L'intervista. L'economista e politico italiano, fondatore del Forum sulle Disuguaglianze: "Le critiche di Cgil e Uil sono fiondate. Non credo che il governo Conte avrebbe fatto una manovra migliore. Il centrosinistra non ha la fiducia in sé per cambiare davvero le cose
Fabrizio Barca © LaPresse
Fabrizio Barca, la stupisce la demonizzazione in corso dello sciopero generale, da Confindustria al centrodestra?
Sono riusciti a stupirmi, incredibilmente: la reazione va al di là delle peggiori aspettative. Non sono neppure furbi. Se anche pensano, come si evince, che il confronto sociale acceso, il conflitto, è una cosa inutile e dannosa, potrebbero non dirlo in modo così sfacciato. È finita anche l’ipocrisia, e questo è un problema per la democrazia.
Perché?
Le critiche mosse alla manovra da Cgil e Uil sono forti e motivate. Si preferisce un confronto dietro le quinte a quello trasparente e pubblico? Non va bene. C’è una certa spavalderia nel modo in cui si mortificano gli strumenti della democrazia. E penso anche alle simulazioni di confronto che sono avvenute coi sindacati a palazzo Chigi.
Come valuta le posizione del Pd che si è detto «sorpreso» dallo sciopero?
La loro linea è: non si poteva andare oltre con una maggioranza così ampia. Difendono il loro operato: non condivido ma capisco. Io tuttavia penso che sugli anziani, sulle aliquote fiscali e sulle modifiche al reddito di cittadinanza si poteva e doveva fare di più. Anche con questo governo.
Draghi deve restare fino al 2023? Se si vota prima sono a rischio i fondi del Pnrr?
Sento l’urgenza di scelte radicali che il paese chiede. Non credo si debba decidere quando votare sulla base di presunte garanzie che un governo può dare nell’utilizzo dei fondi: è una mitologia. La macchina dello stato funziona ed è quella che conta. Semmai va rafforzata con una robusta iniezioni di giovani tramite concorsi.
Se ci fosse stato un governo di centrosinistra si sarebbe fatto di più nella manovra ? Ad esempio il governo Conte?
Sinceramente non credo. Penso al Pnrr, la cui gestazione è avvenuta, sotto il governo Conte, senza alcun ascolto della società civile. Mi pare che questo centrosinistra non abbia la fiducia in se stesso che lo renda in grado di fare cambiamenti radicali nel senso della giustizia sociale.
Eppure il Conte2 è stato definito uno degli esecutivi più a sinistra.
Vedo continuità con quello che sta facendo Draghi. Questa concezione dei soldi distribuiti a pioggia, senza un’idea di fondo e senza partecipazione, è propria della cultura conservatrice e stantia del neoliberismo che è penetrata nella pelle del centrosinistra. E del resto mi pare che il Pd di Letta sia consapevole di non avere nel suo carnet le necessarie proposte di emancipazione per una società sempre più disuguale. L’idea delle agorà nasce da questa consapevolezza: per individuare strategie efficaci e gruppi dirigenti rinnovati in grado di realizzarle bisogna adottare una modalità di ascolto e partecipazione innovativa.
Sono decenni che i partiti di sinistra fanno fumosi tavoli programmatici, gruppi di lavoro. Un rito che pare fine a se stesso. Sarà così anche stavolta?
Questo rischio esiste in tutte le sperimentazioni di nuova democrazia e viste negli ultimi 15 anni, a partire dai meet up del M5S. E questa è una della cause della crisi della democrazia che rischia di produrre derive tecnocratiche e autoritarie. Se le agorà produrranno 20/30 proposte puntuali di cambiamento da votare in rete sarà stato un successo. Noi come Forum delle disuguaglianze proponiamo consigli del lavoro e di cittadinanza, eredità universale per i 18enni e un’impresa pubblica europea per produrre vaccini.
Dunque parteciperete come Forum alle agorà?
Sì, lo faremo, mettendo a repentaglio in quel luogo inusuale le nostre proposte. Spero che ce ne siano tante altre, altrettanto caratterizzanti. Se finirà con enunciazioni astratte sarà un flop.
Cosa si aspetta dallo sciopero generale?
Mi augurio che, sentendo forte la voce del paese, il governo aggiusti il tiro su RdC e fisco. E poi mi aspetto che passi l’idea che si può tornare ad alzare la voce. Che è utile per la democrazia.
