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Nella foto: La prima medaglia d’oro di sempre della pallavolo femminile alle Olimpiadi @Lapresse

 

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Il limite ignoto. «Gioco di scacchi» e spostamenti di truppe. Mentre i civili ucraini continuano a morire

La bomba russa non ferma l’incursione di Kiev a Kursk Fermo immagine di un video del ministero della Difesa russo, in cui le truppe trasportano equipaggiamenti militari nella regione di Kursk

900 giorni di invasione russa in Ucraina e sei giorni di operazioni militari ucraine in territorio russo. L’incursione delle forze armate di Kiev nella regione di Kursk (nord di Kharkiv), cominciata martedì scorso, ancora procede alimentando speculazioni sulla sua vera natura: diversivo destinato a esaurirsi a breve oppure controffensiva pianificata per raggiungere obiettivi di rilievo? La realtà sul campo – al netto delle informazioni che arrivano col contagocce e quasi sempre da “fonti terze”, dal momento che sia le autorità ucraine che quelle russe hanno i loro motivi per non rivelare troppo di quanto sta succedendo – potrebbe forse essere quella di una sorta di “incontro a scacchi” fra le due parti in gioco.

SE KIEV deve presumibilmente valutare passo per passo quali mosse effettuare, anche in base alle risposte dell’avversario, Mosca dal canto suo è costretta a mettere in sicurezza le proprie regioni sapendo però che in vista di questo compito grava la spada di Damocle delle truppe che stanno combattendo nel Donbass ucraino: spostare forze da quel fronte significherebbe ridurre la pressione, pur lieve, della propria offensiva e, chissà, fare esattamente quello che vorrebbe il nemico. È un’ipotesi corroborata fra gli altri dal think tank britannico Institute for the Study of War, che nel suo ultimo report fa notare come la Russia stia per ora facendo affidamento su unità e battaglioni già presenti sul proprio territorio e operativi nelle retrovie, composti principalmente da coscritti e forze irregolari – dunque non gli elementi migliori a disposizione di Mosca. Altri aiuti potrebbero essere sottratti a fronti meno caldi, come Kherson o Zaporizhzhia.

A ogni modo, nelle tre regioni di Kursk, Bryansk e Belgorod sono in stato d’allerta ormai da giorni e sono iniziate le cosiddette operazioni di controterrorismo. Il portavoce del ministero per le situazioni d’emergenza ha dichiarato ieri alla Tass che sono state evacuate oltre 76mila persone dai luoghi in cui si stanno verificando gli attacchi. Le autorità militari affermano di aver inviato truppe e carri armati e di essere riuscite a bloccare l’avanzata ucraina, grazie a diversi attacchi aerei e anche all’utilizzo di una bomba termobarica. Tuttavia, le analisi confermano che le truppe ucraine stanno mantenendo le proprie posizioni e controllano buona parte della città di Sudzha, nella regione di Kursk a meno di 10km dal confine, da cui passa un importante snodo del gasdotto che dalla Federazione russa rifornisce alcuni paesi dell’Europa centrale come Ungheria, Slovenia e Austria.

È APPARSA anche un rivendicazione da parte di Kiev di aver occupato il piccolo villaggio di Poroz, a ovest di Belgorod, ma potrebbe trattarsi di un semplice tentativo di confondere le acque a livello informativo. Sul suo canale Telegram, il governatore della regione fa sapere di numerosi attacchi condotti con droni e di alcuni colpi di artiglieria che hanno raggiunto la città di Shebekino, ferendo una persona. Molta attenzione viene diretta anche alla centrale atomica di Kurchatov, sulla direttrice di avanzamento delle truppe ucraine.
Nella serata di venerdì il presidente dell’agenzia atomica russa Rosatom Alexey Likhachev, in un colloquio telefonico con il capo dell’agenzia internazionale per l’energia atomica Rafael Grossi, ha denunciato che l’incursione di Kiev nel territorio della Federazione costituisce una «minaccia diretta» non solo per la struttura che potrebbe essere interessata dagli sviluppi militari, ma per «l’intero settore dell’energia atomica a livello globale». Che la centrale di Kurchatov sia un obiettivo delle forze ucraine, però, rimane improbabile: al momento è comunque distante decine di chilometri dall’area in cui sono presenti le truppe di Kiev e una sua eventuale occupazione sarebbe particolarmente gravosa da mantenere.

