Egitto. Il giovane egiziano trasferito dal Cairo a Mansoura per il processo. Il tribunale per la sicurezza deciderà per un nuovo rinvio o emetterà la sentenza, senza appello. La sorella Marise: «Ha difeso i diritti di tutti, ora battetevi per lui». L'amico Mohamed: «Ci siamo conosciuti all’università, siamo stati in piazza Tahrir insieme. È un amico e un compagno»
Iniziativa per Patrick Zaki © Ansa
«Speriamo nel meglio, ma come fatto negli ultimi 22 mesi ci aspettiamo il peggio». Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia sintetizza in poche battute il clima alla vigilia della terza udienza del processo a Patrick Zaki.
SI SVOLGE OGGI, a Mansoura, la sua città natale sul Delta del Nilo. Qui lo studente egiziano dell’Università di Bologna è stato da poco trasferito dalla prigione di Tora, al Cairo, suo «domicilio» forzato dal marzo 2020, appena un mese dopo il suo arresto all’aeroporto del Cairo, di rientro dall’Italia per una visita alla famiglia.
Dopo mesi di carcere preventivo, rinnovato con crudele puntualità ogni 15 o 45 giorni, nel settembre scorso Patrick è stato incriminato. Quale sia l’accusa non è del tutto chiaro: diffusione di notizie false sulla base di un articolo che scrisse anni fa sulle condizioni di marginalizzazione della minoranza copta. Pare, perché prima il sistema giudiziario egiziano lo accusava anche di terrorismo per alcuni tweet. Quei tweet, mai resi pubblici, sono spariti dal quadro.
C’è speranza, c’è sempre, ma anche paura. Non si sa se sperare in un verdetto o meno. Secondo la sua legale,
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Commenta (0 Commenti)Dalla Grecia il papa mette in guardia dall’«arretramento della democrazia». E invoca «partecipazione» e «buona politica»
Da Atene, «culla della polis», papa Francesco lancia l’allarme per il pericoloso «arretramento della democrazia», in Europa ma anche in altre parti del mondo, messa in discussione da «populismi», «nazionalismi» e «autoritarismi».
LA GRECIA è la seconda tappa del trentacinquesimo viaggio apostolico del pontefice, che giovedì e venerdì ha attraversato Cipro e ieri è atterrato ad Atene, da dove ripartirà lunedì, dopo che oggi visiterà anche il campo profughi di Mytilene, sull’isola di Lesbo.
Nella capitale greca, ieri mattina il papa è stato accolto dalla presidente della Repubblica, Katerina Sakellaropoulou. Di fronte a lei, al capo del governo e a diversi ministri, nel palazzo presidenziale di Atene, Francesco ha tenuto il suo discorso in difesa della democrazia. «Qui si è iniziato a sentirsi cittadini non solo della propria patria, ma del mondo intero», ha detto citando Socrate. E poi, proseguendo con Aristotele: «Qui l’uomo ha preso coscienza di essere “un animale politico” e, in quanto parte di una comunità, ha visto negli altri non dei sudditi, ma dei cittadini, con i quali organizzare insieme la polis. Qui è nata la democrazia».
QUELLA DEMOCRAZIA, diventata apparentemente patrimonio di tutti gli Stati e della stessa Unione europea, che però oggi, ha rilevato Bergoglio con «preoccupazione», registra un evidente «arretramento». La pratica della democrazia è infatti «complessa», «richiede la partecipazione e il coinvolgimento di tutti», comporta «fatica e pazienza». Invece «l’autoritarismo è sbrigativo e le facili rassicurazioni proposte dai populismi appaiono allettanti. In diverse società, preoccupate della sicurezza e anestetizzate dal consumismo, stanchezza e malcontento portano a una sorta di scetticismo democratico». Scorciatoie che possono quindi vanificare un percorso durato oltre due millenni.