Eppure gli under 40, le generazioni più penalizzate dal precariato e dai bassi salari, sono silenti.
Hanno già mostrato il coraggio di mobilitarsi contro le guerre e per il clima, temi distanti dai loro interessi materiali. Sui temi sociali a mio avviso non vedono le condizioni perché una mobilitazione possa pesare. Sono molto più attivi a livello locale, nelle cose in cui possono mettere direttamente le mani. Alle ultime comunali abbiamo sostenuto come Forum una ventina di giovani candidati: sono rimasto stupito dai loro consensi, dalla capacità di raccogliere i voti di ragazzi come loro che hanno visto una reale possibilità di cambiamento.
Alcuni neoeletti nelle liste civiche di sinistra stanno pensando a un coordinamento nazionale. Forse a una lista per le prossime politiche.
Mi pare un’ottima idea, purché non si ossifichi immediatamente in una operazione elettorale: prima vengono i contenuti.
Perchè ha definito Draghi un conservatore?
Rappresenta l’idea che il paese non si possa cambiare, di rimettere le cose com’erano prima della pandemia. Ma non funziona, già prima c’erano contraddizioni troppo gravi, una rabbia sociale che si è manifestata con i voti a Trump, Salvini, Orban. Alle enormi disuguaglianze create dalla stagione neoliberista si ripara solo con un radicale cambiamento. Che purtroppo non è nelle corde del centrosinistra.
Letta l’ha capito?
Mi pare partecipe di questa consapevolezza che non si può andare avanti con questo livello di insostenibilità sociale, concetto che nel centro Europa è molto più diffuso che in Italia. Mi auguro che questa consapevolezza si traduca anche nel suo agire politico.
Ha ancora speranze sul fatto che il Pnrr possa migliorare la vita degli italiani?
Su alcuni temi sì: il ministro Bianchi ha ottenuto 1,5 miliardi contro la povertà educativa e la dispersione. Ci sono buoni progetti, i soldi possono fare la differenza. E credo anche che i comuni, che hanno buoni margini di spesa e in media una buona qualità di governo, possano raddrizzare la situazione e fare buon uso dei fondi europei.
Spese militari . «La spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000. Si avvicina a 2 trilioni di dollari Usa all'anno, ed è in aumento in tutte le regioni del mondo - sostengono i Nobel - i singoli governi sono sotto pressione per aumentare le spese militari perché gli altri lo fanno». È la corsa agli armamenti.
Certo non è la messa in pratica della parola d’ordine del movimento operaio all’inizio del secolo breve, ripresa, tutti ricorderanno, dal preside te Sandro Pertini: «Si svuotino gli arsenali di armi, si riempiano i granai», ma la proposta avanzata ieri con un appello sottoscritto da cinquanta premi Nobel e accademici di ogni paese – tra gli altri da Carlo Rubbia e Giorgio Parisi -, è davvero molto importante. Soprattutto perché, probabilmente con la moralità di chi sente necessaria una restituzione di verità – quanta scienza è stata abusata dalla ricerca militare per distruggere invece che per costruire? – si rivolge in modo semplice e diretto ai governi del mondo.
Che cosa dichiara e chiede l’appello? Di negoziare una riduzione equilibrata della spesa militare globale che darebbe l’avvio ad un grande «dividendo globale per la pace», liberando enormi risorse da utilizzare per i gravi problemi dell’umanità: pandemie, riscaldamento globale, povertà estrema. E lo fa subito con una denuncia che fotografa l’attuale condizione del pianeta alle prese con ogni specie di conflitto armato: «La spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000. Si avvicina a 2 trilioni di dollari Usa all’anno, ed è in aumento in tutte le regioni del mondo – sostengono i Nobel – i singoli governi sono sotto pressione per aumentare le spese militari perché gli altri lo fanno». È la corsa agli armamenti.
Un colossale spreco di risorse che potrebbero essere utilizzate molto più saggiamente». È il circolo vizioso di più armi più guerra, più guerra più armi – sempre più sofisticate – dal quale non solo non si esce ma sempre più diventa un mare di sabbie mobili. Per una corsa agli armamenti raddoppiata in 20 anni che ha generato solo conflitti mortali devastanti. La proposta? «I governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite negozino una riduzione comune delle loro spese militari del 2% ogni anno, per cinque anni. La logica della proposta è semplice: le nazioni avversarie riducono le spese militari, quindi la sicurezza di ogni paese è aumentata, mentre deterrenza e equilibrio sono preservati.
