Lavoro. Vanno riviste le vecchie “casse integrazioni”, con la riorganizzazione degli orari di lavoro. E nuovi istituti di integrazione salariale per difendere l’occupazione
Una riforma deve essere vista ora come una delle riforme indispensabili e prioritarie connesse al Pnrr. Si dovrebbero allora considerare innanzitutto le questioni nuove e strategiche sulle quali intervenire, per determinare una riunificazione sociale e politica di tutte le parti del lavoro ora distinte e immerse in una selva di condizioni diverse e corporative, come si è drammaticamente visto nell’emergenza.
Siamo di fronte ad una condizione nella quale conviveranno per lungo tempo crisi e rilancio, con processi di grandi riorganizzazioni, spinti ancor più̀ dalle radicali innovazioni tecnologiche ed ecologiche che caleranno, e in modo accelerato, in tutti i settori. E’ questo lo scenario nel quale si inserisce la stessa proposta europea di “New Generation“: non un albero di cuccagna ma un grande e ben difficile banco di prova anche e soprattutto per l’Italia; per il necessario “salto di produttività”.
Si dovrà affrontare non solo il problema di “non poter mantenere posti di lavoro in aziende obsolete – come recita di nuovo la vulgata padronale – ma soprattutto la necessità di governare processi di ristrutturazione-innovazione, che richiederanno un mix inedito di interventi pubblici, sostegni finanziari per investimenti e per nuova organizzazione del lavoro. Assicurando quindi una eguale tutela e protezione del lavoro nelle micro e piccole imprese e nei settori (commercio, turismo, logistica, intrattenimento, servizi alla persona) che ora possono essere i principali ambiti di un’onda lunga soprattutto di ulteriore precarizzazione del lavoro.
Occorre una Riforma Universalista per unire il lavoro con Nuovi Diritti Comuni. Si dovrebbero non solo estendere ma reimpostare le attuali, attempate “casse integrazioni”, con una visione comprensiva del tema generale della riorganizzazione degli orari di lavoro. E quindi formulare nuovi istituti definibili Contributi di integrazione salariale per la salvaguardia dell’occupazione, ponendoli esplicitamente come alternativi in prima istanza alle riduzioni di organico con licenziamenti collettivi “in tronco”, mettendo a terra così pure “lo spirito” della “raccomandazione” a cui si è giunti per moral suasion del presidente Draghi.
Da un lato un Istituto (per il quale Inps potrebbe erogare direttamente attraverso le imprese eliminando i ritardi di pagamento) di compensazione alle riduzione di salari e stipendi per temporanee riduzioni di orario, definite con accordi sindacali, derivanti da riduzioni parziali di attività per motivi oggettivi di mercato o di ristrutturazione.
E dall’altro lato, un Istituto che sostenga, ove inevitabili e necessari, percorsi di riconversione professionale o di ricollocazione dei lavoratori effettivamente organizzati in collaborazione tra impresa ed Enti pubblici preposti, che dunque assicuri per un tempo congruo, sia il salario/stipendio sia l’impegno formativo, se davvero non si vuole piu lasciare il lavoratore nella solitudine della disoccupazione e nell’affanno della ricerca solo individuale o tra tanti Enti, di altre effettive opportunità.
Non si tratta di chimere: esiste già da tempo l’esempio del “ Kurz Arbeit “ tedesco, il “lavoro breve”, cioè con orario ridotto, con salari e stipendi compensati dall’intervento pubblico, esplicitamente rivolto ad evitare riduzioni di organico, consolidato durante il lockdown; così come sul modello tedesco di intervento nei processi di ristrutturazione d’azienda è stato pensato l’altro Fondo europeo “Sure”, che quindi l’Italia non dovrebbe utilizzare solo per finanziare le attuali casse integrazioni.