L’antidoto, secondo il papa, a questa deriva antidemocratica? La «partecipazione» e la «buona politica», cioè una politica a servizio del bene comune e delle persone più deboli. C’è infatti «uno scetticismo nei confronti della democrazia provocato dalla distanza delle istituzioni, dal timore della perdita di identità, dalla burocrazia. Il rimedio a ciò non sta nella ricerca ossessiva di popolarità, nella sete di visibilità, nella proclamazione di promesse impossibili», ma nella «buona politica» come «arte del bene comune». E «affinché il bene sia davvero partecipato, un’attenzione particolare, direi prioritaria, va rivolta alle fasce più deboli».
Nella contingenza del tempo presente, sono due secondo Bergoglio le conseguenze operative e gli impegni pratici di una «buona politica»: la cura della «casa comune» – ovvero del pianeta – e l’accoglienza dei migranti.
PRENDENDO come simbolo gli ulivi del Mediterraneo, devastati da malattie e da incendi, «auspico che gli impegni assunti nella lotta contro i cambiamenti climatici siano sempre più condivisi e non siano di facciata, ma vengano seriamente attuati. Alle parole seguano i fatti, perché i figli non paghino l’ennesima ipocrisia dei padri», ha detto papa Francesco. Sembrano risuonare le parole di Greta Thunberg, con le sue accuse ai grandi della Terra – anche in occasione dell’ultima Cop26 a Glasgow – di non agire ma di fare solo «bla bla bla».
E POI I MIGRANTI. «Questo Paese, improntato all’accoglienza, ha visto in alcune sue isole approdare un numero di fratelli e sorelle migranti superiore agli abitanti stessi, accrescendo così i disagi, che ancora risentono delle fatiche della crisi economica», ha detto Bergoglio, puntando il dito verso l’Europa. «Il temporeggiare europeo perdura: la Comunità europea, lacerata da egoismi nazionalistici, anziché essere traino di solidarietà, alcune volte appare bloccata e scoordinata. Se un tempo i contrasti ideologici impedivano la costruzione di ponti tra l’est e l’ovest del continente, oggi la questione migratoria ha aperto falle anche tra il sud e il nord». Quello che serve però è una «visione d’insieme, comunitaria», perché i migranti, «protagonisti di una terribile moderna odissea», «secondo le possibilità di ciascun Paese, siano accolti, protetti, promossi e integrati nel pieno rispetto dei loro diritti umani e della loro dignità».
OGGI i migranti saranno al centro dei gesti e della parole del pontefice, che tornerà a Lesbo, dove era già stato del 2016. Risuoneranno parole simili a quelle pronunciate l’altro ieri a Cipro, durante la preghiera ecumenica con i migranti: «Guardando voi, penso a tanti che sono dovuti tornare indietro perché li hanno respinti e sono finiti nei lager, veri lager, veri posti di confinamento, di tortura e di schiavitù». E la denuncia dei «fili spinati»: si mettono per non lasciare entrare il rifugiato, quello che viene a chiedere libertà, pane, aiuto, fratellanza, gioia, che sta fuggendo dall’odio e si trova davanti a un odio che si chiama filo spinato. Questa è la storia di questa civiltà sviluppata, che noi chiamiamo Occidente».
Commenta (0 Commenti)Cgil e sinistra. Nella futura conferenza di organizzazione della Cgil sarà importante discutere del sindacato confederale contro le spinte verso una corporativizzazione del lavoro
La futura conferenza di organizzazione della Cgil può diventare un vero punto-nave sul sindacato confederale, storicamente punto di confluenza di tre percorsi, due interni e dipendenti dal peso che la tecnologia ha nella organizzazione del lavoro, e da come l’organizzazione del lavoro modella la forma-sindacato.
E naturalmente l’avvicendarsi del capitalismo prima manchesteriano, poi fordista, oggi della Silicon Valley, richiede una messa a punto continua e sistematica della idea di confederalità. Il terzo discorso, di contesto, rimanda alla configurazione della sinistra (liberal, socialista, cristiana, più o meno interclassista, più o meno distante dal sindacato confederale, ecc). Sindacato confederale e sinistra politica sono stati, sono nei momenti migliori gemelli siamesi: simul stabunt, simul cadent.
La forma sindacato confederale è stata il miglior prodotto di sindacato politico. E i più significativi artefici di sono stati i comunisti e i socialisti italiani. Lo sconvolgimento politico degli anni novanta – estinzione del Psi e del Pci – pose alla Cgil un interrogativo drammatico: può sopravvivere il sindacato confederale con la scomparsa delle forze che lo avevano animato e sorretto?
