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Strage quotidiana. Un boato fortissimo, la polvere, le urla. Aperto un fascicolo per omicidio colposo

Torino, crollo di una gru in via Genova, morti tre operai

 

Torino, crollo di una gru in via Genova, morti tre operai © Ansa

In quel fitto reticolo di palazzi stretti tra il complesso del Lingotto e il fiume Po, nel laborioso quartiere di Nizza Millefonti, ieri, sono morti a Torino tre operai. E sono le ultime vittime di una striscia infinita di sangue che solo in Piemonte conta, nel 2021, 40 morti. Lavoravano, in via Genova, all’assemblaggio di una gru per uno dei tanti cantieri incentivati dagli ormai famosi bonus edilizi, alla cui corsa potrebbero non corrispondere adeguate misure di sicurezza.
Intorno alle 10, la gigantesca gru – a causa di un probabile cedimento strutturale alla base (secondo i primi rilievi dei vigili del fuoco) – si è afflosciata, collassando insieme all’autogrù utilizzata per il montaggio, che è finita contro un palazzo di sei piani, colpendone i balconi. La dinamica è ancora da appurare, non è, infatti, chiaro se sia stato il lungo braccio dell’autogrù a urtare la gru o viceversa.

UNA SCENA TREMENDA: un boato fortissimo, poi la polvere, le urla e le lacrime. Il più giovane tra le vittime aveva solo 20 anni, si chiamava Filippo Falotico e viveva a Coazze, in Val Sangone, provincia di Torino. È stato ritrovato, che ancora respirava, tra due vetture parcheggiate: è morto all’ospedale Cto, dov’era stato trasportato d’urgenza in condizioni purtroppo disperate. Era appassionato del suo lavoro, montatore di gru, un mestiere che avrebbe imparato dal padre. Gli altri due colleghi sono morti sul colpo, mentre erano intenti a ultimare gli ultimi fissaggi del braccio di lavoro e sarebbero rimasti incastrati sotto una parte dall’intelaiatura.

Provenivano entrambi dal milanese: Roberto Peretto, 52 anni, da Cassano d’Adda, Marco Pozzetti, 54 anni, da Carugate. Un ultimo scatto, un selfie pubblicato sui social, li ritrae tutti e tre, sorridenti, in cima alla gru di via Genova. Nella tragedia, che vista la zona molto frequentata (a due passi da un ufficio postale) poteva essere una strage, sono rimaste ferite altre tre persone, ricoverate al Cto: un altro operaio di 39 anni (manovratore della gru) e due passanti, un uomo di 33 anni, che in quel momento si trovava in auto, e una donna di 61, ferita da un calcinaccio.

SONO DUE GLI IMPIANTI coinvolti nel crollo. Il primo è la gru vera e propria gru di colore blu, fornita dalla ditta Locagru, spezzata in quattro tronconi; il secondo è l’autogrù dell’azienda Calabrese che serviva per l’assemblaggio. Il cantiere per la ristrutturazione è, invece, della società Fiammengo. Il rifacimento del tetto era stato affidato dal condominio, l’amministratore figura come responsabile dei lavori.

LA PROCURA DI TORINO ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti e ha nominato come consulente Giorgio Chiandussi, il perito che si è occupato dell’incidente sulla funivia del Mottarone. Toccherà allo Spresal (servizio di prevenzione e sicurezza) e alla magistratura accertare le cause dell’accaduto, tra le ipotesi – oltre a un possibile cedimento del terreno – c’è anche un errato montaggio della struttura, forse per la fretta di aprire il cantiere.