Questa del resto è la via dei contratti di solidarietà, sostenuta giustamente da Cgil, Cisl e Uil, che però lasciata solo alla contrattazione, è rimasta e resterebbe, se pure irrobustita con qualche incentivo in più, circoscritta ai casi delle migliori possibilità e di maggior forza. Si tratta peraltro di soluzioni del tutto sostenibili anche in punta di diritto: è stato già argomentato da autorevoli giuslavoristi, che una finalità di “prevenzione delle riduzioni d’organico”, è in effetti presente e fondante nel principio giuridico dell’attuale intervento pubblico con le “Casse Integrazioni”. Dunque potrebbe essere così riargomentata anche una riforma della legge 223/93, che disciplina ancora i licenziamenti collettivi, affermando che “il datore di lavoro deve esperire l’uso degli istituti alternativi ai licenziamenti o dimostrarne l’inattuabilità”.
La Riforma poi deve introdurre veramente Istituti eguali per tutti i lavoratori, quindi assorbendo sia pure progressivamente anche i tanti “Fondi bilaterali”, succedanei ridotti di cassa integrazione e d’altra parte facendo diventare compiutamente Istituto generale l’attuale indennità̀di disoccupazione, invece che introdurre altre diverse previdenze: allargandola in forme congrue alle interruzioni del lavoro parasubordinato o autonomo o a tempo determinato, ed estendendola a disoccupati di più lungo termine e inoccupati in cerca di lavoro, proprio per contrastare il fenomeno, invece in questi mesi cresciuto, dell’abbandono e dell’inabissamento .
Appare anche opportuno, per consolidare, riformandolo, connettere lo stesso Reddito di Cittadinanza a tale Indennità invece che farlo arretrare a causa degli insuccessi per l’ avviamento al lavoro, a Sussidio di povertà, finendo per rinunciare all’intervento, come integrazione a redditi parziali e insufficienti rispetto ad una soglia minima, in tutto il variegato mondo del lavoro semi o del tutto irregolare, che invece il reddito di cittadinanza ha colto. Per tutti i percettori di tale Indennità dovrebbero essere previsti infine opportunità e obblighi condizionali di formazione ben più efficaci di qualsivoglia attività ispettiva.
Infine anche da queste necessità di una Riforma riunificante di tutti gli istituti di protezione sociale dalla disoccupazione, appare opportuna una soluzione legislativa che dia corpo al principio costituzionale del diritto “all’”esistenza dignitosa” dell’Art.36 nella forma di un minimo vitale concretizzato in una soglia di reddito minimo, che possa essere assunto come riferimento unificato delle diverse previdenze sociali oggi ancora incomprensibilmente diversificate.
Si tratta, in definitiva di passare da una forma di protezione su base assicurativa, differenziata per quante sono le situazioni, che lascia scoperto il lavoro più fragile e marginale, ad una forma di protezione su base fiscale, valida per tutte le forme di lavoro, salariato e autonomo. Una forma di protezione uguale per tutti.
Giappone. La ricorrenza è l'occasione per esercitare la più forte pressione sul governo perché firmi e ratifichi il Trattato di Proibizione delle armi nucleari in vigore dal 22 gennaio 2021
Il 6 agosto di 76 anni fa alle 8,15 del mattino la prima bomba atomica sul Giappone inceneriva all’istante la città di Hiroshima e 140 mila dei suoi abitanti, 3 giorni dopo la stessa sorte toccò a Nagasaki (un totale di più di 300 mila vittime, per le conseguenze successive). Poi ebbe inizio la guerra fredda con la folle corsa agli armamenti, che portò gli arsenali nucleari di Usa e Urss verso il 1985 al numero demenziale di 70.000 testate.
Anche se non vi è stata una guerra nucleare (a dispetto di numerosi falsi allarmi sventati solo dal sangue freddo di alcuni ufficiali), ben 2056 test nucleari (dei quali 516 in atmosfera) hanno provocato una scia di malattie tumorali (la compianta scienziata Rosale Bertell valutò più di un miliardo di vittime dirette o indirette dell’Era nucleare) e danni incalcolabili all’ambiente: recentemente si moltiplicano richieste di risarcimenti dalle popolazioni vittime dei test nel Pacifico e nel Sahara. Senza contare i minatori delle miniere di uranio, tutti appartenenti a popolazioni emarginate o povere, i quali hanno contratto un numero enorme tumori ai polmoni (il popolo Navajo ha proclamato il giorno del ricordo e dell’azione il 16 luglio, data del Trinity Test).
