Mentre la crisi climatica colpisce con eventi estremi in diversi Paesi, dalla Germania al Canada, dalla Cina all’India, il G20 non riesce a concordare su un elemento essenziale per combattere la crisi in atto: la decarbonizzazione.
Infatti, anche se il documento approvato al G20 ambiente di Napoli ribadisce formalmente gli impegni dell’Accordo di Parigi, non contiene due punti cruciali. Il primo è l’obiettivo di dimezzare le emissioni entro il 2030 e l’altro, collegato di fatto al primo, è quello di uscire più rapidamente dall’uso del carbone. In questo modo, l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura del pianeta entro i 1,5°C è già sostanzialmente saltato. Infatti, per mantenere aperta la finestra di uno scenario globale che stia entro quel limite è necessario dimezzare le emissioni globali di CO2 entro il 2030 per poi azzerarle, globalmente, nei successivi 20. Eppure, gli stessi Paesi del G20 riconoscono formalmente le conclusioni del rapporto Ipcc che evidenzia come tra 1,5 e 2 gradi di aumento i danni da attendersi siano ben maggiori.
Anche se, come apprendiamo dalla cronaca, l’India ha avuto la posizione più rigida, il ruolo della Cina appare quello cruciale. Se non deciderà una traiettoria più rapida di progressiva eliminazione del carbone, sia a livello nazionale che nell’area della nuova Via della Seta, la speranza di contenere la crisi climatica è messa all’angolo.
Non sappiamo se questa indisponibilità cinese, a fronte dello sforzo negoziale dell’inviato sul clima americano John Kerry e del ministro Roberto Cingolani, è definitiva o se fa parte della dinamica di confronto con la nuova amministrazione di Joe Biden. Lo abbiamo scritto più volte: il successo politico dell’Accordo di Parigi – che rimane un accordo importante sul piano negoziale – era anche legato a un quadro di cooperazione tecnologica Usa-Cina che oggi sembra far parte di un’epoca remota. E, invece, ci sarebbe bisogno di una nuova fase di collaborazione su un tema che è riconosciuto cruciale da entrambe le potenze.
Se la situazione non cambia, dunque, dovremo aspettarci danni climatici molto superiori come a suo tempo ha evidenziato il rapporto dell’Ipcc e di cui gli stessi ministri del G20 riconoscono le analisi. Con questa divergenza sui tempi, il vertice G20 di Roma a ottobre non potrà essere un successo e, cosa più grave, anche la possibilità di riuscita della COP26 a Glasgow di novembre – mantenere aperta la possibilità di limitare a 1,5°C l’aumento della temperatura – è oggi ridotta al lumicino.
La dinamica di chi frena le politiche c’è a livello globale come anche in Italia con le resistenze dei soliti settori legati alle fossili – per ultimo la motor valley – cui il ministro Cingolani ha fatto da amplificatore invece evidenziare le opportunità della transizione ecologica che dovrebbe guidare. A giudicare dal profilo del ministro e dalla sua scarsa convinzione nel ruolo, certo non ci si poteva aspettare un miracolo al G20 – già difficilissimo – con la sua presidenza.
Se i principali Paesi non convergeranno su impegni seri e tempi la finestra per evitare le conseguenze più catastrofiche si chiuderà. E dunque avremo danni climatici ben peggiori di quelli che vediamo oggi con un pianeta più caldo di 1,1°C rispetto all’era preindustriale. La copertina dell’Economist titola che nessun luogo sarà sicuro con un futuro aumento di 3 gradi (No safe place. The 3°C future) e, infatti, quello cui stiamo assistendo è solo un pallido assaggio di quello che potrà succedere in uno scenario di riscaldamento globale senza controllo.
Se a pagare i costi più alti della crisi climatica sono i paesi più poveri – e i poveri in generale – che hanno meno risorse per difendersi o ricostruire, la crisi climatica colpisce ovunque già oggi. Nessuno si salverà da solo: il lavoro negoziale è ancora tanto, nonostante la poco condivisibile soddisfazione del ministro Cingolani all’esordio su un tavolo internazionale.