NEL FRATTEMPO, nella vicina Bielorussia, anche Lukashenko si è messo in stato d’allerta: dopo l’annuncio della distruzione di alcuni «obiettivi aerei» provenienti dall’Ucraina «in violazione dello spazio aereo», è stato introdotto un regime di operazione antiterroristica nelle zone di confine.
Zelensky e i suoi, invece, continuano a mantenere un certo riserbo sull’incursione. Anche perché, intanto, in Ucraina proseguono combattimenti, morti e distruzione: mentre ieri si terminava la rimozione delle macerie nel luogo in cui è avvenuta la strage di Kostiantynivka (14 vittime e 44 feriti è il bilancio finale), altri missili russi colpivano città come Kramatorsk, sempre nel Donbass, dove è deceduto un civile. A Sumy, il governatore della regione ha ordinato l’evacuazione di 20mila abitanti di 28 diverse località lungo il confine.

UN REPORT pubblicato due giorni fa dalla missione di monitoraggio dei diritti umani della Nazioni unite ha reso noto che luglio è stato il mese più letale per la popolazione ucraina dall’ottobre del 2022 e che, in generale, la tendenza è andata crescendo per via dell’offensiva russa nell’est del paese. In mezzo all’apprensione per come si evolveranno le operazioni fra Kursk e Belgorod, la sofferenza dei civili rimane purtroppo una solida certezza

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All’alba missili israeliani colpiscono un’altra scuola-rifugio a Gaza City: oltre 100 uccisi. I soccorritori: molti bambini straziati. Tel Aviv: presi di mira 20 miliziani. Il nuovo massacro a pochi giorni dal tavolo negoziale sulla tregua. Il mondo condanna, la strage continua

Striscia di sangue. L’attacco aereo è scattato all’alba contro la scuola Al Tabain di Gaza City. Per Tel Aviv dentro c’erano militanti di Hamas e Jihad. Il massacro è avvenuto mentre si prepara il tavolo negoziale, il 15 agosto, per la tregua nella Striscia

100 palestinesi uccisi da missili israeliani L'ospedale Ahli di Gaza city dopo la strage - Ansa

«Siamo riusciti a identificare solo 70 corpi, delle altre vittime ci sono arrivati pezzi, braccia, gambe e altre parti, avvolti dentro coperte. C’è stato un incendio dopo le esplosioni che ha reso irriconoscibili diversi degli uccisi». Fadel Naim, direttore dell’ospedale Ahly di Gaza city, si affannava ieri a dare informazioni ai giornalisti mentre i soccorritori della Protezione civile e della Mezzaluna rossa, aiutati da decine di volontari continuavano a portare i feriti dalla scuola Al Tabain nel quartiere di Daraj. Da mesi rifugio per circa 2.400 sfollati, la scuola è stata centrata ieri da missili sganciati da un cacciabombardiere israeliano durante il Fajr, la preghiera dell’alba. «Abbiamo ricevuto feriti molto gravi, alcuni hanno perduto uno o entrambi gli arti e subito ustioni su gran parte del corpo», ha aggiunto Naim.

L’attacco aereo sulla Al Tabain è scattato mentre centinaia di persone pregavano. Due missili hanno preso di mira i due piani della scuola: il primo ha colpito la zona occupata dalle donne, il secondo ha centrato in pieno il piano terra usato come sala di preghiera in aggiunta alla moschea. È stato un massacro. I video arrivato da Gaza mostrano corpi e arti carbonizzati sparsi sul pavimento della sala di preghiera, in gran parte rosso per il sangue; persone sconvolte che, tra urla e pianti, cercano i loro cari; un ragazzino con ustioni e ferite su tutto il corpo bendato e disteso su una barella in un corridoio dell’ospedale Ahli. E decine di corpi coperti da teli con i parenti che provano a riconoscerli. I morti sono tra 70 e 100 secondo alcune fonti. 93 per il ministero della sanità di Gaza, in prevalenza uomini che pregavano al piano inferiore della scuola ma anche donne e bambini.