Proponiamo che metà delle risorse liberate da questo accordo siano destinate a un fondo globale, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, per affrontare i gravi problemi comuni dell’umanità… L’altra metà resti a disposizione dei singoli governi». Insomma, insistono i Nobel: «Collaboriamo, invece di farci guerra». Troppo semplicistico? Mica tanto. Facciamo pure noi i nostri conti in tasca. In Italia 26 miliardi di euro son spesi annualmente dal ministero della Difesa, equivalenti a una media di oltre 70 milioni di euro al giorno – a fronte dei peggiori salari del Continente, delle spese sanitarie mancanti e dell’accanimento sul reddito di cittadinanza.
A questi si aggiunge per i prossimi anni un fondo di 30 miliardi di euro stanziati a fini militari dal Ministero dello Sviluppo economico e di altri 25 richiesti dal Recovery Fund. Nei prossimi anni, come richiesto dalla Nato e ribadito dagli Usa, occorre passare ad almeno 36 miliardi di euro annui, equivalenti a una media di circa 100 milioni di euro al giorno. Nel mondo ogni minuto si spendono circa 4 milioni di dollari a scopo militare. Nel 2020 la spesa militare mondiale ha quasi raggiunto i 2.000 miliardi di dollari, il più alto livello dal 1988 al netto dell’inflazione.
La spesa militare mondiale è trainata da quella statunitense, salita a circa 770 miliardi di dollari annui (stime del Sipri, 3 volte la spesa militare della Cina e 12 volte quella della Russia). La cifra rappresenta il budget del Pentagono, comprensivo di operazioni belliche. E con altre voci di carattere militare siamo al totale di oltre 1.000 miliardi annui.
Qualcuno subito dirà dell’ingenuità dell’appello dei premi Nobel: il 2% alla fine comunque legittimerebbe che l’altro 98% venga comunque utilizzato per la guerra. Ma attenzione, questo risparmio che, fatti i conti su 2 trilioni di dollari, vorrebbe dire mille miliardi di lire stornati per la pace e le necessità vitali dell’umanità, non corre alcun il rischio – vorremmo essere smentiti – di essere approvato da nessun governo del mondo impegnato a chiacchiere nella «transizione ecologica» con gli arsenali pieni di armi, anche atomiche.
Giacché tutti sono attivi nella corsa al riarmo, perfino con il ricatto dell’occupazione – che pesa anche sul sindacato , perché un vero discorso sulla riconversione dell’industria bellica non è mai diventato pratica diffusa. Tutti, a partire dal governo Draghi che più volte ha annunciato un «riarmo» mentre avvia i traffici più oscuri di vendita di armamenti a regimi corrotti e dittatoriali, se non addirittura in guerra o che occupano altri Paesi.
Un governo Draghi impegnato con Macron e altri leader europei – pensate agli «ecologici» droni armati che suggellano il patto di governo verdi-socialdemocratici in Germania – non a ridurre la spesa per le armi ma «semplicemente» a raddoppiarla con la cosiddetta Difesa europea. Intesa non come alternativa alle spese gravose per l’Alleanza atlantica, ma come aggiunta doppia, come rinforzo della Nato che resta centrale – anche nell’attivare nuove crisi e guerre dopo quelle disastrose che l’hanno vista protagonista. Porga l’ascolto e risponda dunque Draghi all’appello dei 50 accademici e premi Nobel.
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Una nuova sfida. Alcuni esponenti lasciano il partito, per provare a dare vita ad allargare il fronte della sinistra progressista e ambientalista
Insieme a iscritt* dirigent* e simpatizzanti di Sinistra Italiana consideriamo esaurito questo percorso, che appare inadeguato a rispondere alla sfida di costruzione di un soggetto radicale, unitario, ecologista, e di sinistra.
Anche il dibattito che si è aperto sul manifesto dopo le amministrative conferma l’opportunità di questa decisione. In questa fase storica segnata dalla pandemia, dalla necessità di una ripartenza del Paese fondata sul rilancio di beni e servizi pubblici di qualità, dalla sfida climatica come occasione di battaglia radicale per la giustizia ambientale e sociale, bisogna investire su un campo largo, plurale, democratico e progressista, competitivo nella sfida delle prossime elezioni politiche per impedire la vittoria del fronte sovranista e conservatore.
