Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

L’esortazione ai governi nella 50ma giornata mondiale per la pace ideata da Paolo VI

 

Meno fucili e meno bombe, più libri e più quaderni. È l’appello ai governi di papa Francesco che, nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del primo gennaio 2022, denuncia come nel mondo si spenda sempre più in armamenti e sempre meno in scuola. Ed esorta a ribaltare le proporzioni: gli Stati taglino le spese militari e investano in istruzione (più o meno quello che da anni dice in Italia la campagna Sbilanciamoci!).

«NEGLI ULTIMI ANNI è sensibilmente diminuito, a livello mondiale, il bilancio per l’istruzione e l’educazione, considerate spese piuttosto che investimenti. Eppure, esse costituiscono i vettori primari di uno sviluppo umano integrale: rendono la persona più libera e responsabile e sono indispensabili per la difesa e la promozione della pace», si legge nel messaggio del pontefice. «Le spese militari, invece, sono aumentate, superando il livello registrato al termine della guerra fredda, e sembrano destinate a crescere in modo esorbitante. È dunque opportuno e urgente che quanti hanno responsabilità di governo elaborino politiche economiche che prevedano un’inversione del rapporto tra gli investimenti pubblici nell’educazione e i fondi destinati agli armamenti», «liberando risorse finanziarie da impiegare in maniera più appropriata per la salute, la scuola, le infrastrutture, la cura del territorio».

È UN MESSAGGIO quello di Francesco per la cinquantacinquesima edizione della giornata “inventata” da Paolo VI nel 1968 in cui emerge un marcato «pessimismo della ragione», con il quale si fotografa la realtà di un pianeta caratterizzato da «inequità» – per utilizzare un termine bergogliano – e ingiustizia sociale. «Il cammino della pace», esordisce il documento, rimane «lontano dalla vita reale di tanti uomini e donne e, dunque, della famiglia umana, che è ormai del tutto interconnessa»: «si amplifica l’assordante rumore di guerre e conflitti, mentre avanzano malattie di proporzioni pandemiche, peggiorano gli effetti del cambiamento climatico e del degrado ambientale, si aggrava il dramma della fame e della sete e continua a dominare un modello economico basato sull’individualismo più che sulla condivisione solidale. Come ai tempi degli antichi profeti, anche oggi il grido dei poveri e della terra non cessa di levarsi per implorare giustizia e pace». Ma c’è anche «l’ottimismo della volontà», per la costruzione di una «pace duratura», fondata sull’«istruzione come fattore di libertà, responsabilità e sviluppo», sul «dialogo tra le generazioni» e sul «lavoro per una piena realizzazione della dignità umana».

«DIALOGARE fra generazioni per edificare la pace» secondo il pontefice significa soprattutto ascoltare i giovani dei movimenti che si battono contro i cambiamenti climatici e per la salvaguardia del pianeta. «Lo fanno con inquietudine e con entusiasmo – scrive Francesco -, soprattutto con senso di responsabilità di fronte all’urgente cambio di rotta, che ci impongono le difficoltà emerse dall’odierna crisi etica e socio-ambientale».
Il mondo del lavoro è messo a dura prova dalla pandemia: «milioni di attività economiche e produttive sono fallite, i lavoratori precari sono sempre più vulnerabili» e ancora peggio stanno i «lavoratori migranti», molti dei quali «non sono riconosciuti dalle leggi nazionali, come se non esistessero, vivono in condizioni molto precarie per sé e per le loro famiglie, esposti a varie forme di schiavitù e privi di un sistema di welfare che li protegga».

La scorsa settimana, parlando ai giuristi cattolici, Bergoglio aveva fatto esplicito riferimento ai «braccianti, ’usati’ per la raccolta dei frutti o delle verdure, e poi pagati miserabilmente e cacciati via, senza alcuna protezione sociale».
Le responsabilità sono dell’impresa e della politica, conclude Francesco il proprio messaggio. La prima sappia «promuovere in tutto il mondo condizioni lavorative decenti e dignitose, orientate al bene comune e alla salvaguardia del creato», «il profitto non sia l’unico criterio-guida». E la politica svolga «un ruolo attivo, promuovendo un giusto equilibrio tra libertà economica e giustizia sociale».