Le forze armate israeliane ridimensionano il

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Alta partecipazione anche a Faenza alla raccolta firme per il referendum contro la legge sull’Autonomia Differenziata. In questi giorni il comitato referendario ha organizzato banchetti a Ravenna, Cervia, Bagnacavallo, Lugo e Castel Bolognese. Nel periodo a cavallo di Ferragosto gli appuntamenti diminuiranno, ma sarà sempre possibile aderire alla campagna referendaria online.

GUARDA IL VIDEO DI RAVENNAWEBTV

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Medio Oriente. Mediatori e governi premono per un accordo tra Israele e Hamas che fermi la corsa al conflitto regionale. Gli Usa convinti che un cessate il fuoco frenerà la risposta di Iran ed Hezbollah. Intanto la Striscia è un inferno: Israele manda gli sfollati da Khan Younis nelle tende di al-Mawasi, poi le bombarda

Palestinesi in fuga da Khan Younis foto Ap/Abdel Kareem Hana Palestinesi in fuga da Khan Younis - Ap/Abdel Kareem Hana

La rinnovata offensiva terrestre contro Khan Younis, la seconda città più grande di Gaza ridotta in macerie dalle avanzate israeliane precedenti, si intreccia alla pressione sempre più affannosa per un accordo di tregua nella Striscia. Quasi un film distopico con appelli inviati dalle cancellerie di mezzo mondo, mentre la popolazione di Gaza – ormai interamente sfollata – continua a girare in circolo. In cerca di un rifugio che si tramuta ogni volta nell’ennesima trappola: chi scappava da Khan Younis due giorni fa, ieri è stato bombardato ad al-Mawasi.

L’IMPRESSIONE è che la crescente impazienza internazionale sia il segno di una lapalissiana consapevolezza: solo la fine dell’offensiva israeliana su Gaza può davvero frenare l’escalation mediorientale, fornendo ai due principali attori dell’attesa risposta militare a Tel Aviv – Iran e l’Hezbollah libanese – una via d’uscita. Ovvero l’opzione di una risposta più debole (che ne salvaguardi le rispettive basi di consenso) a cui il governo israeliano non potrebbe rispondere con piena forza, come confermavano fonti statunitensi ad Axios.

La possibilità di cui si congettura dietro le quinte è un attacco dell’Iran o dei suoi alleati nella regione che non prenda di mira obiettivi civili, ma basi militari per evitare una guerra aperta che, ribadiva ieri su Haaretz l’analista Amos Harel, «le attuali valutazioni dicono non essere lo scopo degli iraniani e di Hezbollah».

In particolare Teheran, aggiungeva Arel, per cui «è importante mantenere un canale di dialogo con Washington per proteggere il proprio progetto nucleare». Non rassicurano le parole attribuite ieri dall’agenzia Tasnim al leader supremo Ali Khamenei: avrebbe chiesto ai pasdaran di «punire con durezza Israele».

Nel «gioco» alla guerra, da qualsiasi parte la si guardi, i palestinesi sono la pedina, protetti da nessuno e sfruttati da tutti, nell’idea che la tregua sia strumento per altro, prima che indispensabile strumento a fermare la carneficina.

FONTI VICINE ai negoziatori riportano da giorni della frustrazione dei player del dialogo, Egitto, Qatar e Stati uniti. La si coglieva tra le righe del comunicato congiunto consegnato alle agenzie stampa giovedì sera: il tempo è scaduto, non ci sono scuse per un altro rinvio, Israele e Hamas devono presentarsi al tavolo negoziale il 15 agosto per finalizzare l’accordo. Come ci fossero solo da limarne i dettagli. Le distanze ci sono e sono enormi rispetto alla proposta che il presidente Usa Joe Biden, con una palese forzatura, aveva reso pubblica a fine maggio, attribuendola alla farina del sacco israeliano.