Nella concitazione del momento, dall’interno della Cgil abbiamo avuto – per semplificare, – sostanzialmente tre risposte.
Bruno Trentin propose il Sindacato di Programma, un sindacato/partito dotato persino di un suo programma fondamentale, (unico precedente ma di partito, la Spd tedesca) quasi a riassumere nella forma-sindacato anche tematiche classicamente di partito. La proposta di Trentin fu largamente maggioritaria, mise al riparo la Cgil dagli effetti più distruttivi provocati dal collasso della sinistra storica, ma in definitiva aiutò solo a guadagnare tempo.
Il tema del rapporto biunivoco tra sinistra politica e sindacato confederale tende inevitabilmente a riemergere. Specialmente oggi.
Sergio Garavini suggerì invece un’altra via, a partire certo dalla centralità del sindacato, ma anche dalla sua congenita insufficienza politica: la ricostituzione di un partito comunista, la ricostituzione cioè del più conseguente “gemello siamese” del sindacato confederale.
Infine Claudio Sabattini, all’interno della costruzione trentiniana, si fa portatore, dalla Fiom, dell’idea del sindacato indipendente. Un sindacato – a mio giudizio – molto simile ad un gruppo di pressione, fortemente identitario, duro, ma inevitabilmente “corporativo”.
L’assenza del Gemello Siamese, portatore di una visione del lavoro come soggetto autonomo e a sua volta costruttore di una società egualitaria, ha pesato in maniera determinante sulla stessa forma-sindacato. Lo scivolamento verso pratiche corporative trova difese sempre più aggirabili.
La “via dei Fondi”, io la chiamo così, senza mai essere teorizzata e tanto meno formalmente scelta, diventa sempre più praticata. Nel tempo, quello che era stato un accorgimento tattico, – agganciare le qualifiche più alte del lavoro -, cioè il fondo previdenziale nazionale integrativo di previdenza, introdotto da Sergio Cofferati nel contratto dei chimici, dilaga in tutte le categorie, doppiato dai fondi sanitari. E non solo nel contratto nazionale. I Fondi sono replicati in ogni dove. Fondi aziendali fino al carrello della spesa, o fondi sanitari integrativi, esentasse, estesi anche ai familiari.
La “via dei Fondi” conduce necessariamente alla corporativizzazione del lavoro. Tanto più è praticata, specie attraverso il sostegno fiscale – un fisco poi nei fatti regressivo – tanto più si approfondiscono le disuguaglianze interne al mondo del lavoro, tanto più il processo di corporativizzazione si incancrenisce, tanto più declina l’idea del sindacato confederale e quindi, l’autonomia del lavoro.
Al capolinea della “via dei Fondi” non può che trovarsi l’aristocrazia operaia.
Pur cogliendo certamente diversi aspetti problematici nei propositi di razionalizzazione (non nuovi) dei documenti proposti alla discussione, penso che per rendere veramente importante questo momento di riflessione del corpo attivo della Cgil, vada promosso con urgenza un confronto sia sula sempre più estesa corporativizzazione del lavoro e come contrastarla, che sull’altro corno del problema, ovvero sull’enorme tema del Fratello Siamese e della sua configurazione.
Il tema cioè della organizzazione della sinistra politica.
La Cgil è ancora oggi il deposito più grande, se non l’unico rimasto, di uomini e mezzi della sinistra. Aspettare dall’esterno una cosiddetta offerta politica e non partecipare a costruirla, non ha portato né potrà portare molto lontano.
La proposta politica più ambiziosa della Cgil degli ultimi decenni – la riscrittura di un nuovo Statuto del Lavoro è il massimo della capacità di proposta del sindacato – è stata ridotta ad un esercizio di letteratura per l’assenza di un Partito del lavoro, cioè di un interlocutore politico in grado di assumere e tradurre in legge tale proposta.