Commenta (0 Commenti)

Boric e non solo. Il Cile insegna come sia possibile costruire un progetto vincente proprio perché radicale, nella strategia politica prima che nella piattaforma programmatica

Il festeggiamento di Gabriel Boric dopo la vittoria alle presidenziali cilene © Matias Delacroix /Ap

Da vent’anni, l’America Latina è il laboratorio politico della sinistra mondiale.

Hugo Chavez ha inventato un modello di ‘populismo di sinistra’ che ha ispirato prima altre nazioni del continente (Bolivia, Ecuador) poi alcune tra le esperienze più innovative ed efficaci della sinistra europea (Podemos, Tsipras, Melenchon).

La prima ‘ondata’ dei governi di sinistra in America Latina ha avuto, con l‘eccezione del Brasile, questa forte impronta populista, che ha mostrato di avere basi sociali solide anche quando alcune di queste esperienze sono state sconfitte (elettoralmente, come in Argentina, o con la forza, come in Bolivia e Brasile) ma sono successivamente tornate al governo.

La vittoria di Gabriel Boric in Cile consolida la possibilità di una ‘seconda ondata’ delle sinistre latinoamericane, e

Commenta (0 Commenti)

ANTICIPAZIONI. Un’anticipazione dal nuovo volume di Mario Tronti, «La saggezza della lotta», in uscita per i tipi di DeriveApprodi. Che fare quando la dialettica tra consenso e conflitto, governanti e governati è ridotta a virtualità di parola. Ora il comando è nel circolo relazionale sistemico di produzione, mercato e consumo: un corpo senza testa che per questo ha bisogno della protesi di una personalizzazione del capo. I mostri biblici Leviathan e Behemoth sono stati secolarizzati nelle funzioni di comando dei Fmi, delle Banche centrali, delle Agenzie di rating e dei monopoli della comunicazione

Antony Gormley, Angel of the North

Antony Gormley, Angel of the North

La cifra di riferimento intellettuale è la grande storia della politica moderna, segnatamente nel filone del suo spassionato realismo. Mi è sempre sembrata una stranezza che la parte deputata alla contestazione di questo ordine sociale, tanto nella sua declinazione moderata e vanamente riformista, quanto nelle sue velleità radicalizzate e vanamente sovversive, si sia regolarmente, almeno in teoria, chiamata fuori da questa storia.

C’È UNA FORMULA che fa da filo rosso, permanente, nelle sperimentazioni, mobilissime, del potere moderno, come pratiche e come istituzioni. Essa dice: come ingannare il popolo? Dai discorsi cinquecenteschi sulla ragion di Stato ai deliri dei Mein Kampf novecenteschi, dalle Enciclopedie settecentesche che volevano illuminare le menti sino alle insulse democrazie buone per i millennians, di questo sempre si è trattato e di questo dunque ancora si tratta. Federico II di Prussia, di cui Sainte-Beuve ci ha splendidamente narrato «la felice mescolanza di accortezza e di ardimento, qualità rara ed ambita, che unisce e raccoglie in sé tutte le perfezioni che la natura concede quando vuol formare un grande uomo di guerra», secondo le parole che questo re-politico, parlando del fratello Enrico evidentemente attribuiva a se stesso, bene, Federico detto il Grande, avviava, 1780, un concorso per l’Accademia delle scienze, sul tema: «Se sia utile ingannare il popolo», partecipanti a livello di Condorcet e Chantillon.
Il mio problema, da pretendente saggio teorico della politica, è il contrario: se sia utile ingannare il principe. Cioè come ingannare il potere, ovvero chi, volta a volta, detiene il potere su di me e sui miei. Poi parlerò dei miei. Ma quando evoco, in questo modo, questo tema, sento scendere su di esso uno sbigottito silenzio.