* L’autore è direttore esecutivo Greenpeace Italia
Anniversari. Da oggi a Genova una settimana di iniziative per i 20 anni dal controvertice e dall’uccisione di Carlo Giuliani
«Genova 2001 ci parla ancora della necessità della convergenza, della costruzione di un campo di forze per l’alternativa capace di contenere in modo non gerarchico tante e diverse identità, culture, provenienze, generi, generazioni, tematiche. A Genova 2021 vogliamo fare insieme un passo avanti in questa direzione. E crediamo che l’autunno debba vedere una prima grande mobilitazione nazionale di convergenza», scrivono le trenta organizzazioni che hanno promosso una settimana di iniziative di vario genere (assemblee, incontri, tavole rotonde, presentazioni di libri e altri eventi culturali) in occasione del ventennale del G8 nella città ligure.
I promotori – dalla Fiom-Cgil alla Comunità di San Benedetto al Porto di don Andrea Gallo, passando per Altreconomia e il Comitato verità e giustizia per Genova – fanno sapere di voler discutere in particolare di due questioni: «Il grave, accelerato e progressivo deterioramento dei diritti umani fondamentali, economici, sociali e culturali e la relazione tra l’uso della forza e delle armi da parte delle forze dell’ordine e la garanzia dell’ordine pubblico costituzionale». «Ci chiederemo se le rivendicazioni del movimento altermondialista del 2001 siano ancora attuali, cosa sia cambiato in questi vent’anni e se i movimenti sociali di oggi si riconoscano» in quello di ieri, proseguono. La gran parte dei giovani che hanno partecipato alle mobilitazioni dei Friday for future non erano neppure nati nel 2001, eppure paiono loro gli eredi più diretti di quella stagione, per le questioni che pongono. Ci saranno loro e ci sarà pure un ministro, quello delle Infrastrutture e mobilità sostenibili Enrico Giovannini, mentre all’epoca il governo Berlusconi era dall’altra parte della barricata, nella zona rossa protetta dalle inferriate e addobbata con limoni finti.
Scritto da Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni su il manifesto
Politiche fiscali. Dopo 6 mesi di discussione la montagna ha partorito il topolino, nessuna revisione dell’Irpef, taglio dell’Irap, flat tax per gli autonomi, silenzio sulla riforma del catasto
Dopo sei mesi di discussione e 61 audizioni le commissioni Finanze della Camera e del Senato lo scorso 30 giugno hanno reso noto al governo il documento conclusivo di indirizzo politico per la predisposizione della legge delega sulla riforma fiscale che l’Esecutivo si è impegnato a presentare entro la fine di luglio dell’anno in corso. Il documento è passato a larga maggioranza con la sola astensione di Leu, purtroppo, e naturalmente il voto contrario di Fratelli d’Italia.
Ma ad un consenso parlamentare così largo non sembra corrispondere un uguale entusiasmo da parte della stampa specializzata. Nel più favorevole dei casi si osserva che il progetto si inserisce nelle tradizione delle riforme soft all’italiana, che non toccano minimamente il sistema preesistente, anzi trattano la materia in modo conservativo.
Si potrebbe dire che la montagna ha partorito il topolino. Ma in questo caso abbiamo qualcosa di peggio. Il documento parlamentare non lo nasconde e nelle prime righe fa sapere che i suoi obiettivi sono “stimolare l’incremento del tasso di crescita potenziale dell’economia italiana e rendere il sistema fiscale più semplice e certo”. La giustizia fiscale non rientra tra le preoccupazioni degli estensori, quindi nulla si dice della necessità prioritaria di ristabilire il principio costituzionale della progressività, svuotato da anni di leggi e leggine sotto la spinta delle varie lobbies. Viene confermato il regime forfettario, quindi una flat tax, per gli autonomi con ricavi inferiori ai 65mila euro annui, mentre si auspica che venga ridotta l’aliquota sui redditi da capitale, ora al 26%, a un livello “prossimo all’aliquota applicata al primo scaglione Irpef”.
Su questa imposta converge tutta l’attenzione del documento, che suggerisce il mantenimento della struttura a scaglioni delle aliquote – liquidando l’ipotesi di un passaggio alla progressività continua come nel sistema tedesco – e auspica fortemente di salvare la “classe media” – punto di riferimento sociale di tutta l’operazione, riducendo la pressione fiscale tra i 28mila e i 55mila euro. Si chiede l’abrogazione dell’Irap e una semplificazione dell’Iva, mentre non si affronta il tema dell’erosione della base imponibile Irpef benché sollevato in quasi tutte le audizioni.