Oggi di fronte all’insostenibile aggravamento della crisi climatica, e con l’occasione della pioggia di miliardi per risollevarsi dalle conseguenze della pandemia, si invoca ovunque una
Leggi tutto: Dopo Hiroshima la minaccia resta ancora atomica, altro che green - di Angelo Baracca
Commenta (0 Commenti)L'ordine del giorno presentato da Rossella Muroni (Misto) chiedeva di escludere dalla tagliola prevista dalla riforma Cartabia i processi legati ai reati ambientali. Inizialmente accantonato per riformulazione, il testo è stato ripresentato in Aula e il gruppo Cinquestelle ha annunciato il voto a favore. Alla fine è stato respinto con 186 no e 181 sì, nonostante il parere contrario del governo
Monte dei Paschi di Siena. Se si vuole perseguire l’interesse pubblico, è infatti indispensabile che tutte le opzioni possano rimanere sul tavolo e che, anche qualora politicamente prevalesse l’idea della privatizzazione, questa possa essere negoziata senza essere influenzati dal fattore tempo
Dal dossier Mps, sembra scomparsa senza possibilità di appello l’unica opzione sensata: il mantenimento in mano pubblica della Banca, la sua ricapitalizzazione ad opera del Tesoro, la definizione di una mission di supporto all’economia nazionale, allo sviluppo di filiere produttive strategiche, alla realizzazione del Pnrr.
È l’effetto del governo Draghi, che ha assorbito la gran parte dell’arco parlamentare in un’operazione di restaurazione politica, di cui il ritorno all’ortodossia di mercato è il risultato più evidente.
Mercato all’italiana, ben inteso, in cui i profitti devono essere sistematicamente privatizzati e le perdite scaricate per intero su lavoratori e contribuenti, con la politica ridotta a garante di questo ben oliato meccanismo. Si dice che all’origine di tutto stia un obbligo contratto con l’Europa, che imporrebbe di cedere le quote detenute dal Tesoro entro dicembre 2021. Vero, come è vero che proprio quella clausola capestro fu oggetto di non poche critiche quando fu accettata dal ministro Padoan.
Diventa infatti complicata l’operazione di rilancio di un istituto di credito, così come la sua eventuale cessione a condizioni vantaggiose, se esiste la tagliola di una scadenza temporale fissata per legge. È d’altra parte incredibile che nel mezzo di una crisi globale che ha imposto la revisione di molti dei paradigmi del neoliberismo, non si possa ridiscutere un accordo preso con l’Unione europea in una fase storica lontana anni luce.
Vogliamo veramente assumere che si sia potuto sospendere il patto di stabilità, ma non si possa sottoporre a revisione una scadenza miope e sbagliata, nonché il suo fondamento ideologico, ovvero il rifiuto dell’intervento pubblico in economia?
Questo è il primo nodo a cui dovrebbero immediatamente applicarsi parlamento e governo: eliminare il vincolo alla cessione. Se si vuole perseguire l’interesse pubblico, è infatti indispensabile che tutte le opzioni possano rimanere sul tavolo e che, anche qualora politicamente prevalesse l’idea della privatizzazione, questa possa essere negoziata senza essere influenzati dal fattore tempo.
Il secondo è la ristrutturazione strategica del bilancio di Mps. Se lo Stato è disponibile ad investire miliardi per liberare dal peso insostenibile degli Npl un eventuale acquirente, non c’è motivo per cui non debba farlo per consentire alla Banca il proprio rilancio. Gli stress test dimostrano che Mps non è in grado di sostenersi alle attuali condizioni, ma rendono anche evidente che la causa di questa situazione stia nell’eredità della mala gestio passata, nonché nel rifiuto del governo Renzi di assumere per tempo l’iniziativa della nazionalizzazione.