QUELLI CHE SULLA POLITICA fanno filosofia si ritraggono offesi nel pensiero. Quelli che sulla politica fanno scienza non capiscono empiricamente il punto di problema. Quelli che la politica la fanno oppongono ipocritamente uno sdegnato nobile etico rifiuto. Per me, a questo punto, il tema è un altro. Ed è l’obiezione vera, che vorrei che qualcuno facesse e che nessuno fa: cioè, la drammatica presa d’atto che tutte e due quelle formulazioni classiche del problema politico non funzionano più. E i nani di oggi che non hanno saputo salire sulle spalle dei giganti sono rimasti a guardare senza capire. Perché io penso una cosa: che non è finito il Moderno, è finita la sua classicità, morta quell’età classica della modernità, quell’Antico del Moderno, che il «nostro» secolo, il «mio» secolo, il Novecento, aveva prima innalzato e poi messo giustamente in crisi, ma in crisi di sviluppo. È accaduto poi, per nostra e altrui disgrazia, che quelli che si sono trovati occasionalmente a gestire il dopo del movimento operaio – di questo stiamo parlando – non hanno saputo raccoglierne l’eredità. Troppo piccoli per quella grande storia. E il «loro» stupido tempo nuovo che ancora ci tocca vivere, ha poi dilapidato l’intero patrimonio, come i figli depravati, invece che investire la ricchezza reale accumulata dai padri, la consumano in effimeri piaceri virtuali. In fondo abbiamo attraversato, in questo lungo estenuante passaggio di secolo, una sorta di saga dei Buddenbrook, quella decadenza borghese di una famiglia aristocratica, senza il segno tragico del racconto letterario, anzi nel ridicolo delle vicende quotidiane. E consoliamoci: non è solo Italia, è Europa, è Occidente. Non c’è più chi ingannare. Non c’è più il Principe, né come Stato né come partito.

Questo è il postmoderno: la spoliticizzazione del potere politico e la neutralizzazione del conflitto sociale. Dalla pratica viene non la trasformazione, viene piuttosto l’estinzione del concetto di potere. Non perché si sia diffuso, articolato, microformato in dispositivi di comando biopolitico, come recita la narrazione di questi, i biopolitici appunto, che di fronte alla porta chiusa hanno pensato bene di buttar via la chiave. È inesatto anche dire: poteri forti economico-finanziari. Il comando è nel circolo relazionale sistemico di produzione-mercato-consumo, un corpo senza testa, che proprio per questo ha bisogno della protesi di una personalizzazione del capo, attraverso il meccanismo di democrazie sempre più demagogico-populiste. I mostri biblici, Leviathan, Behemoth, non sono stati detronizzati, sono stati secolarizzati nelle funzioni di comando dei Fondi monetari internazionali, delle Banche centrali, e giù giù delle Agenzie di rating e infine dei nuovi grandi monopoli della comunicazione mediatica che fanno riproduzione allargata di tutto questo.

E NON C’È PIÙ POPOLO, quello vero, strutturato in classi, popolo politico socialmente antagonistico. In minima parte, fatto salire sull’ascensore sociale, è stato accolto nella piccola borghesia, in massima parte, fatto precipitare giù per le scale, è caduto nel plebeismo. Al posto del popolo politico c’è il populismo antipolitico. La classica dialettica moderna, di consenso e di conflitto, governanti/governati, è ridotta da realtà di lotta a virtualità di parola. Siamo tutti veramente nella stessa barca, come giornalisticamente si dice. I governi politici sono essi stessi economicamente governati. E i cittadini cosiddetti sovrani saranno sempre più chiamati a eleggere tecnici di sistema, manutentori della macchina, funzionari della moneta, amministratori del condominio-paese e poi, nel sabato del villaggio delle elezioni, a plebiscitare qualche venditore di tappeti. Non credo che questa sia l’ultima stazione della storia. Mi eleggo da solo a pensatore della fine di una storia, non della storia. Mi chiedo spesso: ma perché, dopo secoli e millenni di vicende umane, appunto storiche, proprio in questi insipidi anni dovrebbe tutto cominciare daccapo? È forse tornato il Messia, come aveva promesso, a ridividere il tempo tra un prima e un dopo? Non mi pare. Non lo vedo. Ricordo sempre agli insopportabili cantori del «tutto è nuovo» una verità difficilmente contestabile: quelli che comandavano ai tempi di mio nonno, nato in pieno Ottocento, e morto in un ospizio per poveri, sono quelli che comandano ancora, solo imbellettati con un trucco che apparentemente li ringiovanisce, e quelli destinati a servire, come accaduto a lui e ai suoi discendenti, sono ancora lì a chinare il capo, allora in schiavitù coatta, oggi in servitù volontaria.