È evidente che in questo quadro non ci poteva essere né una tassa di successione né la patrimoniale, benché quest’ultima avesse fatto capolino in una prima bozza. Quindi silenzio totale sulla riforma del catasto. Il tutto è stato accolto con grande gioia di Salvini e non stupisce. I critici più teneri si augurano che poi il governo intervenga migliorando quanto il Parlamento gli ha consegnato. Ma è inutile coltivare simili illusioni. Aggrapparsi a una logica puramente emendativa assicura una sconfitta certa. Da questo quadro politico, malgrado che a livello internazionale di discuta di tassare le multinazionali, non può che arrivare il peggio specialmente su materie, come quella fiscale, che toccano direttamente la struttura di classe del paese.
Intanto le diseguaglianze prosperano a dismisura. Non solo da noi e in Europa, ma anche negli States, come rivela la Fed in un recentissimo rapporto su Wall Street, dove l’1% ha il 53% dei capitali e i bianchi – le differenze di reddito si mischiano e si aggravano con quelle etniche – detengono circa l’83% degli asset totali. Secondo calcoli di vari e attendibili economisti, la distribuzione della ricchezza è stata meno sbilanciata in Europa, ma anche qui si procede con rapidi passi in quella direzione: la quota di reddito totale fatta propria dal 10% con il reddito più alto è passata da meno il 30% negli anni 80 ad oltre il 35% ai giorni nostri.
In Italia l’1% possiede il 25% della ricchezza complessiva, mentre il 60% più povero se la deve cavare con il 15%. In più nel nostro paese la ricchezza ha un tasso di patrimonializzazione più elevato che nel resto del contesto europeo. Non si potrà mai incidere su questo stato di cose, se non contribuendo a creare un movimento reale che faccia della giustizia fiscale e redistributiva uno dei suoi punti qualificanti, entro cui collocare la rivendicazione di una tassazione dei patrimoni.
Per tutte queste ragioni abbiamo firmato e invitiamo a farlo la Proposta di legge di iniziativa popolare, avanzata da Sinistra Italiana, sulla “Istituzione di un’imposta ordinaria sostitutiva sui grandi patrimoni”, la cui base imponibile è costituita da una ricchezza netta superiore a 500.000 euro, modulata secondo criteri di progressività fino a giungere all’aliquota del 2% per valori superiori a 50 milioni di euro, che per l’anno 2022 e per una base imponibile superiore a un miliardo di euro deve arrivare al 3% per fare fronte alle esigenze della ricostruzione postpandemica. Si può discutere all’infinito sulle cifre, se troppo o troppo poco. Quel che conta è rompere il muro dell’ingiustizia fiscale. Come dice Thomas Piketty: “Il sistema fiscale di una società giusta si dovrebbe basare su tre grandi imposte progressive: sulla proprietà, sulle successioni, sul reddito”.
Intervista. Parla Antonello Pasini, climatologo del Cnr. "Questi eventi saranno la norma". "Il fatto che la fonte del riscaldamento della temperatura globale è umana deve essere considerata una buona notizia, se fosse naturale non ci potremmo fare niente"
Dopo settimane di precipitazioni che avevano già saturato i suoli, circa 150 mm di pioggia in una giornata hanno innescato la piena. Un disastro la cui entità evoca scenari da Sud Est asiatico, quando invece ci troviamo in Germania. Un episodio dovuto alla persistenza per giorni sulla stessa area geografica di una specifica condizione metereologica, coerente con i cambiamenti climatici in corso e l’inadeguatezza dei territori verso fenomeni sempre più estremi. Antonello Pasini fisico climatologo del Cnr, insegna fisica del clima e sostenibilità ambientale.
Dal suo punto di vista di climatologo e studioso dei fenomeni atmosferici che cosa è successo in Germania tale da provocare un’alluvione di simile intensità e durata? Si tratta di qualcosa senza precedenti a quelle latitudini?
