Migranti. In piazza Montecitorio manifestanti bendati
L’applauso più forte è per chi la Libia l’ha vista. «Raccoglievo pietre nel deserto che poi venivano usate per costruire edifici. Sono stato in prigione: mi picchiavano ogni giorno e mi facevano telefonare a casa per chiedere soldi – racconta Basquiat, del movimento rifugiati di Caserta – Se il governo italiano crede nei diritti umani metta fine a questi accordi».
Il ragazzo parla dopo il minuto in cui i manifestanti riuniti in piazza Montecitorio si schierano in file parallele di fronte al parlamento, si bendano gli occhi e rimangono muti. «Questo minuto di silenzio è per chi ha perso la vita in mare o nei centri di detenzione, ma anche per ricordare la codardia di chi domani voterà il rifinanziamento della missione», dice Giovanna Cavallo, del Forum per cambiare l’ordine delle cose. È una delle realtà promotrici di un appello a mobilitarsi sottoscritto da un centinaio di organizzazioni. In piazza si vedono grandi Ong e piccoli collettivi, parlamentari dissidenti, migranti, attivisti, volontari. Ci sono le bandiere di Emergency e Amnesty International, le «mani rosse antirazziste» e le magliette di chi solca il Mediterraneo a bordo delle navi umanitarie: Medici senza frontiere (Msf), Open Arms, Mediterranea, Sea-Watch, Sos Mediterranée. Sventolano i cartelli «Abolish Frontex» e «Niente accordi con la Libia».
Da queste parti la proposta del segretario del Partito Democratico Enrico Letta di trasferire l’addestramento dei libici all’Unione Europea non piace, tantomeno convince la possibilità di astensione del centro-sinistra che circola nel tardo pomeriggio. «Ci aspettavamo che il Pd desse seguito all’impegno che aveva preso su questa vicenda e segnasse una discontinuità coraggiosa», dice Filippo Miraglia dell’Arci. «Il problema non è quale soggetto ne addestra un altro a compiere reati, ma che non bisogna farlo. I libici catturano i migranti, li rinchiudono nei centri, utilizzano violenza. E tutto questo è illegale», afferma Claudia Lodesani, presidente di Msf Italia.
Il punto di vista di questa Ong è particolarmente interessante perché ha operatori sull’isola di Lampedusa, sulla nave Geo Barents nel Mediterraneo centrale (ora bloccata), in Libia e nei paesi di transito e origine dei migranti. Recentemente ha deciso di chiudere l’intervento in tre centri libici. «I livelli di violenza non erano più tollerabili. Il nostro unico obiettivo, con Unhcr e altre organizzazioni, è evacuare le persone. Nell’ultimo anno la situazione è peggiorata», spiega Lodesani. Eppure proprio un anno fa la maggioranza che allora sosteneva il secondo governo Conte si era fatta vanto dell’impegno, approvato insieme al rifinanziamento, di far garantire il rispetto dei diritti umani da parte della sedicente «guardia costiera libica» e poi nei luoghi di reclusione.
«È stato tutto detto ed è stato tutto visto. L’inferno che si patisce nei campi è ormai risaputo», dice Riccardo Magi (+Europa). Insieme al senatore del gruppo misto Gregorio De Falco insiste sulle recenti rivelazioni, o «confessioni», del ministro della difesa Lorenzo Guerini a proposito del ruolo proattivo che la nave della marina militare italiana di stanza nel porto di Tripoli gioca nelle intercettazioni dei migranti. «Stiamo autorizzando missioni che prevedono una nostra funzione operativa per azioni illegali dal punto di vista del diritto internazionale», dicono.
«Abbiamo sostenuto chi spara sui migranti e sui pescatori italiani. È necessario rivedere il finanziamento. Il parlamento, invece, sembra andare in automatico», sottolinea la deputata Pd Laura Boldrini. «Questa missione va semplicemente cancellata perché è contraria alla cultura migliore di questo paese, alla dignità politica del parlamento e al contenuto della Costituzione. È ora di mettere fine alla gestione emergenziale di un fenomeno strutturale come le migrazioni», afferma il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni.
