello guidato da Lucie Castets sarà “censurato” immediatamente. Cazeneuve è sostenuto dai socialisti dissidenti rispetto alla direzione Faure, si tratta di leader locali (sindaci, la presidente della regione Occitanie), mentre non c’è un vero sostegno tra i deputati Ps (65), eletti grazie all’alleanza Nfp.

Poi sono stati ascoltati all’Eliseo gli ex presidenti, François Hollande e Nicolas Sarkozy, che continua a fare pressione per un primo ministro di destra, mentre Lr frena, perché il leader Laurent Wauquiez vuole preservarsi per la corsa all’Eliseo del 2027 senza sporcarsi le mani con la partecipazione a una coalizione governativa. Poi è arrivato Xavier Bertrand, presidente della regione Nord-Pas de Calais (Lr ma con qualche distanza), altro nome che è circolato per Matignon. A fine pomeriggio, è stato il turno di François Bayrou, il guru “centrista” del MoDem, del primo ministro dimissionario, Gabriel Attal, che assicura “responsabilità” e “senso dello stato” per gestire gli affari correnti, seguito da Stéphane Séjourné, ministro degli Esteri e capo del partito di Macron. In ultimo è arrivato Gérald Larcher, presidente del Senato (Lr). Ma intanto il governo dimissionario è obbligato a prevedere di rimandare la presentazione del progetto di legge di bilancio 2025, che dovrebbe arrivare in Parlamento il 1° ottobre, un ritardo inedito nella V Repubblica. Il padronato è in allarme, teme l’incertezza e lo spread sul debito. Oggi, le organizzazioni delle imprese (Medef e pmi) sono ricevute all’Eliseo.

IERI, INTANTO, molte voci si sono di nuovo elevate per chiedere la convocazione di una “sessione straordinaria” dell’Assembleé Nationale, che dovrebbe riunirsi solo il 1° ottobre, lasciando quindi per un mese una vacanza di potere che complica l’equazione politica. Finora questo vuoto ha frenato la nomina della candidata proposta dal Nuovo Fronte Popolare, Lucie Castets: Macron teme che Castets, prima di crollare sotto il voto di censura, approfitti del mese di settembre per far passare, con dei decreti, una serie di misure per disfare tutto quello che è stato fatto negli ultimi sette anni, dalla riforma delle pensioni alla soppressione dell’Isf (la patrimoniale, ora in vigore solo sull’immobiliare), decidendo contemporaneamente di alzare il salario minimo a 1.600 euro e dei tagli drastici alla politica pro-business.

La sessione straordinaria è richiesta dal Rassemblement National, da Europa Ecologia, dal Pcf, anche dalla presidente dell’Assemblea, Yaël Braun-Pivet (Ensemble). Non è solo il presidente ad avere il potere di convocare una sessione straordinaria, i deputati possono “auto convocarsi” (ma mettersi d’accordo preventivamente)

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Germania. In Sassonia il leader della Cdu, riconfermato, non esclude accordi Così in Turingia, dove però i fascio-populisti sono arrivati primi

Un muro contro Afd, Sahra Wagenknecht ago della bilancia Manifestazione anti-fascista nel giorno del voto a Erfurt, in Turingia - Foto Ap

Michael Kretschmer, premier Cdu della Sassonia, non si lascia sfuggire neppure per sbaglio la parola alleanza, ma le sta spalancando veramente le porte del governo di Dresda: «Noi democristiani e Sahra Wagenknecht in teoria siamo compatibili: sul suo partito non pende alcun veto, come invece su Afd e sulla Linke». Lei non se lo fa ripetere due volte: «Parliamone di persona». Mentre nega di essere interessata alla poltrona: «Non chiedo alcun ministero per me».

Non sono trascorse nemmeno ventiquattro ore dall’esito delle urne in Sassonia e Turingia che ha sconvolto il governo di Berlino (e la Commissione di Bruxelles) e già si profila la nuova era politica inimmaginabile anche solo una settimana fa. Per il momento l’ipotesi di coalizione fra i conservatori di centro e i «conservatori di sinistra» – così Wagenknecht definisce ufficialmente la sua Alleanza – è talmente inedita che non si è ancora trovata la bandiera giusta in grado di riassumerla. Tuttavia non è più fanta-politica, anzi.