Un’accelerazione non così rara di questi tempi, dovuta spesso ai termini di scadenza del bonus facciate e alle incertezze sul superbonus 110%. «Non vorremmo ritrovarci ancora una volta di fronte all’ennesima strage nei cantieri legata a tempi e modalità di lavoro. Dove la fretta e la velocità eccessiva aumentano i rischi, dove la ripresa fa sempre più rima con incidenti e lavoro nero a fronte di una domanda di lavori superiore alla capacità delle stesse imprese», hanno dichiarato il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini e il segretario della Fillea Cgil, Alessandro Genovesi. «La logica di fare sempre di più e più presto, con orari di lavoro massacranti e ricorso a squadre di cottimisti in sub appalto, che rischia di mettere la sicurezza di lavoratori e dei cittadini in secondo piano, – hanno aggiunto – deve essere contrastata. I cantieri non possono diventare il far west».

TORINO SI RITROVA a fare i conti con l’ennesima strage sul lavoro, a 14 anni dal rogo della Thyssen, avvenuto proprio di dicembre. «Siamo molto scossi, questa è una giornata drammatica, una tragedia per la città», ha dichiarato il sindaco Stefano Lo Russo, accorso presto sul luogo dell’incidente insieme agli assessori Francesco Tresso e Gianna Pentenero. Il sindaco ha, poi, annunciato la partecipazione della Città al presidio indetto dai sindacati confederali per martedì prossimo davanti alla Prefettura. «Occorrono fatti concreti – hanno sottolineato, inoltre, Cgil e Fillea di Torino – a partire da più controlli e più formazione, soprattutto in edilizia, tanto più in questa fase di forte ripresa del lavoro, dove la fretta spesso prevale su tutto. La sicurezza è un diritto e non un costo».

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A Bologna manifestazione di solidarietà con Mimmo Lucano: L’ex sindaco sulla condanna: «Vogliono colpire il modello Riace»

 

«Non farò il patteggiamento, nemmeno per un giorno, sarebbe come rinunciare ai miei ideali, io rifarei tutto quello che ho fatto» dice Mimmo Lucano a Bologna di fronte a una sala piena di amici, compagni, vecchi militanti e giovani sostenitori. All’evento «Eccesso di solidarietà» organizzato da Good Land e dalle Cucine Popolari, con il sostegno di Famiglie Accoglienti e di molte altre associazioni è intervenuta anche la vicepresidente della regione Emilia-Romagna Elly Schlein mentre il sindaco di Bologna Matteo Lepore ha mandato un appassionato messaggio all’inventore del modello Riace di accoglienza dei migranti.

LE COINCIDENZE sono coincidenze ma talvolta rivelano più di quanto si pensi: ieri 18 dicembre era la giornata internazionale dei diritti dei migranti, quei diritti conculcati e ignorati al confine tra Polonia e Bielorussia, come lungo la rotta balcanica, come in Libia o nelle acque del Mediterraneo. Ed è per aver preso sul serio i diritti dei migranti, per averli trattati come persone, anziché come «invasori», che Mimmo Lucano è stato condannato a oltre 13 anni di carcere in una sentenza le cui motivazioni,

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Intervista al segretario nazionale della Fiom. Nessun effetto sulle crisi in corso che anzi aumentano con Speedline e Caterpillar. Su automotive e Stellantis senza un tavolo il governo si prende la responsabilità di far saltare l’intero settore

Un tavolo di crisi per delocalizzazioni al Mise

 

Un tavolo di crisi per delocalizzazioni al Mise  © Foto LaPresse

Michele De Palma, segretario nazionale della Fiom e responsabile del settore automotive, il settore metalmeccanico è quello con il tasso di adesione più alto allo sciopero generale di giovedì. Soddisfatti?
I dati confermano la giusta intuizione che il nostro Comitato centrale ebbe a ottobre proclamando lo sciopero in rapporto con delegati e territori anticipando che la manovra non rispondeva ai problemi dei lavoratori. Nel settore metalmeccanico la situazione era già chiara in estate quando lo sblocco dei licenziamenti ha portato a una serie di chiusure e delocalizzazioni sebbene la situazione del settore sia a macchia di leopardo: molte aziende stanno facendo straordinari perché hanno agganciato per prime la ripresa. Ma purtroppo molte lavoratrici e lavoratori sono precari.