Commenta (0 Commenti)Giustizia. Dai licenziamenti brutali all’attacco del reddito di cittadinanza, alla riforma della giustizia, le destre sociali e di governo mettono in campo le politiche padronali
«Governo dei padroni». Mi scuso per la rozzezza dell’espressione, che può apparire desueta e forse un po’ naif, ma non riesco a trovarne una migliore per sintetizzare la natura sociale (e morale) di questo governo che si annuncia «di tutti» e che in realtà è di uno solo, un banchiere.
Il quale a sua volta ha un unico indirizzo di riferimento: Viale dell’Astronomia 20, ovvero la sede di Confindustria, il regno di Carlo Bonomi, il quale fin dall’inizio, dal momento in cui si è conosciuto l’esito delle ultime elezioni politiche, non ha smesso di premere e brigare per sostituire alla volontà popolare i propri particolari desiderata di un governo amico. Di più: di un governo identificato pressoché senza residui con la propria visione del mondo e con i propri interessi. E alla fine c’è riuscito.
Esemplare – ripetiamolo! – e persino caricaturale, il caso dello sblocco anticipato dei licenziamenti, con quell’«obbedisco» pronunciato con disciplina pronta e assoluta dal Capo del governo nei confronti del Capo degli industriali che non tollerava dilazioni.
Gli effetti di quell’atto d’imperio che era in realtà gesto di sottomissione li misuriamo ora, in tutto il loro impatto sulle condizioni di vita dei lavoratori. I nuovi padroni della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto – il gruppo speculativo tedesco le cui linee guida sembrano tratte direttamente dal decalogo di Gekko, l’indimenticabile e mostruoso protagonista del film di Oliver Stone su Wall Street – non hanno aspettato più di 72 ore per far fuori i loro 152 dipendenti.
Li hanno seguiti a ruota quelli della Gnk di Campi Bisenzio, con i loro 422 agnelli sacrificali. In entrambi i casi con un brutale messaggio digitale – una mail in un caso, un whatsapp nell’altro: l’equivalente dell’ottocentesco licenziamento ad nutum, quando appunto bastava un cenno del capo del padrone per cacciare il dipendente.
Sono l’esempio della velocità e della estensione della regressione nei rapporti di lavoro che il modello di governance emerso in coda alla pandemia sta producendo, e che in Italia ha un profilo davvero esemplare nella materializzazione del potere del denaro in una sola persona.
Né vale l’argomento che siamo gli unici in Europa a chiedere quel blocco, dal momento che siamo anche quelli che mancano tuttora di efficaci ammortizzatori sociali, ed è stato imperdonabile togliere il blocco prima di metter mano alla riforma di questi.
D’altra parte non ci siamo dimenticati la risposta istintiva, quasi un riflesso pavloviano, che Draghi oppose alla timidissima proposta di tassazione delle successioni milionarie: quel «non è il momento di prendere, è il momento di dare» (possiamo immaginare alla piccola platea di super-ricchi che per lui sono «il mondo», dal momento che agli altri, tra rincaro delle bollette e prelievi sui salari, a prendere continua) che la dice lunga su quali siano le sue priorità sociali, anche al livello dell’inconscio.
E neanche abbiamo scordato il tormentone sul deficit «buono» e quello «cattivo», dove il secondo è la spesa in sussidi mentre il primo in investimenti, cioè in sostegno alle imprese mentre le persone possono tranquillamente affondare… È in fondo l’assioma di Flavio Briatore – «i poveri mangiano perché ci sono i ricchi» – solo per pudore riformulato in termini meno grezzi.
E sono sicuro che non passerà molto tempo e anche il reddito di cittadinanza finirà under attack – Renzi «terminator» si è già messo in moto -, cosicché anche questo strumento, sia pur mal congegnato e insufficiente, di contrasto alla povertà verrà liquidato o si tenterà di farlo. In questo caso quelle stentate briciole che riservava ai quasi 6 milioni di poveri assoluti saranno dirottate ai pochi che già hanno.