Tutte le organizzazioni politiche della sinistra e degli ecologisti, a cui va riconosciuta la coraggiosa resistenza in anni difficili nonché il merito di aver tenuto aperto uno spazio pubblico, oggi appaiono inadeguate: più causa di difficoltà che non soluzione del problema. Organizzazioni politiche spesso poco utili anche per sostenere una nuova stagione di movimenti e mutualismo socio-ecologico che, pur in forme inedite e nuove, attraversa i territori e i posti di lavoro.
È evidente che il Pd, parte decisiva e contraddittoria per qualsiasi ipotesi di coalizione democratica, da solo non ce la fa. Anche nella prospettiva di un accordo con il M5S rimane aperto un vasto spazio pubblico per una proposta politica radicale nei valori, pragmatica negli obiettivi, fortemente collocata nel filone dell’europeismo progressista e ambientalista. Una proposta che assuma la radicalità della conversione ecologica dell’economia e della transizione energetica pulita come leve di una rinnovata battaglia per la giustizia sociale. Fa riflettere in questa prospettiva la mancanza di una forte iniziativa politica nel momento in cui il sindacato decide giustamente di riaprire una vertenza conflittuale sulla legge di stabilità.
Dall’Europa e in particolare dalla Germania ci arriva la conferma che i vecchi schemi non bastano più: una coalizione a traino socialdemocratico si appresta a governare insieme a Verdi e Liberali con un programma molto più avanzato anche del “nostro” centrosinistra: salario minimo a 12 euro, legalizzazione delle sostanze leggere, conferma della fuoriuscita totale da nucleare per citare solo i punti principali.
Questo spazio pubblico è già traversato da moltissime iniziative e animato da una nuova generazione di attiviste (e attivisti) che hanno un ruolo anche nelle istituzioni locali: Elly Schlein, Emily Clancy, Michela Cicculli, Sandro Luparelli, Amedo Ciaccheri, la sindaca di Bertinoro Gessica Allegni, l’assessora toscana Spinelli senza dimenticare Milano, Napoli, Torino. Questa nuova generazione politica e non solo anagrafica è chiamata oggi a fare un passo in avanti e prendere in mano la costruzione di questa proposta che non può essere un nuovo partitino ma deve, a partire da una piattaforma di obiettivi, mobilitare e aggregare il popolo ambientalista, progressista, di sinistra.
Anche l’iniziativa di Pragmatica svoltasi a Roma sabato 27 novembre che allude alla costituzione di una piattaforma nazionale comune della nuova generazione di attivisti e amministratori può liberare energie presenti nei territori, nel mondo del volontariato e del mutualismo sociale.
Le singole esperienze organizzate garantiscono esclusivamente rendite di posizione sempre più deboli e autoreferenziali. La crisi climatica e la necessaria transizione ecologica richiedono invece un nuovo orizzonte di azione in cui la lotta per la giustizia ambientale e quella per la giustizia sociale procedano di pari passo.
Non può esserci cambiamento equosolidale in assenza di una soggettività europeista, ecologista e solidale, concentrata su misure di welfare universale e con lo sguardo rivolto alle grandi contraddizioni globali del nostro tempo.
Tali riflessioni hanno animato in questi ultimi mesi il nuovo spazio partecipato di discussione e di iniziativa pubblica «Italia Verde e Giusta» promosso dal contributo dei parlamentari Loredana De Petris, Francesco Laforgia e Luca Pastorino che ha coinvolto il sindaco di Milano Sala, il leader del M5S Conte, tanti amministratori locali e sindaci civici protagonisti di coalizioni larghe e decisive per la vittoria del centrosinistra in moltissime città. Sono avvenuti atti politici nuovi che meritano di essere tenuti in considerazione, come l’adesione del sindaco Sala alla carta dei valori dei Verdi Europei e quella del M5S di Conte al campo democratico e progressista.
Sono convinto che tornare in campo aperto, considerando esauriti i percorsi delle frammentate forze della sinistra e degli ecologisti, possa darci ancora una volta una possibilità. Non è più tempo di accontentarsi della pur generosa testimonianza. È ora di provare ad attraversare i territori e le istituzioni con la voglia di battersi ancora per «un altro mondo possibile».