Il segretario nazionale della Fiom Michele De Palma

Giovedì notte il governo ha finalmente presentato il maxiemendamento che prevede anche un intervento sulle delocalizzazioni: per le imprese che se ne vanno senza ragione raddoppio delle sanzioni per i licenziamenti. Come lo giudicate?
Più che un decreto contro le delocalizzazioni è un provvedimento che proceduralizza le delocalizzazioni. Il testo non è stato minimamente discusso con noi sindacati nonostante sentiamo parlare di un decreto fin da luglio quando ci furono i primi casi di delocalizzazione: Gianetti Ruote, Gkm, Timken. Dalle anticipazioni mi pare che

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Intervista. La capogruppo di Leu in Senato: bene lo sciopero, su fisco e salari la battaglia è appena iniziata

Loredana De Petris

Loredana De Petris  © LaPresse

«Lo sciopero? Il mio giudizio è positivo. In tanti si sono stracciati le vesti, c’è stata un’accusa corale di lesa maestà nei giorni precedenti. E invece il conflitto serve». Loredana De Petris, capogruppo di Leu in Senato, una vita da ambientalista, plaude alle piazze di Cgil e Uil.

Però lei sostiene il governo Draghi.

Nel confronto tra i sindacati e il governo i risultati attesi non sono arrivati. Anzi. Sul mancato contributo di solidarietà dai redditi più alti c’è stato un segnale negativo. Il sindacato fa il suo mestiere, è evidente che con questo sciopero lancia una piattaforma, è solo un punto d’inizio: il tema è una ripresa che porta solo lavoro precario, la gigantesca questione salariale aggravata dall’inflazione, la non equa distribuzione di sacrifici e risorse.

Pensa che la mobilitazione darà frutti già in questa manovra?

Spero che si riapra il confronto col governo, avrebbe già dovuto riaprirsi. Ci sono temi che senza conflitto escono dall’agenda di governo e parlamento: penso al salario minimo, siamo molto indietro rispetto alla Germania. Ma anche ai costi sociali della transizione ecologica.

In Italia c’è un blocco molto forte, politico e sociale, che non vuole politiche redistributive.

In percentuale è un gruppo più piccolo rispetto a quello di lavoratori e pensionati che si caricano quasi tutto il peso dell’Irpef: piccolo ma potente. Ma mi pare che Draghi sia consapevole che i costi sociali della transizione ambientale non potranno ricadere sulle spalle dei più deboli. E che lo Stato deve avere un peso fondamentale.

Il premier dovrebbe restare in carica fino al 2023?

Sono convinta che se Draghi andasse al Quirinale sarebbe molto difficile mettere in piedi un altro governo per proseguire la legislatura. Praticamente impossibile.

Sogna il voto anticipato?

Nel campo progressista siamo molto indietro nella costruzione di una coalizione competitiva, è un lavoro assai complicato. Non mi pare che sia opportuno da sinistra tifare per il voto anticipato.

Lei ha appena annunciato di aver lasciato Sinistra italiana con altri compagni come Paolo Cento. Perché?

Bisogna costruire una forte soggettività politica ambientalista e di sinistra, la definirei socio-ecologista. Quello che c’è a sinistra del Pd non basta più, si rischia di restare prigionieri delle identità. Abbiamo provato a fare questo percorso dentro Si, ma non ha funzionato, nel partito ha prevalso la custodia della propria “casa”. Noi vogliamo invece tornare in mare aperto.

Un altro partitino?

Per carità, sono allergica ai partitini. Al contrario bisogna liberarsi delle piccole case e costruire reti, ponti, che abbiano l’obiettivo di dare una forte impronta ecologista al centrosinistra. Non si può ripetere il modello del Pd con piccoli cespugli.

Ci sono già i Verdi, c’è Si. Perché aggiungere altri soggetti?