C’è una cosa che rimpiango. Insomma, veramente avrei voluto essere nato prima e a questo punto già scomparso. Rimpianto mitigato da quel senso di ombrosa felicità che ti invade, quando poi pensi di aver fatto in tempo a scampare al destino, che temo per i miei nipoti, di chiamarsi un nativo digitale. È una sorte singolare quella di noi venuti al mondo nei terribili anni Trenta del Novecento. Non abbiamo potuto partecipare attivamente al meglio della storia novecentesca: l’età delle guerre civili europee, con dentro la rivoluzione d’Ottobre, il great crash del capitalismo, il tentativo di costruzione del socialismo, la lotta antifascista, la Resistenza, la costruzione della Repubblica, la scrittura della Costituzione, quel momento magico del secondo dopoguerra, che ha visto per la prima volta il popolo entrare nello Stato attraverso i partiti di massa. Siamo arrivati che tutto era praticamente avvenuto. Cominciava una storia minore. Era tale la nostalgia della grande storia che quando arrivarono i favolosi anni Sessanta, ci parve di scorgere un favoloso ritorno d’epoca. Fu un generoso abbaglio, tutto soggettivo. Non era così. Ripartiva di lì in realtà una nuova pace dei cento anni, in cui siamo tuttora irrimediabilmente immersi.

QUALCUNO ha benevolmente notato il mio eccessivo uso, nella parola e nella scrittura, dell’aggettivo «grande». La cattiva abitudine ha raggiunto la punta massima quando mi è capitato di parlare di grande Novecento e di piccolo Novecento. Confesso il peccato. E voglio giustificarlo qui. Salito a coscienza con quella storia lì, dietro le spalle, e venutone a conoscenza sui libri, mi sono formato, intellettualmente e umanamente, con l’intenzione decisa, con la scelta di vita, di spendere l’esistenza mia personale a quel livello, per cambiare il mondo su quell’attrito di forze, su quello scontro di potenze, qualunque fosse il tragico degli eventi, la durezza dell’azione, la pesantezza e la grazia dell’impegno.

Commenta (0 Commenti)

Lavoro. Il Movimento 5 Stelle incontra i sindacati e si impegna su lotta all’evasione fiscale e politiche espansive

Movimento 5 Stelle - Wikipedia

Dopo lo sciopero generale dello scorso 16 dicembre, appuntamento al quale il Movimento 5 Stelle aveva reagito rivendicando il merito della legge di bilancio ma impegnandosi ad ascoltare le rivendicazioni delle piazze, ieri Giuseppe Conte ha incontrato i sindacati per circa tre ore in una sala di Palazzo Madama.

La riunione è servita al M5S per proporre ai segretari generali di Cgil e Uil Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri e al segretario confederale della Cisl Ignazio Ganga un «accordo di consultazione permanente per contrastare l’evasione fiscale»: «C’è un grande tesoro di oltre 100 miliardi di euro l’anno che si disperde fra i disonesti – hanno detto dal M5S – Dobbiamo premiare gli onesti e questo tesoro consentirà di abbassare le tasse per tutti». Si è parlato, tra le altre cose, di politiche attive per il lavoro, di tutelare i cosiddetti «navigator» e di evitare le trappole da guerra tra poveri della destra che contrappone il reddito di cittadinanza alle forme di assistenza per gli invalidi. Al tavolo c’era Nunzia Catalfo, ex ministra del lavoro e responsabile del Comitato tematico su questi temi nel nuovo organigramma di Conte. E c’era anche la viceministra al Mise e vicepresidente M5S Alessandra Todde, che ha difeso la norma contro le delocalizzazioni che compare in manovra, pur definendola «una mediazione della mediazione». «Ma è un punto di partenza che ha avuto il merito di far affrontare concretamente il tema all’opinione pubblica spingendo la politica a discuterne una volta per tutte», afferma Todde.

Landini ha ribadito le sue critiche al governo «in particolare sulla necessità di mettere al centro la lotta alla precarietà» insistendo sulla necessità «di cambiare le leggi sbagliate ed introdurre un unico contratto di inserimento al lavoro, fondato sulla formazione e indirizzato alla stabilità». «Abbiamo ribadito al M5S, che fa parte del governo, che è necessario cambiare metodo: serve che il confronto venga realizzato prima che le varie forze politiche definiscano le loro mediazioni e le loro soluzioni», ha detto ancora Landini riferendosi alle decisioni prese sul fisco.