Il terzo nodo è togliere definitivamente dal tavolo tanto l’ipotesi dello spezzatino, quanto della dell’arlecchino. La Banca non può essere fatta a pezzi per soddisfare acquirenti interessati solo ad acquisire gli asset migliori a prezzo di saldo, senza farsi carico del ruolo fondamentale svolto da Mps in Toscana e non solo. Lo spezzatino farà bene al bilancio di UniCredit e ai bonus di Orcel, ma fa male all’Italia.
Altrettanto sbagliata sarebbe tuttavia l’idea salviniana della “banca dei territori”, costruita con l’aggregazione di Mps, Popolare Bari e Carige.
Non si costruisce infatti nulla di solido con la sommatoria di drammatiche fragilità, che hanno in comune soltanto l’attuale stato di difficoltà.
Meglio è che Mps venga ripulita degli asset deteriorati ed eventualmente alleggerita attraverso il fondo esuberi di costi fissi in eccesso, favorendo il ricambio generazionale, per poi valutare l’ipotesi stand alone in mano pubblica o la possibilità di integrazione in un polo bancario di maggiori dimensioni. In questo modo i 10 miliardi di cui si parla sarebbero un investimento sul futuro dell’Italia e non una regalia ad Unicredit o ad un altro soggetto.
* Responsabile nazionale economia di Sinistra italiana
Commenta (0 Commenti)Il caso. Dopo lo sblocco dei licenziamenti. Draghi: un tavolo con i sindacati «tra fine agosto e settembre». Ma è emergenza. Dagli ammortizzatori sociali fino alle politiche della prevenzione sul lavoro: lo stallo dell’esecutivo
Mentre continua lo stillicidio dei licenziamenti sbloccati dal primo luglio attraverso le mail, un Whatsapp o con le modalità tradizionali il presidente del Consiglio Mario Draghi ha fatto sapere per le vie brevi, cioè a voce, ai sindacati confederali Cgil Cisl e Uil che lo hanno incontrato l’altro ieri a Palazzo Chigi che convocherà un incontro tra fine agosto e inizio settembre . Con calma, dopo le ferie agostane, un altro tavolo. E poi si vedrà. Resta senza risposta la richiesta di bloccare, subito, i licenziamenti con una norma apposita come richiesto tra gli altri dagli operai licenziati e insorti della Gkn, dai sindacati di base, dagli scioperi di due ore al giorno fatti dai metalmeccanici in luglio e anche dal segretario del Pd Enrico Letta che però mantiene da molti giorni un rigoroso silenzio. Il problema è che l’avviso comune sottoscritto il 29 giugno scorso dal governo con Cgil, Cisl e Uil e Confcooperative, Cna, Confapi, Confindustria non sembra avere un valore vincolante, almeno nelle prime aziende che non hanno deciso di usare gli ammortizzatori sociali prima di procedere ai licenziamenti.
SUL TAVOLO c’è anche un’altra norma, invocata da più parti, che dovrebbe impedire di licenziare alle aziende che hanno ricevuto dal governo sussidi e l’estensione della cassa integrazione nei mesi della pandemia. A cominciare dalle multinazionali. Nessuno sembra per ora avere ritenuto necessario, in questi casi, chiedere un impegno preciso alle aziende perché mantengano l’occupazione.