Innanzitutto eravamo reduci da un anticiclone che ha invaso il Nord Europa determinando una situazione in cui il mare era molto caldo, una problematica diventata abbastanza tipica con il riscaldamento globale che porta più energia in atmosfera e che ha di fatto esteso verso Nord una circolazione di tipo tropicale, quindi questi anticicloni ora riescono ad arrivare anche a latitudini elevate. In questo caso c’è stata quella che noi chiamiamo “goccia fredda”, una grande quantità di aria più fresca che è calata da Nord per controbilanciare l’aria calda proveniente da Sud, e che si è istallata sulla Germania. Inoltre noi a queste latitudini siamo abituati a vedere la circolazione atmosferica che va da ovest verso est, dei treni di onde in transito che portano a giorni di tempo buono, poi un po’ di variabilità, poi due giorni di tempo meno buono etc. Quanto accaduto in invece è dovuto a delle onde molto più lunghe che si innalzano dai poli verso l’equatore e viceversa; quando sono così lunghe le onde si fermano e fanno permanere sul territorio una situazione come questa anche per giorni. È quella che noi chiamiamo una situazione di “blocco” che può riguardare anche il fenomeno opposto, quello delle ondate di calore che sono molto forti e molto lunghe. Sicuramente al disastro avvenuto in Germania concorrono anche altri tipi di fattori, ma dal punto di vista climatico si è trattato di un fenomeno impressionante.
Il collegamento con il cambiamento climatico è ormai dato per certo, si tratta semmai di stabilire in che misura. Quali sono i segnali inequivocabili, se ci sono, della determinante antropica sulle condizioni del clima e le sue conseguenze?
La scienza del clima lavora in modo particolare. Noi analizziamo i fenomeni attraverso dei modelli metereologici e climatici con cui sostanzialmente ricostruiamo un evento. Una volta fatto ciò, cambiamo delle cose nel modello, per es. se stiamo studiando un evento caratterizzato da un’ondata di calore molto forte in aria o nel mare, riportiamo le temperature dell’acqua e dell’aria alle condizioni della normalità climatica, magari del secolo scorso. Il modello fatto “correre” alle nuove condizioni ci consente di capire se questo evento sarebbe avvenuto ugualmente, in che misura, con qual valori di precipitazione o calore dell’acqua. C’è un gruppo di ricercatori che si occupa di attribuzione degli eventi estremi al cambiamento climatico che ha già studiato l’ondata di calore avvenuta in Canada e con questo metodo hanno visto che è stata eccezionale ma che non sarebbe mai avvenuta in condizioni preindustriali: oggi invece è stata possibile e lo sarà anche in futuro se la temperatura continuerà a salire. Nel passato la frequenza di eventi di questo tipo si calcolava fosse di uno ogni 20.000 anni. Nelle condizioni attuali si calcola potrebbe avvenire ogni 400 anni. Ma se la temperatura aumenta di due o tre gradi, può succedere anche ogni 20 anni.
Quali sono le zone del pianeta più esposte? O che vedono incrementare maggiormente la percentuale di rischi legata ai cambiamenti del clima?
Il nostro bacino Mediterraneo è un luogo sensibile. Una volta era dominato dall’anticiclone delle Azzorre che lasciava passare le perturbazioni a nord e teneva fermo il caldo africano sull’Africa, ora l’arrivo di questi anticicloni africani e flussi di aria fredda che arrivano quando l’anticiclone si ritira, hanno determinato una indubbia estremizzazione del clima. Dopodiché i rischi che un territorio corre sono il risultato di un insieme di fattori. Nel libro L’equazione dei disastri. Cambiamenti climatici su territori fragili utilizzo appunto un’equazione per individuare i fattori che determinano i danni ambientali. C’è un fattore sicuramente climatico, ma poi bisogna guardare alla fragilità del territorio e della società, il livello di esposizione di risorse e persone. Chiaro che nel mondo, a parità di cambiamento climatico, l’impatto di un fenomeno estremo è maggiore laddove le condizioni di sicurezza sono inferiori, o il welfare è meno strutturato.
Della Germania colpisce l’entità del disastro in una zona i cui standard non la fanno ritenere fra le più fragili. Siamo a un punto di svolta? O comunque ci sono delle nuove fragilità da prendere maggiormente in considerazione?
Anche la Germania non è stata esente da errori come l’eccesso di cementificazione e di estrazione e la natura si riprende i suoi spazi. In questo caso si sono rotti degli argini e i fiumi sono esondati, quindi dei manufatti umani sono risultati non adeguati a quelli che sono i cambiamenti del clima e le sue conseguenze. Quando progettiamo e costruiamo un’opera evidentemente i calcoli che facciamo non possono più fare riferimento alle statistiche del passato, bisogna tenere conto degli scenari climatici futuri, legati a una situazione che evolve verso una deriva climatica.