Nessun seguito, anche per i continui giochi al rialzo del premier israeliano Netanyahu, in aperta frattura con i suoi stessi negoziatori e il ministero della difesa che da settimane fanno filtrare alla stampa la reprimenda al capo: è lui, dicono, che non vuole l’accordo.

Netanyahu, che in risposta all’appello dei mediatori ha annunciato l’invio di una delegazione il 15 agosto tra gli schiamazzi dell’ultradestra che minaccia di far saltare il governo, pare avere il mondo contro: ieri piovevano appelli per la tregua e lo scambio di ostaggi dagli Emirati alla Francia, dall’Oman all’Ue, dal Libano sulla graticola al Regno unito e al Canada.

Ma ha un pezzo significativo di società israeliana al fianco. L’ultimo sondaggio pubblicato dal quotidiano Maariv dava il premier «Mr. Sicurezza» in crescita nei consensi (il 42% lo vuole ancora come primo ministro, il 40% preferisce il rivale Benny Gantz) e il suo partito, il Likud, in testa con 22 seggi contro i 20 dell’avversario, fino a giugno in cima nelle preferenze di voto.

Di certo la terza offensiva su Khan Younis dal 7 ottobre non aiuta, come non aiuta l’aver ammazzato su suolo iraniano il capo di Hamas, Ismail Haniyeh, seppur il movimento islamico che non muore nemmeno se lo decapitano non ha abbandonato il tavolo e ieri faceva sapere di aver messo in cima alla lista della richieste la liberazione del leader di Fatah, Marwan Barghouti, e del segretario del Fronte popolare, Ahmad Saadat.

LA FEROCIA dell’offensiva la danno le bombe cadute ieri su al-Mawasi, fazzoletto di terra beduina lungo la costa sud, da mesi tramutata in una tendopoli senza pace. Decine di palestinesi sono stati uccisi giovedì e di nuovo venerdì a Khan Younis e a Deir al-Balah, altri cinque ad al-Mawasi «zona sicura», tra loro due bambini. I nuovi avvertimenti israeliani hanno generato il terrore accompagnato alla rabbia per quella che viene definita «una tortura psicologica».

«Colpiscono ovunque, hanno già colpito al-Mawasi e in tanti sono stati uccisi», diceva uno sfollato, Ahmed al-Farra alla Reuters, in fuga insieme ad altre 70mila pestone. L’intrinseca insicurezza delle «zone sicure» è ormai certificata, quasi divenuta la normalità. Lo dimostra il picco di raid aerei contro le scuole rifugio agli sfollati. Ieri l’ong Euro-Med ha fatto qualche calcolo dopo gli ultimi due bombardamenti di scuole a Gaza City: in otto giorni, 79 palestinesi sono stati uccisi e 143 feriti dentro un istituto scolastico. Sale anche il numero di giornalisti uccisi: 167 in dieci mesi, l’ultimo è morto ieri, Tamim Muammar, colpito in una casa a Khan Younis insieme ad altre sei persone.

Intanto al confine libanese-israeliano continua lo scambio di fuoco. Due persone sono state uccise ieri nel villaggio libanese di Naqoura da un drone israeliano, mentre lo Shin Bet dice di aver ucciso in un raid un alto ufficiale di Hamas, Samer al-Hajj, indicandolo come capo del gruppo nel campo di Ain al-Hilweh, a Sidone. Lontano dalla frontiera, «linea rossa» ben poco rispettata da Israele negli ultimi mesi ed ennesima provocazione al movimento islamico palestinese, in vista del tavolo negoziale

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Il conflitto a est. Mosca non riesce a respingere l’offensiva di Kiev, che va avanti ormai da quattro giorni

Gli ucraini ancora in Russia, stato d’emergenza nel Kursk Un frame di un video che mostra dei soldati ucraini che festeggiano nei dintorni di Kursk davanti ad un impianto della Gazprom

Per il quarto giorno consecutivo i soldati ucraini si trovano in territorio russo, nella regione di Kursk, e dato il prolungarsi dell’operazione oltreconfine si è iniziato a parlare dei possibili obiettivi di Kiev. La tesi che va per la maggiore al momento è che le truppe di Zelensky vogliano colpire le infrastrutture energetiche russe in modo da «far sentire ai russi sulla propria pelle cosa voglia dire la guerra», come ha dichiarato Zelensky ieri. Gli obiettivi sarebbero due in particolare: il gasdotto che ha un importante snodo nella città russa di Sudzha, a meno di 10 km dal confine e la centrale nucleare di Kursk.

