In pace. Non c’è retorica che tenga nel ricordarlo come un protagonista - il protagonista - del pacifismo internazionale, quella «terza potenza mondiale» che alla fine fu ripetutamente sconfitta dalle tante, troppe guerre attivate ormai da scelte bipartisan in nome dell’”umanitario” e/o della “democrazia”.
Gino, il compagno Gino Strada ci ha lasciato. È una morte pesante per il manifesto. Perché ovunque si sia mostrata in questi ultimi trenta anni una scellerata guerra promossa dall’Occidente, o direttamente o indirettamente, con le sue devastanti conseguenze, come la disperazione dei profughi in fuga dalle ultime macerie o la scia di sangue del terrorismo di ritorno, lì abbiamo sempre trovato Gino, perfino prima di noi, impegnato a dire no al nuovo, inutile spargimento di sangue. Come dimenticare poi che per alcuni anni insieme abbiamo promosso, con questo giornale, le nuove iniziative umanitarie da lui attivate nel grande serbatoio delle nostre ricchezze, il continente africano.
Non c’è retorica che tenga nel ricordarlo come un protagonista – il protagonista – del pacifismo internazionale, quella «terza potenza mondiale» che alla fine fu ripetutamente sconfitta dalle tante, troppe guerre attivate ormai da scelte bipartisan in nome dell’”umanitario” e/o della “democrazia”.
Lui l’alternativa alla guerra la costruiva umanitariamente ogni giorno sul campo con la pratica di Emergency, negli ospedali che il suo pacifismo attivo – non a chiacchiere – apriva, dove le armi non entravano e pronti ad accogliere tutte le vittime bisognose di cura e soccorsi, abolendo così la figura del nemico.
È sconvolgente che Gino Strada muoia nel momento in cui muore, un’altra volta, l’Afghanistan dopo venti anni di occupazione militare delle missioni Usa e Nato, rioccupato da quei talebani che la guerra del 2001 voleva sconfiggere e punire, come vendetta dell’11 settembre. Tra meno di un mese è il ventesimo anniversario di quella data che ha cambiato il mondo e gli Stati uniti a guida Biden riconoscono – indirettamente – che quel conflitto, che tanto sangue è costato soprattutto dei civili, è stato insensato. Un comportamento criminale che oscura ancora di più le nebbie già fitte delle Twin Towers distrutte. Ma naturalmente la logica del dominio non può perdere la faccia, tutto sembra preordinato e tutto va sacrificato: basta salvare l’ambasciata americana.
Sembra un film ma non lo è. Regna il caos ora in terra afghana, tra rovine, disperazione dei civili in fuga e massacri che si annunciano. Così l’addio di Gino appare come una nemesi: se ne va, dalla parte del torto proprio quando aveva ragione, proprio mentre la scena del disastro che ha denunciato mille e mille volte è illuminata nei suoi recessi più nascosti e mentre trionfano le sue parole di pace e di critica all’intervento armato.
Ora la morte di un uomo buono, giusto ma irriducibile, figlio di una generazione tutt’altro che sottomessa, ci lascia un testimone prezioso: quello di essere all’opposizione di ogni avventura militare.
Gino Strada lascia eredi non solo nelle nostre convinzioni profonde ma nel comportamento di tanti giovani ancorché nascosti nelle pieghe quotidiane della cronaca.
Chissà cosa pensa, mi sono chiesto, quando solo due settimane fa – mentre l’Amministrazione Usa avviava il ritiro delle truppe sul terreno – un tribunale americano si affrettava a condannare per tradimento a quattro anni di prigione Daniel Hale, giovane analista dell’intelligence dell’aviazione Usa che, contro tutto e tutti, ha avuto il coraggio di denunciare i crimini a distanza sui civili afghani dei bombardamenti fatti con i droni. Un fatto è certo, la missione di Gino Strada costruttore di pace non finirà con lui. E ci chiama a ruolo e a responsabilità.