Questi fenomeni eccezionali sono destinati a diventare la norma?
Purtroppo sì se non facciamo nulla per limitare l’aumento della temperatura globale. Quello che dico sempre è che il fatto che la fonte di questo riscaldamento è umana deve essere considerata una buona notizia, se fosse naturale non ci potremmo fare niente. Conosciamo le cause: aumento gas serra, deforestazione, agricoltura e allevamento non sostenibili, possiamo quindi fare qualcosa affinché gli effetti dannosi di queste attività vengano ridotti. Dal punto di vista di principio anche politicamente in Europa ci stiamo muovendo in un modo senza precedenti. L’influenza di determinate lobby è ancora forte e mette dei limiti a quella che deve essere una vera e propria transizione ecologica globale, non solo energetica.
Non c’erano notizie di interrogatori sin dal suo arresto, quando era stato interrogato per ore nella sede della National Security Agency. Le indagini sono tuttora in corso, per il portavoce di Amnesty International, Riccardo Noury, potrebbe semplicemente essere una mossa per giustificare la detenzione
La detenzione di Patrick Zaki è stata prorogata di altri 45 giorni, ma c’è una novità: la procura ieri ha deciso di interrogarlo. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, ha ricordato che non accadeva da molto tempo: «La coincidenza con la sessione di indagine e l’udienza potrebbe anche solo essere una mossa per giustificare il fatto che lo trattengono».
Sin dall’arresto di Patrick, il 7 febbraio del 2020, non c’erano notizie di interrogatori. All’epoca lo studente dell’università di Bologna di ritorno in Egitto era stato prelevato all’aeroporto e interrogato per diverse ore nella sede della National Security Agency. La pagina Facebook che hanno dedicato a Patrick i suoi amici ha commentato gli ultimi sviluppi: «I due aggiornamenti su Patrick Zaki – la proroga e l’interrogatorio – ci confondono ulteriormente, perché non sappiamo quale destino lo attenda nel prossimo futuro».
Nello specifico, riportano, la Corte d'Appello ha ordinato altri 45 giorni di detenzione preventiva, in attesa delle indagini, e martedì si è tenuta la sessione investigativa da parte della procura suprema di sicurezza dello Stato, una misura presa per la prima volta dalla prima settimana del suo arresto, nel febbraio 2020.
L'indagine è durata più di due ore, durante le quali Patrick «è stato interrogato nel dettaglio sulla natura del suo lavoro, sui suoi progetti di ricerca passati e sul suo background formativo». Gli amici e attivisti che sostengono Zaki hanno aggiunto: «Speriamo che le nuove misure non siano un'indicazione di sviluppi negativi, che renderebbero la sua vita ancora più difficile» e allo stesso tempo che «con la ripresa delle indagini, emerga presto la sua innocenza e che la falsificazione del verbale di arresto sia chiarita - continuano. La verità, concludono, «è che questi nuovi sviluppi potrebbero avere un impatto positivo o negativo sul caso».
Cuba. Il malessere dell’isola esprime la verità di una crisi drammatica. Anche Diaz-Canel lo riconosce. Il bloqueo Usa- che Sanders chiede venga tolto - è il problema, ma non è il solo
A Cuba l’emergenza è condizione di normalità. Le ragioni sono politiche ed economiche fin dal gennaio 1959, quando i barbudos fecero il loro ingresso a L’Avana. Ma negli ultimi due anni – causa Covid, rinnovata aggressività statunitense, blocco del turismo, impasse economici – la situazione è diventata ancora più difficile del normale.
Tanto da far prevedere che potessero verificarsi gli episodi di rivolta puntualmente accaduti domenica scorsa in varie città. Le difficoltà alimentari e nei servizi di prima necessità erano giunte al livello di guardia. L’umana sopportazione non può essere cancellata con un colpo di spugna dalla politica.
La vita è fatta di bisogni quotidiani essenziali, pure nel paese dove si produce l’unico vaccino anti-Covid in America latina. Da qui la spiegazione delle manifestazioni e delle proteste. Anzi, i cubani hanno dimostrato in passato il loro eroico spirito di sacrificio e di sopportazione: basti pensare agli anni Novanta del periodoespecial, quando L’Avana pagò un prezzo altissimo nella qualità della vita individuale e collettiva per la fine del «socialismo reale».