Nemmeno la cosiddetta «riforma della giustizia» si salva da questo segno brutalmente padronale. So bene che la vexata quaestio della prescrizione dal punto di vista strettamente giuridico – della «dottrina pura» del diritto direbbe Hans Kelsen – è intricata, e di non univoca soluzione, come ci ha spiegato Azzariti. Ma da un punto di vista più materialmente sociale (o sociologico) le cose mi sembrano terribilmente chiare.
Personalmente non riesco a non pensare che Berlusconi si è salvato da sei processi (tre per falso in bilancio, tre per corruzione) perché così ricco da pagarsi avvocati specializzati nell’arte della dilazione. E che grazie alla prescrizione si è salvato il barone Stephan Schmidheiny proprietario superstite di Eternit, di cui erano documentate le responsabilità per disastro ambientale, e dal cui business sono derivati più di 3000 morti per mesotelioma pleurico nella sola Casale Monferrato. Anche lui aveva un enorme capitale, guadagnato sulla pelle delle sue vittime, per comprarsi il tempo necessario a prescrivere i suoi reati.
Dicono le cronache che in aula tra il pubblico sedevano uomini e donne attaccati alla bombola d’ossigeno, ovvero alla fine della loro vita. E che il sostituto procuratore della Cassazione, a commento della sentenza, disse che a volte accade che «diritto e giustizia vadano da parti opposte».
Questo per dire quanto, in una società divisa da diseguaglianze abissali, sia moralmente assurdo e cconoscitivamente errato applicare criteri di eguaglianza formale, come non smettono di fare la ministra Cartabia e con lei chi su quel deficit mentale continua a fondare i propri privilegi.
E questo è e resta, con buona pace di chi fingendo di non saperlo continua a sostenerlo, il governo del privilegio.
Commenta (0 Commenti)Raccolte centinaia di firme
Il ddl Zan divide la politica ma spacca anche il mondo cattolico, che non è quel blocco monolitico obbediente alle «note verbali» della Segreteria di Stato vaticana e agli appelli della presidenza della Conferenza episcopale italiana, ma una realtà decisamente più complessa e variegata, come ha illustrato anche un recente sondaggio Ipsos-Corriere della sera, secondo il quale tra i cattolici praticanti il 47% è favorevole al ddl Zan, il 29% contrario.
Ha infatti superato le 1.100 firme la lettera aperta – nata fra i cattolici di base – inviata a senatori e senatrici che chiede di «approvare senza modifiche» il disegno di legge per la prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.
«Come cittadini, credenti lgbt e loro genitori, gruppi, associazioni cristiane e non, operatori pastorali che conoscono da vicino la condizione delle persone lgbt+ abbiamo deciso di lanciare un ultimo appello ai nostri rappresentanti in Senato per spiegare perché consideriamo importante approvare, senza modifiche, il ddl Zan», dicono gli attivisti di Progetto Gionata (www.gionata.org), portale web su fede e omosessualità, principale animatore dell’iniziativa. In poche ore hanno risposto all’appello 71 organizzazioni: il movimento Noi Siamo Chiesa, il Cipax, la parrocchia sant’Alberto di Trapani, l’agenzia di informazioni Adista, molte comunità cristiane di base, fra cui quella dell’Isolotto a Firenze e di San Paolo a Roma; nel mondo protestante la Federazione giovanile evangelica, la Federazione delle donne valdesi e metodiste, la Rete delle donne luterane. E oltre mille persone: qualche parroco, diversi preti, religiosi e religiose, alcune teologhe e teologi, pastore e pastori evangelici, tanti e tante credenti.
«In Italia dal 2013 ad oggi sono state registrate 1.285 vittime della violenza dell’omotransfobia, di cui 191 solo quest’anno – spiegano –. Siamo dell’opinione che la mancata approvazione del ddl, per queste persone e per la società italiana comporterebbe un danno maggiore rispetto agli eventuali inconvenienti, su cui si potrà intervenire in seguito, grazie ad un confronto schietto e fecondo».