Io rispetto queste storie di cui ho fatto parte, ma ormai sono piccole casematte, prigioni. Serve un soggetto, un forum sociale che sia in grado di essere un punto di riferimento per tutti quei ragazzi che manifestano nei «Fridays for future».

Cento sul manifesto ha scritto che il sindaco di Milano Sala e Elly Schlein saranno vostri compagni di viaggio.

Sono personalità con cui dialoghiamo e con cui vorremmo costruire questa rete.

Perché non far vivere questi temi nel Pd?

Non mi pare possibile. Al dunque il Pd sulle sfide del clima sta sempre da un’altra parte.

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Adulatori di Governo. La simulazione dimostra come sia più l'effetto dell'assegno unico che quello della rimodulazione dell'Irpef. I confronti basati su famiglie sempre con due figli

Il grafico pubblicato dal Corriere con fonte il Mef per dimostrare gli effetti della legge di bilancio sui redditi più bassi

 

Il grafico pubblicato dal Corriere con fonte il Mef per dimostrare gli effetti della legge di bilancio sui redditi più bassi

La lettura dei quotidiani di ieri gridava vendetta. A parte la censura quasi totale sullo sciopero generale, a Cgil e Uil è arrivato un pugno in un occhio dagli articoli che riprendevano una «velina» del Mef sugli effetti della manovra. Mandata solo ai giornali più grandi, le slide di via XX settembre puntavano a mostrare come i ceti bassi fossero favoriti dalla legge di bilancio.
Ma già i grafici rivelavano la difficoltà dell’impresa. Oltre agli effetti dell’intervento fiscale – a ieri mattina ancora non presentato in parlamento e dunque non pubblico – venivano sommati l’assegno unico per i figli e perfino il «bonus Renzi» e quello «Conte e Gualtieri» (sic). Già gli istogrammi pubblicati mostravano impietosamente come sopra i 40 mila euro l’anno i benefici erano tutti della «legge di bilancio 2022» che invece calavano miseramente per i redditi dagli 8.174 euro (fine della no tax area) fino a 35mila.
Ancor più improbabili le composizioni familiari che il Mef utilizzava per raffrontare i benefici per le varie fasce di reddito: i figli sono sempre due – alla faccia della denatalità – a conferma dell’incidenza dell’assegno unico.
Dal palco di piazza del Popolo le «falsità mediatiche» sono state smascherate. «Nonostante le stime farlocche del Mef, il vantaggio per i redditi fino a 20 mila euro l’anno è uguale a chi ne guadagna da 90 a 200 mila: sempre 200 euro», ha attaccato Bombardieri, denunciando come «interventi e detrazioni una tantum per il 2022 non riguardano i lavoratori part time e precari», dunque i più deboli.
«In quelle stime parlano sempre di percentuali ma un lavoratore lo vede subito in busta paga che l’effetto è di 6-7 euro, pari al vantaggio per chi ha redditi cinque volte superiori», gli faceva eco Landini snocciolando i nomi dei quotidiani adulatori del governo.

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L'analisi. La fondazione Di Vittorio (Cgil): a ottobre record di precari: tre milioni e 67 mila. Dopo vent'anni di controriforme neoliberali la crescita del Prodotto interno lordo macina record su record e precarizza milioni di persone. Lo sciopero di domani indetto da Cgil e Uil evoca modifiche a una struttura consolidata dal Jobs Act di Renzi e del Pd. Servirà una duratura, e non scontata, disponibilità alla lotta per cambiare una situazione che va bene al governo Draghi e alla sua maggioranza Frankenstein

Una differenza essenziale

 

Una differenza essenziale  © LaPresse

Se una «piena occupazione»esisterà in Italia sarà una piena occupazione precaria per almeno un terzo degli occupati che passano la vita alla ricerca di un lavoro povero, intermittente, pagato con salari da fame. Su questo modello è costruito il rimbalzo tecnico del prodotto interno lordo (Pil) del 6,2% dopo il crollo dell’8,9% provocato dalle quarantene per contenere la diffusione del Covid nel 2020. Questa è una caratteristica strutturale dell’economia italiana preparata da almeno vent’anni di controriforme neoliberali e perfezionata dal Jobs Act di Renzi e del Pd tra il 2014 e il 2016.