Il confronto con il precedente storico degli anni ’70 – quello dello Statuto Brodolini – è impietoso. I dirigenti della Cgil dovrebbero fare come i generali francesi dopo la sconfitta di Sedan: parlarne poco ma pensarci sempre. Senza un interlocutore politico – il fratello siamese – la cosiddetta autonomia del sociale è destinata a consumarsi e a spegnersi in pratiche corporative. Inevitabilmente.
Senza una sinistra del lavoro, il sindacato è ricacciato implacabilmente e progressivamente indietro al suo ruolo più elementare, direi persino eterno.
Paolo Matthiae, riportando alla luce Ebla, la grande città-stato tra il Nilo e l’Eufrate, tra le macerie ha rinvenuto anche le tavolette di creta su cui erano scritte le formule del cottimo.
Commenta (0 Commenti)Il caso. La rete delle 50 associazioni che compongono «Sbilanciamoci!» ieri ha presentato la contro-manovra: 105 proposte alternative alla prima legge di bilancio di Draghi: rilancio dello Stato sociale, ambiente, scuola, università e ricerca. E una politica industriale che altrove non c’è. Altro che sanità, welfare, scuola o ricerca: il debito «buono» rilancerà le armi per i prossimi 15 anni
Roma, manifestazione pacifista © LaPresse
Il disegno di legge di bilancio «deludente e non adeguato alle sfide», il primo varato dal salvatore della patria Draghi, ha una coerenza: continua la politica economica fallita negli ultimi anni. È il giudizio sulla manovra della campagna Sbilanciamoci che ieri ha presentato la sua controfinanziaria, arrivata alla ventitreesima edizione. La riduzione della pressione fiscale a favore delle imprese, ad esempio. Negli ultimi 20 anni l’Ires (l’imposta sui profitti delle imprese) è calata dal 37% al 24% e a questa riduzione vanno aggiunti i moltissimi sgravi fiscali elargiti da molte leggi di bilancio per le assunzioni o l’innovazione. Il governo ha lasciato ai partiti che reggono la sua maxi-maggioranza la decisione su come ripartire i sette miliardi di taglio dell’Irpef (su otto, uno va al taglio dell’Irap). E quelli hanno creato un meccanismo regressivo che premia i redditi medio-alti e eroga pochi spiccioli alla maggioranza di quelli bassi e bassissimi.
LA «MANOVRA» è il solito patchwork composto da norme
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Commenta (0 Commenti)La Conferenza nazionale sulle dipendenze si chiude con le proposte innovative degli esperti. Dadone: «È l’inizio di un nuovo viaggio». Walter de Benedetto arriva con la Croce rossa e parla (unico) di legalizzazione della cannabis
Sottrarre «all’azione penale la coltivazione di cannabis a scopo domestico» e la «cessione di modeste quantità per uso di gruppo»; introdurre la «finalità del profitto» per tipizzare spaccio, cessione e altri reati connessi alle droghe; «escludere l’obbligatorietà dell’arresto in flagranza»; eliminare criteri tabellari per stabilire il «superamento delle soglie per uso personale»; «inserire i lavori di pubblica utilità come possibile sanzione, al posto della reclusione»; «concedere il permesso di soggiorno in prova per i detenuti stranieri, come misura da erogare al termine della pena e di durata temporanea». E, last but not least, perfino «avviare la sperimentazione dei diversi modelli di stanze del consumo».
SONO QUESTE le «proposte per le modifiche delle normative nazionali» più importanti e innovative che sono state introdotte dai sette tavoli tecnici di lavoro nella Relazione conclusiva della VI Conferenza nazionale sulle Dipendenze, ed illustrate domenica a Genova dopo due giorni fitti dove è mancata la voce proprio del ministro della Salute Roberto Speranza, che non ha inviato neppure uno scarno comunicato di saluti. Proposte, quelle avanzate dagli esperti, che rendono le conclusioni della Conferenza governativa voluta dalla ministra alle Politiche giovanili Fabiana Dadone, dopo 12 anni di latitanza istituzionale, «un avanzamento importante nel dibattito», come ha sottolineato Riccardo De Facci, presidente del Cnca, la più grande rete di comunità terapeutiche nel settore dipendenze.
