L'analisi. Le ipotesi di restyling della misura chiamata "reddito di cittadinanza" non risolveranno i problemi di una misura creati dai limiti fiscali e patrimoniali che impediscono di rispondere alla gravissima crisi sociale in corso. I ritocchi più significativi, ma tutti da verificare arriveranno dall'ennesima riforma delle "politiche attive del lavoro". Con i soldi del «Recovery» il governo vuole rafforzare la trasformazione del Welfare in Workfare, formalizzando il cambiamento della natura della cittadinanza sociale
In fila per il "reddito di cittadinanza" © Ansa
Tra settembre e ottobre il comitato di valutazione del reddito di cittadinanza presieduto da Chiara Saraceno potrebbe consegnare al ministro del lavoro Andrea Orlando alcune proposte di riforma del cosiddetto «reddito di cittadinanza». Vediamo le ipotesi in campo. Quella più certa sembra la modifica della scala di equivalenza che penalizza le famiglie numerose con i figli minorenni nella distribuzione del “reddito” (sostegno medio di 581,39 euro al mese per due milioni e 860 mila individui, in totale oltre 7 miliardi di euro all’anno). Si parla anche di dimezzare i dieci anni di residenza imposti ai cittadini stranieri extracomunitari (ma non ai comunitari) per accedere alla misura, queste famiglie va ricordato sono più povere di quelle già povere italiane. Ma sono state prese a bersaglio da una norma razzista dei cinque stelle e della Lega. Invece di cinque, ne basterebbero due.
Il problema che rende il «reddito di cittadinanza» tutt’altro che una diga contro l’impoverimento generalizzato – per l’Istat solo negli ultimi 12 mesi i «poveri assoluti» sono aumentati di un milione (5,6 in totale) – sono i limiti fiscali, patrimoniali e reddituali pensati per escludere e non per includere. Secondo la Caritas il 56% dei potenziali beneficiari già oggi non possono accedere alla misura a causa delle norme fiscali, reddituali e patrimoniali pensate per escluderli. Oltre a loro ci sono i «nuovi poveri», quelli che lavorano e che hanno perso il lavoro durante la crisi sociale innescata dalla pandemia. Anche per loro, si dice, andrebbe previsto una modifica delle norme che estenderebbe il «reddito» perché oggi la norma impedisce di dimostrare che nei due anni precedenti alla domanda c’è stata una perdita di reddito o fatturato. Si dice anche che il «reddito di emergenza», pensato a metà 2020 per evitare di estendere il «reddito di cittadinanza» sarà riassorbito dalla misura di cui rappresenta un doppione. Ma è anche possibile che sarà lasciato decadere.
Si ripete inoltre da mesi l’ipotesi tutta da dimostrare, ma sostenuta da più parti, di uno sdoppiamento del reddito come misura di ultima istanza per il sostegno dei poveri dal reddito come sussidio di disoccupazione e di inserimento al lavoro, magari trattandolo come un voucher o un assegno di ricollocazione che il beneficiario può «spendere» presso un centro per l’impiego o un’agenzia interinale. Questo è il cuore di tutte le polemiche tra chi ha presentato in maniera truffaldina una misura che non è un «reddito di cittadinanza» come tale e chi invece ritiene in maniera infondata che tale misura avrebbe da sola prodotta «posti di lavoro», per di più in un paese colpito da una pandemia mondiale. Questo gioco degli equivoci, e della malafede, alimenta le polemiche tra i partiti e colpisce con un stigma sociale i poveri e chi lavora nella loro gestione come i tartassati «navigator».
La realtà, basta volerla vedere, è questa: due terzi degli attuali beneficiari non possono essere ritenuti «occupabili». È tutto da dimostrare che lo sarebbe una parte maggioritaria dei circa 1,1 milioni che invece sono stati definiti «occupabili» prima e durante la pandemia che ha bloccato molte delle attività di collocamento. È il mistero di pulcinella sul quale nessuno intende fare luce. Ed è la base di partenza che di solito trasforma queste politiche in una «trappola della povertà». Qui non si vuole emancipare milioni di persone dalla povertà, ma governare i poveri. La difficile occupazione degli occupabili darà la stura a norme, già previste dalla legge sul «reddito di cittadinanza», come l’ipotesi di mettere in concorrenza i centri per l’impiego e, soprattutto quella di commissariare i centri per l’impiego che non rispondono ai criteri di produttività nel collocamento – in pratica moltissimi tranne qualche eccezione in alcune regioni, in particolare del Centro-Nord del paese.
La vera partita sul «reddito di cittadinanza» si gioca dunque al di fuori di esso e riguarda le politiche attive del lavoro alle quali è stato agganciando secondo la formula misconosciuta in Italia, ma da tutti realmente auspicata, del Workfare, il rovesciamento dello schema del Welfare. Se in quest’ultimo la cittadinanza sociale è la prerogativa per il riconoscimento sia dei sussidi che del reinserimento al lavoro, nel Workfare è l’effetto della volontà di un soggetto che si rende disponibile al lavoro (ad essere cioè «occupabile» che non significa avere un’occupazione, perlomeno «fissa»), alla formazione obbligatoria e a svolgere la corvée dei «progetti utilità alla collettività» (Puc). In alcuni casi potrebbero risultare un’illusoria reinserimento sociale di persone dimenticate dalla società. In realtà, alla lunga, saranno la doppia pena dei poveri: esclusi e poi costretti ai lavori gratuiti pena la perdita del sussidio. Sull’incapacità di riconoscere e criticare modelli già noti in altri paesi si misura la forza dell’egemonia neoliberale sulla sinistra e sui sindacati, fautori in Italia di questo Workfare.
Il «Recovery» a nome della Commissione Europea ha scommesso più di 4 miliardi di euro su questo capitolo. Il sistema non funziona e agiterà lo scontro tra lo Stato e le regioni concorrenti sulla stessa politica.