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Una desolante divisione della sinistra in Europa

Michael Kretschmer, 49 anni, astro crescente della Cdu, si avvia al secondo mandato dopo aver vinto per un soffio la sfida elettorale di domenica scorsa contro Afd. L’Unione democristiana con lui candidato ha conquistato il 31,9% contro il 30,6% del fascio populista Jörg Urban. Alle loro spalle l’annunciato boom dell’Alleanza Sahra Wagenknecht (Bsw): grazie all’11,8% non solo vola al parlamento di Dresda ma diventa pure la terza forza politica nel Land. Nove mesi fa nemmeno esisteva, due giorni fa ha drenato una tal massa di voti dalla Linke da farla finire sotto la soglia di sbarramento (ha raccolto il 4,5%). La Sinistra è rientrata nel Landtag grazie ai mandati diretti nella città di Lipsia.

DUE DEI TRE PARTITI del governo Scholz sono riusciti in qualche modo a contenere l’effetto governo rivelatosi devastante sia in Sassonia che Turingia. Spd e Verdi raccolgono rispettivamente il 7,3% e il 5,1% restituendo la prova della loro scarsa rilevanza fra i tedeschi dell’Est. Eppure entrambi potrebbero risultare decisivi nel caso del patto fra Kretschmer e Wagenknecht che li vedrebbe coinvolti come partner ultra-minoritari necessari per raggiungere una solida maggioranza. A proposito di numeri, ieri è stato limato di poco il risultato annunciato domenica. Cambia poco o nulla, se non che dopo il riconteggio finale Afd ha perso la quota della «minoranza di blocco» che le permetteva di fare ostruzione con peso superiore agli effettivi seggi in Parlamento.

Sahra Wagenknecht

Se volete formare una coalizione con noi, dovete parlare anche con me. Penso che una conversazione personale è più appropriata di una telefonata

IN TURINGIA, INVECE come era stato ampiamente previsto da tutti sondaggi, a dare le carte è stata solo Afd, ormai padre-padrone del Land conquistato con il 32,2% del consenso nonostante la netta sconfitta del filo-nazi Bjorn Höcke, spitzenkandidat dei fascio-populisiti con chiare tendenze antisemite, incapace di vincere il mandato diretto nella propria circoscrizione: è entrato nel Landtag soltanto per merito della lista di Afd in grado di esprimere addirittura il seggio in più per il primo dei non-eletti, cioè lui. Chi immaginava che la vera chiave del successo degli alternativi neri fosse il braccio teso di Hoecke si sbagliava non poco, mentre la tesi della disaffezione del voto vacilla di fronte all’incontrovertibile dato dell’affluenza alle urne, più che sintomatico della rivoluzione politica in corso in Germania.

IL RIFIUTO DEI PARTITI tradizionali – Spd, Verdi e liberali in testa – non si è tradotto nell’aumento dell’astensionismo ma l’esatto contrario: in Sassonia domenica scorsa si è presentato al seggio il 74,4% degli elettori (record nella storia di tutte le elezioni del Land) e anche in Turingia sono visibilmente cresciuti rispetto a un lustro fa, fino al 73,6%. In teoria, sotto il profilo strettamente tecnico, sarebbero quote da trionfo della democrazia liberale; in pratica quest’ultima verrà salvata soltanto se in Turingia resisterà il cosiddetto «cordone democratico» di tutti i partiti contro l’alleanza con Afd. Qui la Cdu è arrivata quasi dieci punti dietro ad Afd (23,6%) e ormai il suo concorrente diretto è la Bsw di Wagenknecht (15,8%).
Come in Sassonia anche in Turingia la Spd con il 6,1% non perde granché rispetto alle scorse elezioni ma gli ambientalisti restano fuori dal parlamento per colpa del magro 3,2% raccolto.

Anche qui, l’ago della bilancia sarà il Bsw forte del 15,8% anche se la Linke a differenza della Sassonia ha centrato un target superiore ai sondaggi (13,1%) e in teoria può ancora giocare un ruolo fondamentale nel Land che ha governato per dieci anni consecutivi.
«Dopo le elezioni in Sassonia e Turingia sono necessarie nuove elezioni federali» tuona Alice Weidel, leader nazionale di Afd. Ancora prima di Sahra Wagenknecht, e a maggior ragione dopo lo scivolone elettorale di Höcke, la capa degli alternativi è la donna che sta cambiando il volto della Germania per ora dell’Est. «Il prossimo passo è convincere anche i tedeschi dell’Ovest» è il suo obiettivo non più a lungo termine

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