SCIOPERO GENERALE, LAVORO, CLIMA, ENERGIA E AMBIENTE
Lo squarcio aperto dallo sciopero generale del 16 Dicembre è illuminante ed è per questo che lo si vuole oscurare. Non solo fa luce sulla precarietà del lavoro, l'accrescimento delle disuguaglianze e l'insufficienza delle risorse poste a disposizione dei ceti più deboli, ma è una limpida presa di distanza dalla economia politica di Draghi, condotta sotto il segno dell’ineluttabilità dell’emergenza sanitaria e giustificata dall’approccio esaustivo di una scienza medica “ufficiale” dedicata ai sopravvissuti, anziché più compiutamente alla cura universale del vivente. Una cura da cui, come ripete Bergoglio – citato di sfuggita all’atto del suo insediamento dal Presidente del Consiglio - dipenderà sempre di più il futuro dell’intero Pianeta. La scienza medica – quella, non dimentichiamolo, controllata da Big Pharma - ha praticamente sussunto ogni risorsa del Paese ed ha portato ad investire immense risorse pubbliche sui vaccini e per le case farmaceutiche, lasciando in ombra una linea volta ad una politica di investimenti delle risorse pubbliche degli stati sulla sanità, sulla prevenzione sui trasporti, sulle scuole, sulla salute e la rigenerazione del Pianeta. Si è purtroppo tralasciato di investire su tutte quelle cose che all’inizio della pandemia si era detto di voler fare e che sono state messe in elenco di un PNRR che ancora rimane pressoché sconosciuto, quando non funge da copertura di modelli superati, come nel caso delle centrali a turbogas disdegnate nei territori cui sarebbero destinate( v https://www.ilsole24ore.com/art/la-corsa-centrali-gas-ecco-mappa-48-progetti-italia-AEZ4Vk1 ). Così, anche la scienza, per definizione interdisciplinare e in fermento dialettico su obiettivi in continua verifica, con Draghi non ha messo a frutto le sue potenzialità su un arco vasto da poter spaziare sulle più insidiose emergenze che ci ritroveremo aggravate e sulle spalle dei ceti più deboli ed emarginati. La partecipazione dei cittadini, dei territori, delle istanze associative e istituzionali, dei sindacati è stata mortificata ed anche le scienze ne hanno sofferto in un isolamento sociale presidiato da specialisti. Non deve quindi stupire se il Nobel Giorgio Parisi abbia dedicato le sue prime parole di soddisfazione per il premio ricevuto non al successo delle sue formule, ma alle problematiche che l’avanzamento della conoscenza pone alla politica per il brusco cambiamento climatico in corso.
Lo sciopero in preparazione nei luoghi di lavoro che Landini e Bombardieri hanno sapientemente indetto, fa presente al Paese che il mondo del lavoro pretende, proprio quando la pandemia è in corso, uno sforzo di cambiamento strutturale nel sistema liberista - indiscusso vincitore al presente – ma nemico del risanamento climatico, della cura del Pianeta, della giustizia sociale. Intanto che i nostri Tg e i Talk Show inanellavano da mane a sera dati sui contagi, il nuovo governo tedesco raggiungeva un accordo definitivo sul superamento dell’energia nucleare e spingeva per traguardi ambiziosi sulle rinnovabili, mettendo in allarme i tessitori europei della nuova tassonomia verde da adottare per i fondi pubblici europei. La Spagna Intanto spostava il suo potenziale elettrico su eolico e solare e nel Baltico si innalzavano pale da decine di MW ciascuna. In compenso, con i cittadini a far da spettatori in uno scenario desolante saturato dal “totoquirinale” e dalle previsioni per Febbraio 2022 sull’ex guida della BCE, i nostri ministri, chiamati in causa sulla transizione energetica e sulla politica industriale, motteggiavano sul ritorno dell’atomo e facevano passare sotto silenzio la privatizzazione dell’acqua per decreto, registrando impotenti una pioggia di richieste di delocalizzazioni di imprese.
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Energia, salute acqua, lavoro: quattro temi che non possono che essere al centro di uno sciopero generale provvidenziale. Si salderebbe così un debito tra lavoro e studenti e ambiente e si cancellerebbe un improvvido manifesto corporativo sottoscritto con Confindustria dai sindacati di categoria confederali degli elettrici ed esibito come un trofeo da Cingolani e Descalzi.al palco di Atreju, la festa della Meloni. Nel documento congiunto Confindustria-Sindacati Elettrici confederali (v. https://www.filctemcgil.it/index.php/notiziario/iniziative/lavoro-ed-energia-il-manifesto ) ci si spinge addirittura a chiedere di considerare accettabile il metano nella tassonomia verde UE, intaccando così la credibilità al Green Deal e tirando un colpo mancino alle popolazioni che, come a Civitavecchia, riprogettano con esperti, imprese e ricercatori un apparato di produzione elettrica non fossile.