Gli «inconvenienti» sono alcune formulazioni controverse e complesse previste dal ddl che tuttavia, secondo i firmatari della lettera, vanno mantenute, a cominciare dalla dicitura «identità di genere», perché «complessa è la realtà esistenziale che descrivono». Circa poi i rischi paventati dalle gerarchie ecclesiastiche che la legge possa limitare la libertà di espressione o imporre alle scuole una sorta di «dittatura ideologica», si tratta di falsi allarmi: «Riteniamo che l’articolo 4 offra a chiunque sufficienti garanzie, tra l’altro già assicurate dalla Costituzione», spiegano, e che nelle scuole si voglia promuovere non la fantomatica ideologia gender, ma «un’educazione al rispetto di ogni persona nella sua diversità affettiva e sessuale».
Commenta (0 Commenti)Il vuoto affluente. Con l’«occasione» della pandemia proprio nulla dovrebbe tornare come prima, e il lavoro dovrebbe essere garantito e sottratto alle logiche del mercato
Con le finestre aperte nelle sere d’estate ecco che arriva l’urlo lancinante: «Chi ha fatto palo». Dunque torna la stagione fantozziana sospesa tra subalternità, disperante comicità della diffusa solitudine, il tutto dentro un vuoto affluente dove il «palo» altro non è che la realtà mancante, la rete segnata che non viene…ma basta il palo per entrare nella magnificenza della verità televisiva. Si dirà che il goal poi è arrivato e arriverà a soddisfare l’empito di massa. Ma il vuoto resta. È quello del presente e del futuro del Paese.
Dove, a pandemia non ancora finita, gli appetiti dei privati sulla sanità pubblica tornano all’arrembaggio; mentre dovrebbe esser chiaro una buona volta per tutte che siamo vivi e salvi solo perché nonostante tutto è rimasto in piedi, grazie a lotte dimenticate, il servizio sanitario pubblico; e invece nei sistemi sanitari differenziati, quelli regionali – il modello Lombardia p.s. -, è un corri corri a spartirsi l’immensa torta che si prepara. Dov’è il misfatto? Che i privati nella sanità esistono quasi esclusivamente solo grazie ai finanziamenti pubblici sottratti alla salute collettiva.
E il vuoto resta sulle condizioni di sfruttamento del lavoro. Nei quattro giorni seguenti alla firma dell’accordo sullo sblocco dei licenziamenti, con tanto di « avviso comune» e «raccomandazioni», due aziende, una di Assolombarda e l’altra una multinazionale, hanno licenziato via mail 150 persone nel primo caso, 422 nel secondo.
Confindustria licenzia appena può. Tanto la «penale» sarà il soccorso integrativo dello Stato. Ormai il salario dei lavoratori è di fatto pagato dalla collettività anche per sostenere – questo è il paradosso – l’esistenza della proprietà privata dei mezzi di produzione. Eppure in piena pandemia 20 milioni di persone hanno continuato a lavorare ogni giorno, in presenza e/o in telelavoro da più di un anno e mezzo. Meriterebbero riconoscimenti, invece sono minacciati dal «ritorno alla normalità», la nuova ideologia che sostiene gli interessi del finanz-capitalismo e che è il pane quotidiano dell’onnivoro governo di tutti, il governo Draghi, che rappresenta una rendita di posizione della destra: dalla residua Fi, alla sovranista Lega fino all’estrema destra di Fd’I che infatti fa – premiata – l’opposizione di sua maestà. E che dire della rendita di Matteo Renzi che,
Leggi tutto: Chi ha fatto palo? - di Tommaso Di Francesco
Commenta (0 Commenti)Firenze. La multinazionale inglese dà il benservito via mail alle 422 tute blu fiorentine di Campi Bisenzio. I sindacati: intervenga il governo
Licenziati in 422 con una mail arrivata sulla loro pec, meccanismo consentito dal jobs act, le operaie e gli operai della Gkn Driveline di Campi Bisenzio sono entrati comunque nello stabilimento di componentistica auto che i padroni inglesi di Melrose vogliono chiudere, e dal primo pomeriggio di ieri sono in assemblea permanente, prendendo la decisione di presidiare la fabbrica giorno e notte. Anche fuori dai cancelli è stato subito organizzato un presidio di solidarietà, sempre più partecipato via via che la notizia veniva data da radio e tv locali e rimbalzava sui social. Furibondi i sindacati, Fiom Cgil in testa, ed esterrefatto l’intero arco delle forze politiche toscane, da Potere al popolo e Rifondazione comunista, che hanno sempre seguito e appoggiato le vertenze delle combattive tute blu Gkn, a Sinistra italiana, 5 Stelle e Pd, fino a Lega e Fratelli d’Italia.