Più in generale, il leader Cgil lamenta l’esclusione del sindacato dalla programmazione economica: «Oggi a maggior ragione che stiamo discutendo di possibili investimenti e riforme molto importanti per il paese, pensiamo che non sia accettabile ridurre il ruolo della rappresentanza sociale a osservatori – sostiene Landini – Non ci stiamo, non siamo d’accordo e pensiamo che invece il coinvolgimento del mondo del lavoro deve essere effettivo per fare le riforme di cui abbiamo bisogno».

Conte ha invece assicurato che il dialogo proseguirà e si è espresso per la modifica del patto di stabilità e la prosecuzione delle «politiche espansive». «È evidente che la narrazione che dice che nel paese va tutto bene, comincia a essere cancellata dalla necessità che si affrontino i problemi reali, che invece riscontriamo – ha concluso Bombardieri – Dunque, se c’è ascolto da parte delle forze politiche e del governo, non possiamo che esser soddisfatti».

Commenta (0 Commenti)

La vittoria della sinistra. È un voto di rivolta, una svolta che ci riguarda direttamente. Intanto e subito chiama a verifica le forze di sinistra e i movimenti d’opposizione del Continente latinoamericano

 

Il nuovo presidente del Cile Gabriel Boric festeggia tra la folla  © AP Photo/Matias Delacroix

Davvero una bella notizia. Gabriel Boric, 35 anni, deputato ed ex leader delle proteste studentesche, è stato eletto presidente del Cile. Boric ha ricevuto il 56% delle preferenze, sconfiggendo il rivale Josè Antonio Kast, fascista-pinochettista con il suo richiamo aperto al golpe militare sanguinoso che nel settembre del 1973 abbatté il governo democratico del «compagno presidente» Salvador Allende. C’era di che essere preoccupati alla vigilia dall’affermazione al primo turno delle presidenziali del candidato dell’estrema destra – abbiamo aperto domenica con «L’ombra di Pinochet», mentre in casa nostra il razzista Salvini si augurava «per l’ordine» la vittoria del fascista Kast. L’ombra si è dissolta, a cominciare dal sì di un anno fa alla nuova Costituente, e con la vittoria schiacciante di Boric si è fatta nuova luce su mezzo secolo di conflitti non solo dell’America latina.

È un voto di rivolta, una svolta che ci riguarda direttamente. Intanto e subito chiama a verifica le forze di sinistra e i movimenti d’opposizione del Continente latinoamericano che a partire proprio dal golpe di Pinochet, attraverso il famigerato Plan Condor che coinvolse a pieno l’intelligence delle varie amministrazioni Usa, vide l’affermazione di dittature militari nei punti chiave della sua crisi, dall’Argentina, all’Uruguay, alla Bolivia – nel ’64 i militari avevano preso il potere già in Brasile. E dove, come in Cile, non è bastato che al governo arrivassero forze di centrosinistra per avere un cambiamento nella gestione del potere e nella trasformazione egualitaria della società.

Intanto si rompe l’isolamento di esperienze centrali per comprendere la crisi politica mondiale, come quella del Venezuela dove pure non solo il carisma di Chavez aveva costruito una svolta progressista ma l’avvento anche di un vasto movimento di protesta sviluppatosi in tutti gli anni Novanta; e come quella rivoluzionaria di Cuba, sotto assedio e in stato di sopravvivenza, non solo per effetto di un criminale embargo Usa perpetuato anche dalla nuova amministrazione Biden, ma anche per le difficoltà di gestione delle nuove decisive riforme economiche.

Una rottura dell’isolamento e l’apertura di nuove prospettive che vale anche per il Brasile ora nella morsa del protofascista populista Bolsonaro arrivato al potere dopo una stagione di destabilizzazione mediatica e giustizialista, un vero e proprio «golpe bianco», contro l’esperienza democratica di Lula. Ma il messaggio arriva anche da noi, nel Vecchio continente, quello di un’Unione europea «reale», nata male sulla base di una moneta che si voleva unico cemento «unificante», e malvissuta nella logica della primazia dei mercati e del fiscal compact imposto perfino nelle costituzioni nazionali; in un’Europa dove la critica al neoliberismo e alla centralità del mercato e delle sue scelte arranca e quasi è costretta ad approfittare della tragedia pandemica per avere voce ed ascolto.