TUTTO QUESTO sta accadendo in mancanza di una politica industriale e di una riforma «universale» degli ammortizzatori sociali, anch’essa più volte annunciata dal governo. Il ministro del lavoro Andrea Orlando, che ieri sera ha incontrato gli operai della Gkn a Campi Bisenzio, aveva fatto trapelare che sarebbe arrivata «entro l’estate». Il che vuole dire: tra oggi e il 21 settembre. L’estate è lunga. Senza contare che, difficilmente, sarà totalmente operativa e avrà bisogno di un approfondito iter legislativo. Sbloccare i licenziamenti senza avere realizzato una riforma di questa portata costituisce oggi un’altra défaillance sia nel programma del «governo dei migliori» che in quello precedente del «Conte 2». Il problema era più che noto sin dalle prime settimane della pandemia: marzo 2020. Dopo un anno e mezzo non è stato fatto nulla, come del resto su tutte le politiche sociali, a cominciare dalla più volte evocata revisione del «reddito di cittadinanza». Qui si intende una stretta dell’impianto originario verso le politiche attive del lavoro anche punitive, tutte da costruire. Non si parla di una sua estensione, senza vincoli e condizioni, verso un reddito di base. Si sa come funzionano le cose nella politica del «vincolo esterno»: se una riforma non è esplicitamente richiesta dai custodi europei della cosiddetta «economia sociale di mercato», allora manca la condizione per ritenere assolutamente imprescindibile adottarla. E va tenuto conto del fatto che, se e quando arriveranno, questa o quella riforma risponderanno comunque alle regole del suddetto ordine.
I FRONTI della polemica politica, a partire dai licenziamenti, si stanno moltiplicando giorno dopo giorno. Versante Gkn: sta girando una petizione diretta a Mario Draghi con 6500 firme su appellogkn.it. è stato lanciato dagli ex presidenti della Regione Toscana Mario Chiti, Claudio Martini e Enrico Rossi, è stato sottoscritto anche da Don Giovanni Momigli per la Curia fiorentina e evoca un ruolo centrale dello Stato e il ritiro dei 422 licenziamenti da parte dell’azienda. Quest’ultima li ha confermati.
VERSANTE Logista a Bologna. Per Logistic Time, l’azienda appaltante da cui dipendono circa 65 lavoratori, più quelli dell’indotto, «a fronte delle modificate esigenze operative» si è trattato di un messaggio inviato a quelli in turno «dispensandoli, sebbene retribuiti», dalla giornata di lavoro« al fine «di organizzare le attività del sito». Un messaggio che »non si configura come lettera di licenziamento». Tali modalità hanno provocato ieri le critiche del presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini che ha chiesto, anche qui, l’intervento del governo: »Non esiste che in pochi secondi, il tempo di un messaggio su Whatsapp, si possano licenziare lavoratori». Sulla questione il movimento Cinque Stelle ha presentato una doppia interrogazione a Orlando sia alla Camera che al Senato.
Commenta (0 Commenti)Non funziona l’alibi "lo vuole l’Europa", visto che una parte delle tensioni con Varsavia e Budapest derivano dal sopruso di quei governi sui poteri delle loro magistrature
Salvo ripensamenti dell’ultima ora, la riforma Draghi-Cartabia conferisce al Parlamento poteri d’indirizzo sulle priorità dell’azione giudiziaria, in violazione del sacrosanto principio della separazione dei poteri che ispira la nostra Costituzione e, potenzialmente, dell’indipendenza della magistratura.
In tal modo, si realizza un obiettivo perseguito da anni con tenacia da un variegato schieramento partitico non privo di propaggini, se non diramazioni, all’interno della sinistra, ma soprattutto da quegli interessi privati e pubblici che s’intrecciano a vario titolo, non di rado illegalmente, con l’esercizio del governo.
Né il governo di oggi, con la maggioranza che lo sostiene, potrà accampare il solito alibi di un’imposizione di Bruxelles; che, anzi, potrebbe anche riservarci qualche sorpresa positiva, visto che una parte importante delle tensioni con Varsavia e Budapest derivano proprio dalle manomissioni da parte di quei governi dei poteri delle loro rispettive magistrature.