Ieri è stata di nuovo analizzata e confermata da «Il lavoro tra forte precarietà, contratti brevi e bassi salari», una ricerca della Fondazione Di Vittorio (Cgil). Solo gli occupati a termine, ormai oltre i 3 milioni, hanno superato il livello pre-pandemia e si avvicinano ai livelli più alti mai registrati prima. E all’appello mancano ancora quasi 200 mila gli occupati rispetto al periodo pre-pandemico. Arriveranno, prima o poi, e saranno anche loro, di nuovo, precari.

Nello studio si osserva come nel terzo trimestre del 2021, a fronte di una forte crescita del PIL (+2,6 sul trimestre precedente e +3,9% sul terzo trimestre 2020), l’incremento dell’occupazione sia molto più contenuto (+0,5% l’aumento congiunturale e +1,7% quello tendenziale). L’aumento tendenziale del numero di occupati registrato nel terzo trimestre 2021 (+374 mila) è il risultato di un incremento degli occupati dipendenti (+470 mila, di cui il 75,7% è a termine) e di un’ulteriore diminuzione degli occupati indipendenti (-96 mila). La variazione tendenziale osservata nel numero di dipendenti è evidentemente molto diversa tra i permanenti, che segnano un magro +0,8%, e quelli a termine, che registrano un considerevole +13,4%.

Tra dipendenti a tempo determinato e i part-time involontari, disoccupati sostanziali e censiti, inattivi il totale di chi si trova ai margini della cittadella del lavoro salariato è impressionante: quasi 9 milioni di persone. Questo è il motore della «crescita» che aumenta il Pil e precarizza milioni di persone. Per una crescita diversa, che si vorrebbe orientata verso la «transizione ecologica», servirebbero «misure di contrasto alla precarietà» osserva la segretaria confederale Cgil, Tania Scacchetti. Di tutto questo, fino a oggi, non c’è nemmeno l’ombra.

Lo sciopero di domani di Cgil e Uil è arrivato dopo avere constatato che né la legge di bilancio, né il piano di «ripresa e resilienza» (Pnrr) intaccano questa struttura. E il restyling dell’Irpef da 7 miliardi appaltato ai partiti della maggioranza Frankenstein avrà un impatto regressivo e premierà più i redditi medio-alti, non quelli bassi del ceto medio. «In un’Italia con salari mediamente più bassi che nelle principali economie dell’Eurozona, gli under 35 e le donne sono sotto la media salariale generale e contribuiscono in modo maggioritario a ingrossare l’area del lavoro povero – ha detto il presidente della Fondazione Di Vittorio Fulvio Fammoni – L’86,2% dei lavoratori si attesta sotto la soglia dei 35 mila euro lordi annui, cioè di quella parte che avrà anche meno benefici dalla prospettata riforma fiscale».

«L’operazione fatta dal governo redistribuisce al contrario, partendo da coloro che prendono di più anziché da coloro che prendono di meno – ha commentato ieri il segretario generale della Cgil Maurizio Landini – Negli ultimi vent’anni c’è’ stato un aumento della precarietà che non ha precedenti. Credo sia necessario ricostruire una cultura politica che rimetta al centro il ruolo del lavoro e il significato di ciò che attraverso il lavoro si fa».

L’impressione è che non basterà uno sciopero, forse tardivo. Il governo ha fatto sapere che non cambierà nulla. Né servirà un altro giro di tavolo (il 20) sulle pensioni per modificare le tendenze di fondo. Servirebbe una duratura, e non scontata, disponibilità alla lotta che è mancata negli anni della grande moderazione salariale, della precarizzazione e del consenso neoliberale

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