Quindi, il malessere della gente di Cuba – soprattutto dei giovani che ne costituiscono la maggioranza anagrafica – va guardato negli occhi, compreso per la verità che esprime. Le notizie sul primo morto a L’Avana in incidenti, quelle su molti arresti e atti di repressione che allarmano Amnesty international. non aiutano a dare risposta alla folla scesa in strada. Bisogna comprenderlo quel «perché». Non bisogna sottovalutarlo. E bisogna tenere aperto il dialogo con la grande massa della popolazione.
I problemi drammatici di Cuba li ha ammessi finanche il presidente Miguel Diaz-Canel nel suo intervento televisivo di lunedì sera, quando ha chiamato la popolazione a difendere la storia di Cuba. Diaz-Canel ha poi picchiato duro contro l’embargo statunitense in vigore dal 1962, accusando gli Stati Uniti di cogliere le difficoltà attuali dell’isola per fomentare e organizzare episodi di rivolta con l’obiettivo della destabilizzazione politica.
Chi segue le vicende cubane, sa che nelle parole del presidente cubano c’è molto di vero. Nell’era della presidenza di Donald Trump, le misure di blocco economico sono state in effetti esasperate intralciando ogni scambio economico internazionale con l’isola e perfino l’attività delle agenzie che fanno da tramite per le rimesse degli emigrati.
Tra le misure introdotte, ce n’è una particolarmente odiosa: chiedere il visto per andare negli Stati Uniti in visita famigliare è diventata una sorta di via crucis (va richiesto di persona in un terzo paese con un investimento economico che non ne garantisce l’ottenimento).
Finora la nuova presidenza di Joe Biden non ha invertito la rotta. Cuba, per la Casa Bianca, resta pure nell’elenco dei paesi terroristici come stabilito da Trump. Le relazioni tra Washington e l’Avana sono, in questo 2021, perciò inesistenti.
La visita di Barack Obama a Cuba del 2016 è un ricordo lontanissimo. In quell’occasione sembrò che le due sponde della Florida si fossero avvicinare per convivere in amicizia. L’orologio della storia ha invece ripreso a girare all’incontrario nel caso cubano. Tutto questo merita più informazione e condanna.
L’accanimento contro Cuba non può essere giustificato in nome della «democrazia». Sessant’anni di vicende controverse sono lì a dimostrarlo: l’embargo ha prodotto solo inasprimento di rapporti da una parte e giustificazioni per non cambiare dall’altra. Lo dice in queste ore a Washington il democratico Bernie Sanders, che ne chiede l’abolizione e raccomanda a Cuba di permettere libere manifestazioni di dissenso.
L’Avana in questi anni ha provato a cambiare con apertura all’economia mista e agli investimenti stranieri, superamento dell’ossificato modello d’importazione sovietica, una nuova e più moderna Costituzione, forme più partecipative socialmente, nuove relazioni internazionali con Unione europea e America latina, con una recente riforma economica che ha allargato i settori del lavoro privato e abolito l’uso di doppie monete all’interno, però Covid e non attenuazione della pressione statunitense si sono fatti sentire in modo acuto.
Su questa marcia di cambiamento – forse lenta ed insufficiente, questa è la parte non detta del discorso di Diaz-Canel – ha sempre pesato il macigno dell’embargo americano. Quel blocco va eliminato. Non ce n’è mai stato un altro nella storia contemporanea così crudele e prolungato.
Difficile fare previsioni sull’immediato futuro. Cuba ha dimostrato di avere più delle classiche sette vite dei gatti.
Mosca e Pechino hanno già messo l’altolà rispetto ad ingerenze da parte di Washington. L’Unione europea condanna la repressione, tuttavia può e deve operare mediazioni. Così il Vaticano. La maggioranza dei Paesi latinoamericani non chiede epiloghi violenti a L’Avana.
All’interno dell’isola è intanto ricomparso il «pensionato» Raúl Castro nei vertici di governo per fare il punto della situazione: lui può essere garanzia di pragmatismo da vecchia guardia. Certamente, Cuba è a uno dei bivi della sua storia.
* la foto ritrae una manifestazione a sostegno del governo che si è svolta l’11 luglio 2021 a L’Avana.