Un poco di storia – con un’impronta personale, difficile da evitare da parte di chi è stato partecipe, oggi testimone – può servire a chiarire l’entità della posta in gioco. La parte offesa non è soltanto Montesquieu perché, peggiorandoli con la nuova riforma, si entra nel nerbo dell’intreccio di poteri che segnano il nostro passato e presente. Questa storia non inizia con Tangentopoli, ma con la caduta del Muro di Berlino che la rese possibile. Anche se questa opinione mi costò un civile diverbio con Antonio Di Pietro, di fronte ad un attonito pubblico svedese, poiché egli attribuiva tutto il merito di quanto stava accadendo – perché di merito si trattava, su questo eravamo entrambi d’accordo – alla procura di Milano.
In realtà, se la guerra fredda non avesse avuto termine, quei poteri indipendenti che la Costituzione conferisce ai magistrati non si sarebbero esplicati nelle forme variegate e massicce, tipiche di Tangentopoli, colpendo bersagli altrimenti protetti da una ragion di stato votata a non favorire una forza politica che era e restava esclusa dal governo del Paese. Non a caso quei magistrati che non sottostavano a questa regola non scritta venivano bollati come “pretori d’assalto” (il copyright spettava a Flaminio Piccoli).
Purtroppo la partita riguardante l’indipendenza dei poteri della magistratura non era finita. Il così detto patto della crostata, consumata a casa di Gianni Letta, diede vita ad una nuova Commissione Bicamerale per la riforma della Costituzione, sotto la presidenza di Massimo d’Alema (allora segretario del Pds, per i suoi gusti insufficientemente occupato, essendo riuscito a portare Romano Prodi al governo del paese). Ricordo, come fosse ieri, il commento di uno dei partecipanti, Cesare Salvi, mio capogruppo al Senato, ad un tempo divertito e sconvolto: “L’unica cosa che a loro – Berlusconi e soci – interessa, è una riforma che consenta un controllo politico della magistratura che li garantisca in sede giudiziaria”.
Per ragioni ovvie. Infatti, nei mesi successivi il capitolo dedicato alla giustizia divenne il cuore del negoziato. Mentre il plenum della Commissione si cimentava su altri temi, in realtà dominava la scena politica la successione delle riscritture – se non sbaglio, si arrivò alla nona stesura – dedicate al capitolo della giustizia da parte del relatore Marco Boato.
A questo punto alcuni senatori, senza compromettere il loro capogruppo, si misero al lavoro per stilare un documento che raccolse ben 85 firme (quasi un terzo del Senato) prima di essere consegnato alle agenzie. Intento di Carlo Smuraglia, Raffaele Bertoni, Corrado Stajano, Rocco Larizza ed altri (tra cui il sottoscritto) era quello di dichiarare che non avrebbero votato alcuna riforma che condizionasse in alcun modo l’indipendenza della magistratura come garantita della Costituzione in vigore.
È possibile che concorsero altre ragioni. Sta di fatto che quell’iniziativa, dopo il fallimento di un’assemblea congiunta dei gruppi Pds della Camera e del Senato convocata allo scopo di richiamare all’ordine i firmatari del documento, segnò la fine della Bicamerale. Era diventato evidente a tutti, soprattutto a Berlusconi, che Massimo D’Alema, se anche lo avesse voluto, non sarebbe stato in grado di consegnargli ciò che egli esigeva: un controllo politico della magistratura che lo salvaguardasse dalle sue incombenze giudiziarie.
Infatti, negli anni successivi furono seguite altre strade consentite da maggioranze più o meno fluttuanti di centro-destra, dalle leggi ad personam a risoluzioni parlamentari ad hoc. Oggi, una maggioranza comprendente Pd e M5S, fino a qualche mese fa maggioranza di governo di diverso orientamento, reintroduce quella menomazione dell’indipendenza della magistratura e della separazione dei poteri che la Bicamerale aveva fallito attraverso una riforma costituzionale. Se non dovesse provvedere la Consulta, sarebbe necessario ricorrere ad un referendum abrogativo che troverebbe una maggioranza probabile, oltre che auspicabile, nel paese. Una maggioranza diversa da una, politica che oggi si riduce ad interesse collusivo e corporativo.
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