MA ENTRAMBE le ipotesi presentano diversi punti deboli. Per quanto riguarda il gas, bisogna ricordare che parliamo di una tubatura di oltre mille km che, sebbene transiti per la regione di Kursk prima di entrare in territorio straniero, non ha l’unico passaggio in quel luogo. Se Kiev avesse davvero voluto interrompere il transito del gas che dalla Federazione Russa arriva ancora in alcuni Paesi dell’Europa centrale come Ungheria, Slovenia e Austria, avrebbe potuto colpire in molti altri punti, dalla distanza magari, e con un rischio molto minore. Anche se ieri sera alcuni soldati ucraini si sono ripresi proprio di fronte a una sottostazione della Gazprom.

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PER QUANTO RIGUARDA la centrale nucleare di Kursk, una delle infrastrutture energetiche più importanti della Russia occidentale, lo scenario di un possibile sabotaggio alla luce del sole appare ancora più inverosimile. Per danneggiare davvero la rete russa bisognerebbe occupare o distruggere la centrale.

Nel primo caso gli ucraini avrebbero dovuto inviare più uomini e più mezzi e tentare un attacco frontale. Anche se i soldati di Kiev che hanno partecipato all’azione fossero mille come dice il Comandante dello stato maggiore russo Gerasimov e non 3-400 come sostengono ufficiosamente gli ucraini, considerata la copertura aerea di droni e artiglieria e i mezzi corazzati inviati di scorta, non si raggiunge comunque una forza sufficiente a cacciare le difese russe indietro di decine di chilometri e, magari (ma si parla di fantascienza al momento), a occupare la centrale.

La seconda opzione, ovvero la distruzione di alcune strutture della centrale che non danneggino i reattori, plausibilmente delle sottostazioni di scambio, appare assurda. A meno che i vertici ucraini non vogliano rischiare di causare un disastro atomico, che tra l’altro colpirebbe anche i propri cittadini dall’altro lato della frontiera.

Al momento quindi l’ipotesi più realistica resta quella dell’azione eclatante di disturbo. Certo, degli effetti ci sono stati: decine di prigionieri, due elicotteri d’assalto Mi-28 distrutti (l’ultimo ieri) e l’attenzione dei media di tutto il mondo spostata da Gaza all’impreparazione delle guardie di confine russe e alla temerarietà degli ucraini. Inoltre, Kiev non ha mai nascosto i tentativi per costringere Mosca a dislocare altrove alcuni dei reparti di stanza nel Donbass e a Kharkiv in modo da alleggerire il compito dei difensori nell’est che sono pochi e stanchi, anche se tengono le posizioni.

Senza considerare la soddisfazione di poter mostrare al mondo che la Russia non è la potenza militare che Putin vuole far credere. Tutto ciò ha un costo e le autorità ucraine si preparano alla reazione russa da un momento all’altro. Secondo la polizia, «circa 20.000 persone devono essere evacuate» da 28 insediamenti nella regione di Sumy, al confine con Kursk.

INTANTO LA GUERRA continua in territorio ucraino, qualche centinaio di chilometri più a sud. Ieri i missili russi hanno colpito un supermercato a Kostyantynivka, nella parte di Donetsk controllata ancora dagli ucraini, lungo la direttrice che dalla cittadina arriva fino a Pokrovsk, altro obiettivo dell’avanzata di Mosca in quell’area. Il bilancio, nella serata di eiri, è di 14 morti e 44 feriti ma si scavava ancora sotto le macerie. Secondo la Ukrainska Pravda «sono stati danneggiati anche edifici residenziali, negozi e più di una dozzina di automobili»

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