Il 15 Dicembre pomeriggio verrà installata una tenda di fronte al Mite per ricordare gli impegni imposti su acqua e nucleare dai referendum del 2011 e per contrastare il ricorso al gas fossile nei nuovi impianti energetici. C’è una continuità tra la tenda e l’astensione dal lavoro del giorno dopo: il conflitto e il dissenso rendono più forte la democrazia e meno soli i rappresentanti soprattutto quando gli interessi in campo travalicano le corporazioni e guardano alle nuove generazioni e al diritto all’ambiente ed al lavoro. Perfino tra ENI ed ENEL al massimo livello si è aperta una diversa visione del ruolo delle partecipate pubbliche sul destino delle fonti fossili e rinnovabili. Perché mai non ne dovrebbero essere attivamente informati e partecipi i cittadini che pagano le tasse e le bollette?
E’ augurabile quindi che i cittadini, i lavoratori e le piazze mandino il segnale di una inversione - con particolare speranza e fiducia anche nei giovani attivisti che in questi ultimi anni hanno dato vita a grandi manifestazioni per nuove politiche orientate alla piena occupazione “verde”, in una società strutturalmente pacifica e più giusta.
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12 dicembre ’69. Quella strage racconta la modalità regressiva delle classi dirigenti italiane di fronte alle crisi e alla loro incapacità nell'assorbire l'ingresso delle masse nella vita pubblica
Un aspetto dei funerali che si sono svolti nell'interno del Duomo. Fuori dal Duomo una folla immensa © Torino/LaPresse
Il 12 dicembre 1969, cinquantadue anni fa, è una data che racconta molto dell’Italia di fine anni Sessanta. È un Giano bifronte della storia del Paese che sintetizza le grandi spinte progressive emerse dalle lotte sociali delle classi subalterne nel corso del biennio 1968-1969 (la più grande mobilitazione operaia e sindacale della storia della Repubblica) e le recrudescenze regressive delle classi proprietarie deflagrate, in maniera anonima e non rivendicata, con la strage di Piazza Fontana e gli attentati di Roma.
Il 12 dicembre il Senato votava l’approvazione in prima lettura dello Statuto dei Lavoratori (diverrà legge il 20 maggio 1970 con il voto della Camera) mentre a Parigi il ministro degli Esteri Aldo Moro rappresentava l’Italia nella riunione del Consiglio d’Europa che avrebbe espulso la Grecia dei colonnelli (che preferì ritirasi da sola) dal consesso delle democrazie continentali.
Nelle ore successive alla strage, compiuta dai fascisti di Ordine Nuovo con il decisivo supporto degli apparati di forza dello Stato, l’Italia poté assistere all’indecenza di un ferroviere anarchico già staffetta partigiana (Giuseppe Pinelli) interrogato negli uffici della Questura di Milano diretta da un ex capo-carceriere fascista (Marcello Guida, già direttore del confino di Ventotene). Da quegli uffici Pinelli uscì volando dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi dove era trattenuto illegalmente ben oltre i termini del fermo di polizia. Intanto il canale unico della Rai-Tv con l’inviato Bruno Vespa annunciava a tutti gli italiani che l’anarchico Pietro Valpreda era «uno dei colpevoli della strage di Milano e degli attentati di Roma». Si ruppe lungo quel crinale il rapporto di fiducia tra l’informazione ufficiale e l’opinione pubblica e da lì nacque, con glorie e limiti, la «controinformazione».
L’anomalia italiana rispetto al resto d’Europa si configurò nel rapporto torsivo tra ingresso della democrazia conflittuale nella sfera pubblica e risposta armata di organismi politici, paramilitari e militari. Milioni di ore di sciopero, manifestazioni, occupazioni di università e scuole o scioperi «selvaggi» si ebbero in tutti i Paesi europei a capitalismo maturo e democrazia liberale. In nessuno di questi Stati lo stragismo si manifestò come fenomeno di lunga durata e di opposizione diretta a tali processi, configurando una dimensione distorta non solo del conflitto sociale ma anche della categoria della «violenza politica» che nell’immaginario collettivo di oggi è associata non alle stragi e alle responsabilità dello Stato (prontamente autoassoltosi) ma solo agli anni cinematograficamente definiti «di piombo», così da cancellarne il tratto democratico con cui si caratterizzano.