LA RICERCATRICE Sabrina Molinari del Cnr ha riassunto e illustrato gli otto temi trasversali, «toccati da tutti i tavoli di lavoro»: superamento dello stigma e modifica del linguaggio, integrazione, partecipazione, depenalizzazione, flussi informativi, valutazione dell’efficacia, formazione e aggiornamento, risorse dedicate e continue. Esiti rilevanti, ottenuti con un lavoro preparatorio della Conferenza iniziato appena pochi mesi fa ma che evidentemente si avvalgono di in un lungo percorso di studi da parte di ricercatori, esperti, operatori, magistrati, associazioni e consumatori, in Italia e nel mondo, che prosegue ormai da decenni.
POCO PRIMA, nella sala del Maggior Consiglio svuotata da divise e porpore dopo le passerelle istituzionali, i partecipanti provenienti da tutta Italia hanno dedicato una standing ovation a Walter De Benedetto, l’uomo affetto da una grave forma di artrite reumatoide che non senza fatica e dolore si fatto trasportare dalla Croce rossa fin sopra la scalinata di Palazzo Ducale per testimoniare il difficile «rapporto tra medico e paziente, e tra paziente e sistema sanitario nazionale» quando si parla di farmaci cannabinoidi. De Benedetto infatti è stato assolto nell’aprile scorso dall’accusa di spaccio per aver coltivato in casa le piante di marijuana che gli erano necessarie, vista l’insufficienza di farmaci a base di cannabis a lui regolarmente prescritti.
«A che cosa serve o a chi serve la cannabis illegale, e a chi giova incarcerare qualcuno per dieci anni per aver coltivato dieci piante per se stesso?», sono le domande poste dall’uomo che ha rischiato di venire punito per l’unico sollievo trovato alla sua malattia. «Che questo mio saluto sotto forma di appello – ha concluso – serva a portare tutti gli italiani a votare per la cannabis legale al prossimo importante referendum nazionale».
È STATO A QUESTO PUNTO che si è sentita finalmente la voce del ministero della Salute, ma a parlare – da Roma – è stato il sottosegretario Andrea Costa di Noi con l’Italia che ha divulgato la sua forte contrarietà «alla liberalizzazione di ogni tipo di sostanza stupefacente» e ha detto di trovare «profondamente sbagliato usare un palco come quello della Conferenza nazionale sulle dipendenze per veicolare un messaggio così ambiguo e pericoloso». E il ministro Speranza ancora tace.
Concludendo la Conferenza, alla ministra Dadone non è rimasto altro che ringraziare i tanti che, come lei, ci hanno messo «coraggio, passione ed energia» (le ha riconosciuto il sindaco di Genova, Marco Bucci). E annunciare la candidatura dell’Italia alla presidenza del Gruppo Pompidou del Consiglio d’Europa, e la riorganizzazione e il potenziamento del Dipartimento delle politiche antidroga.
«Sono estremamente soddisfatta – ha detto – si è tornato a parlare in modo aperto e non pregiudizievole di dipendenze, con un approccio basato sui dati, con un dibattito intenso e anche acceso. Si è scritta una pagina di bella e buona politica. Inizia qui un nuovo viaggio, che sarà lungo e difficile, per superare le difficoltà di questi anni – ha concluso la ministra pentastellata -. Una mèta ambiziosa ma che non può essere lontana».
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Si conclude con un nulla di fatto l'incontro al ministero dell'Economia e della Finanza. Maurizio Landini: "Giudizio negativo. Il perimetro imposto dal governo non va bene. Quei soldi devono andare a lavoro dipendente e pensionati. Esecutivo e maggioranza stanno commettendo un errore". La mobilitazione continua.
Si chiude dopo un'ora e mezzo di confronto il tavolo convocato al ministero dell'Economia tra sindacati e governo. E sulle misure fiscali la distanza è netta, tanto che all'uscita dal vertice con il ministro Franco, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini non esita a dare "un giudizio negativo perché di fatto ci è stato presentato l'accordo di maggioranza come il perimetro entro il quale muoversi, e quel perimetro per noi non va bene: va allargato, così non funziona".
Landini all'uscita dal Mef
Leggi tutto: Fisco, così non va - I sindacati dopo l'incontro al ministero delle finanze
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