Gelata anche la Confindustria fiorentina, che di fronte alla procedura di licenziamento collettivo «aperta in totale autonomia da Gkn Driveline», spiega che «non aveva avuto alcuna informazione», prendendo le distanze dalle modalità utilizzate. Solo Carlo Bonomi, leader di Confindustria nazionale, l’ha presa larga, cercando di difendere l’ «avviso comune» sottoscritto con il governo e i sindacati confederali. «Chi vuole strumentalizzare questi argomenti vuole solo fare polemiche. L’avviso comune prevede una raccomandazione a usare tutti gli strumenti disponibili, e le aziende che stanno procedendo a chiusure potevano licenziare anche prima, perché la cessazione di attività era una delle clausole esimenti anche in presenza del blocco dei licenziamenti».
Come nel caso dei 152 lavoratori e lavoratrici della brianzola Gianetti, le tute blu della Gkn si sono trovati all’improvviso senza più un impiego, dopo aver regolarmente fatto il loro turno fino alla notte precedente. «Un comportamento vigliacco, senza rispetto per le persone e per il territorio – annota la solitamente moderata Fim Cisl – una modalità banditesca che condanniamo senza appello. Proprio questa mattina l’azienda aveva messo tutti i lavoratori in Par (permesso annuo retribuito) collettivo in vista del ferie estive, e in fabbrica non c’era nessuno. Da informazioni che abbiamo raccolto pare che l’azienda voglia delocalizzare, cosa che non ha nessuna logica visto che poco tempo fa sono stati effettuati importanti investimenti in macchinari e automatizzazione dello stabilimento».
Invece poco prima dell’alba sono stati portati via i server e i software necessari alla produzione di semiassi per diverse case automobilistiche tra cui Fca e Volkswagen, e al mattino i primi operai accorsi si sono trovati davanti non le abituali guardie giurate ma dei buttafuori, che comunque nulla hanno potuto di fronte a centinaia di lavoratori entrati comunque nella «loro» fabbrica. «Questa è come casa mia – ha spiegato una tuta blu davanti alle telecamere del Tg3 toscano – è da 27 anni che lavoro qui. E da qui non me ne vado». Dello stesso avviso i delegati sindacali della Fiom in fabbrica: «Non accetteremo licenziamenti – spiega Andrea Brunetti – né alcuna riduzione dei livelli occupazionali». «Siamo l’ennesimo caso di chiusura a tradimento – aggiunge Dario Salvetti – e ci chiediamo quanto dovranno andare avanti storie del genere».
I 41 sindaci della ex provincia di Firenze da oggi saranno a turno in presidio davanti ai cancelli, seguiti con ogni probabilità da quelli pratesi. «Il governo deve intervenire – osserva il presidente toscano Eugenio Giani – questo è un caso nazionale». Ma non sarà una vertenza facile: quando nel marzo 2018 il «buco» di 1,6 miliardi di euro accumulato da Gkn nel fondo pensionistico dei suoi dipendenti convinse gli azionisti ad accettare l’offerta da circa 9 miliardi del gruppo Melrose, specializzato nell’acquisizione e nel risanamento di aziende in difficoltà per poi rivenderle intere o a «spezzatino», intervenne il governo, preoccupato per il settore aerospazio di Gkn. Ma non per quello dell’automotive, tanto che lo scorso anno, in piena pandemia, Melrose a Birmingham ha mandato a casa 185 lavoratori su 600. Senza ricorrere agli ammortizzatori sociali, pur previsti dall’esecutivo inglese in casi del genere.
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