E segnatamente la svolta cilena arriva, dovrebbe arrivare, anche in Italia. Vince infatti in Cile una coalizione di sinistra radicale Apruebe Dignidad (approvare la dignità) – il Cile si riprende la dignità: Pinochet aveva chiamato “Dignidad” una colonia penale per oppositori – , con i comunisti che non si sono «suicidati», una coalizione che ha guidato le lotte contro le privatizzazioni e il neoliberismo e che per la sua credibilità ha conquistato anche la maggior parte del decisivo voto centrista. Mentre in Italia «la sinistra che abbiamo conosciuto non esiste più», eternamene ricondotta nel cortile delle compatibilità e della governance; e anche quella d’opposizione scompare, dispersa in mille rivoli contrapposti. Come dimenticare invece che qui, proprio in Italia, l’esperienza cilena ha lasciato segni profondi nell’evoluzione della nostra storia recente?

Il compromesso storico di Berlinguer, e non le sinistre unite al governo, fu tra l’altro la risposta politica – presentata come «obbligata» – al pericolo fortissimo di una soluzione cilena per un Paese che vedeva ancora in campo un vasto movimento di protesta nato con le lotte studentesche del ’68 e diventato strutturale solo con la scesa in campo nel ‘69 di un grande movimento operaio. Contro il quale la repressione e la provocazione violenta non tardarono a farsi vive con una stagione militare di stragi neofasciste orchestrate all’interno degli apparati centrali dello Stato. E anche la scellerata scelta di una parte marginale e minoritaria di quella esperienza, di ricorrere alla scorciatoia della «lotta armata» fu, nella logica di chi la sceglieva, una «risposta giustificativa» – ma nefasta, sconsiderata e perdente in partenza – alla sconfitta violenta cilena.

Ma l’insegnamento più forte che arriva dalla svolta in Cile riguarda, sempre come riflesso di quella storia, la crisi mondiale attuale e il destino delle nuove generazioni. Perché la dittatura di Pinochet non fu una «tradizionale» dittatura fascista ma il primo esperimento mondiale, pagato dal popolo cileno, del modello di «neoliberismo autoritario» che sarebbe diventato dominante sul finire del secolo breve ma anche nel nuovo secolo in corso. Un modello che si è avvalso proprio del «lavoro» della scuola economica dei Chicago Boys, gli economisti guidati da Milton Friedman.

Vince in queste ore in Cile la giovane generazione che, contro governi di centrodestra e di centrosinistra, si è battuta, pagando spesso anche con la vita, contro i processi di privatizzazioni che hanno colpito la scuola, la sanità, il sistema di welfare a partire dalle pensioni, riducendo alla povertà i cileni – e il Continente latinoamericano – e costruendo un sistema di diseguaglianze che chiamava la gente a partecipare diffondendo l’ideologia individualistica della «scelta di libertà». Grazie Cile.

Commenta (0 Commenti)

Il leader della sinistra,36 anni, sarà il più giovane presidente

Gabriel Boric © EPA

 

Gabriel Boric RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA/EPA

Con una vittoria che equivale ad un ko pugilistico, il leader della sinistra cilena Gabrile Boric si è aggiudicato con un amplissimo margine il ballottaggio presidenziale che lo ha opposto in Cile all'ultraconservatore José Antonio Kast.

Quando lo scrutinio aveva raggiunto il 92,12%, Boric aveva ottenuto oltre il 55% contro il 44% di Kast, con un vantaggio schiacciante di oltre undici punti che nessun sondaggio o analista aveva potuto prevedere.

Secondo i dati ufficiali, l'affluenza è stata record per il Cile, superiore al 50%, equivalente ad oltre otto milioni di voti. E' stata quindi grazie alla maggiore affluenza alle urne che si è imposto il progetto di cambiamento proposto dal giovane leader della coalizione Apruebo Dignidad, che a 36 anni sarà il prossimo 11 marzo 2022 il più giovane presidente della storia del Cile. Il sindaco comunista del distretto di Recoleta a Santiago del Cile, e rivale di Boric nelle primarie vinte da quest'ultimo, ha dichiarato che con "questa vittoria consideriamo chiuso il capitolo della dittatura" di Augusto Pinochet.

Commenta (0 Commenti)