Il 12 dicembre racconta la modalità regressiva con cui le classi dirigenti italiane hanno storicamente approcciato alle crisi ma soprattutto tanto la loro incapacità nell’assorbire l’ingresso delle masse nella vita pubblica quanto la loro repulsione verso la democrazia conflittuale, che segna invece il carattere della Costituzione repubblicana nata dall’eredità dell’antifascismo e della Resistenza.
In un quadro storico completamente mutato; ad oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino; in una fase di «riflusso» della globalizzazione; in un contesto mondiale piegato dalla crisi pandemica che da subito si è correlata con la crisi economico-sociale e formativo-culturale, fa una certa impressione – fatta salva l’«unicità» della stagione di lotte dell’autunno caldo – registrare come scioperi, manifestazioni e partecipazione dal basso vengano anche oggi delegittimati e definiti «irresponsabili» quando al contrario rappresentano il diritto ad esistere delle classi subalterne dentro questa crisi non più solo come oggetto ma come soggetto.
Tra gli indirizzi positivi che si possono trarre dalle stagioni ’60-’70 emergono senza dubbio la centralità dell’agire collettivo e la pratica dell’uguaglianza sostanziale e della sovranità popolare che informano cuore e visione della Costituzione. Quando in discussione sono i fondamenti della salute, del lavoro, della giustizia sociale, dell’istruzione e dell’uguaglianza di genere è indispensabile, per la sopravvivenza di una democrazia, la mobilitazione delle forze sociali e popolari.
Per questo è una buona notizia «che viene dal passato» e si conferma nel presente delle diseguaglianze, il fatto che lavoratori, precari, disoccupati e chi paga nel quotidiano il prezzo duro della crisi liberale pretendano il diritto di parola e rivendichino i propri diritti ed interessi di classe. Ciò segna, a dispetto della «indignazione liberale», il ritorno nello spazio pubblico di un pezzo largo della società, non più ricurvo nella solitudine scura della crisi. «È fatto giorno -scriveva Rocco Scotellaro- siamo entrati in gioco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo».
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Il golpe in casa. Del resto bastava guardare a 70 anni di storia per capire che gli Stati uniti, che si battono contro le ingerenze altrui, nelle crisi internazionali, abbiano costruito la distruzione della democrazia altrui, attraverso un sistema violento di ingerenza politica e militare con colpi di stato
Avete presente, lo «stupore» del governo Draghi di fronte alla proclamazione dello sciopero generale del 16 dicembre per l’iniquità della legge di bilancio? Non è stupore, è ipocrisia. Sono pienamente consapevoli che la legge di bilancio è limitata e sbagliata di fronte al peso delle diseguaglianze che dilagano con in più la condizione della pandemia, ma è come se dicessero: «Che volete di più?». Malcelata e sottesa alla stupefazione fa capolino l’ipocrisia consapevole, che sbatte sul piatto della bilancia l’attualità dei rapporti di forza tra le classi.
E se volgiamo lo sguardo alle cose del mondo, è quasi peggio. L’anno che volge al termine si è aperto con un evento epocale- paragonabile alla caduta del Muro di Berlino – l’assalto dei riots al Campidoglio americano, simbolo della democrazia statunitense, contro «il furto della vittoria presidenziale di Trump». Sull’evento oggi si celebrano processi che tuttavia sembrano riattivare la pancia reazionaria e di massa dell’America e lo stesso Donald Trump, mentre, denunciano il Guardian e il New York Times, emerge anche un sordido golpe preparato da Trump, con tanto di stato d’assedio militare pronto, per fermare l’insediamento di Biden. All’assalto guardò uno sgomento e immobile neoeletto Joe Biden. «Non è questa la faccia dell’America – gridò Biden – il mondo ci guarda, noi siamo il faro della democrazia».
Ma quel giorno il «faro» si spense e Alan Friedman, non un bolscevico, commentò: «Ora non possiamo più essere il modello di democrazia nel mondo». Se fosse andato in porto il golpe di Trump saremmo stati alla nemesi cilena della storia americana.
Del resto bastava guardare a 70 anni di storia per capire che gli Stati uniti, che si battono contro le ingerenze altrui, nelle crisi internazionali, abbiano costruito la distruzione della democrazia altrui, attraverso un sistema violento di ingerenza politica e militare con colpi di stato – c’è un nuovo libro illuminante da leggere “Sistema Giacarta” – finanziamento di paramilitari (anche in Italia), e soprattutto guerre, tante guerre impunite delle quali soffriamo i nostoi, i tragici ritorni che si chiamano profughi, una umanità disperata quanto cancellata; e il terrorismo come risposta asimmetrica, violenta e sanguinosa anch’essa, alle aggressioni militari che hanno devastato generazioni e continenti a partire dal Medio Oriente.
Fino al ritiro Usa dall’Afghanistan la cui occupazione militare con la Nato è durata 20 anni, ma come «vendetta per l’11 settembre 2001» non certo per la democrazia: parole di Biden. Che torna nella crisi ucraina come un elefante, dimentico del suo coinvolgimento personale non limpido nelle vicende di Kiev fin dalla rivolta oscura di Piazza Majdan, per riaprire lo scontro con la Russia (che il capo di stato maggiore Usa Austin chiama ancora «Unione sovietica»), rea di «aggressione» perché muove le truppe entro i suoi confini però – le aggressioni belliche Usa sono state ben altra cosa e purtroppo fuori dai suoi confini. Poi, se un’alleanza militare offensiva come è la Nato – rivitalizzata con il pericoloso allargamento a Est che circonda la Russia con sistemi d’arma, basi, missili, manovre dal Baltico al Mar Nero -, si allargasse ai confini Usa saremmo già alla Terza guerra mondiale.
Così ha promosso un vertice con Putin dal quale il leader russo – che in quanto ad ipocrisie non scherza – è uscito mezzo vincitore, perché si è reso evidente che quella potenza è tutto meno che in declino. Se ne deve essere accorto tardivamente Biden perché da due giorni la Casa bianca tuona che saranno gli Stati uniti a decidere sull’ingresso nella Nato dell’Ucraina. Rischiamo un Afghanistan nel cuore d’Europa: a deciderlo sarà Biden.
Non è dato poi capire che cosa sia realmente cambiato negli Usa in questi quasi dodici mesi, se non la pandemia – che dovremmo «ringraziare», ahimé, se nella cruda Europa ha permesso finora la sospensione del patto di stabilità – finalmente riconosciuta dopo il negazionismo di Stato trumpiano e per la quale vengono impegnati montagne di finanziamenti. Ma la stagione americana resta attraversata da diseguaglianze profonde, di reddito, di razza, di genere – per non dire della guerra civile strisciante che l’attraversa -, mentre in numerosi Stati viene rimesso in discussione anche il diritto di voto. Per i migranti Biden riedita la politica trumpiana del respingimento e del Muro per la marea umana in fuga dall’America centrale e dall’America latina verso i confini del Messico.
Ma l’ipocrisia americana è inarrestabile: ha avviato sanzioni contro la Bielorussia per il suo ruolo vergognoso nella pressione dei profughi afghani alla frontiera polacca usandoli come squallida arma politica, mentre gli Usa stabiliscono un nuovo rapporto politico-istituzionale di forza con Messico e America centrale basato sui respingimenti dei migranti e in forza del Muro americano alla frontiera. Parafrasando Orwell e guardando le tendopoli nostrane ora al gelo, dal Pas de Calais, a Ventimiglia, al confine di fili spinati spagnolo, ai boschi polacchi, alla Bosnia, se il presidente bielorusso Lukashenko è un porco come distinguerlo dai maiali europei e occidentali?
Nonostante tutto questo Biden si è fatto promotore di un «summit per la democrazia» esclusivo dei cattivi e dei nuovi nemici, riproponendo gli Usa come faro, senza avere risolto alcuno dei problemi che ha in casa, e scegliendo come interlocutori altri «fari» quali Bolsonaro, Erdogan, il Pakistan, il governo polacco sotto infrazione dalla Corte Ue per violazione dello stato di diritto. Un’operazione che il settimanale Time ha definito una «vetta di ipocrisia».
A riprova, nello stesso giorno del summit è arrivata la nuova sentenza contro Julian Assange, che con Wikileaks è stato il «giornalista diffuso» che ha rivelato i crimini delle guerre occidentali in Iraq e Afghanistan. Ora Assange è estradabile negli Stati uniti. Lo aspetta un tribunale per accusarlo di tradimento. Con lui è colpita a morte la libertà d’informazione, cuore di ogni democrazia. Il faro americano resta spento.
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